"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’,
ma leggetela e fatela leggere"

Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
Evangelo come mi è stato rivelato
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Domenica 27 Gennaio 2013, III Domenica delle ferie del Tempo Ordinario - Anno C

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 1,1-4.4,14-21.
Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi,
come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola,
così ho deciso anch'io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teòfilo,
perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo e la sua fama si diffuse in tutta la regione.
Insegnava nelle loro sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi.
Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere.
Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi,
e predicare un anno di grazia del Signore.
Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui.
Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 1 Capitolo 18 pagina 109.
Mi appare la casetta di Nazareth, e Maria è in essa. Maria giovinetta come quando l’Angelo di Dio le apparve. Il solo vedere mi fa l’anima piena del profumo verginale di quella dimora. Del profumo angelico che ancora permane nell’ambiente dove l’Angelo ha ventilato le sue ali d’oro. Del profumo divino che si è tutto concentrato su Maria per fare di Lei una Madre e che ora da Lei si effonde.
È sera, perché le ombre cominciano a invadere l’ambiente dove prima era scesa tanta luce di Cie­lo.
Maria, in ginocchio presso il suo lettuccio, prega con le braccia incrociate sul seno e col volto mol­to curvato verso terra. È ancora vestita come lo era al momento dell’Annuncio. Tutto è come allora.
Il ramo fiorito nel suo vaso, le suppellettili nello stesso ordine. Soltanto la rocca e il fuso sono ap­poggiati in un angolo, col suo pennacchio di stame l’una, col suo lucido filo avvolto intorno l’altro.
Maria cessa di pregare e si alza, col volto acceso come da una fiamma. La bocca sorride ma il pianto fa lucido il suo occhio azzurro. Prende il lume ad olio e con la pietra focaia lo accende. Guarda che tutto sia ordinato nella cameretta. Raddrizza la coperta del lettuccio, che si era spostata. Ag­giunge acqua nel vaso del ramo fiorito e lo porta fuori, nel fresco della notte. Poi rientra. Prende il ricamo piegato sul mobile a scansia e il lume acceso, ed esce chiudendo la porta.
Fa pochi passi nell’orticello, costeggiando la casa, e poi entra nella stanzetta dove ho visto avve­nire l’addio di Gesù a Maria. La riconosco, benché manchi ora di qualche suppellettile che vi era allo­ra. Maria scompare, portando seco il lume, in un altro piccolo ambiente presso a questo, ed io resto lì con l’unica compagnia del suo lavoro posato sull’angolo del tavolo. Odo il passo leggero di Maria andare e venire, l’odo smuovere dell’acqua come chi lava qualche cosa, poi rompere dei rametti, ca­pisco che è legna spezzata dal suono che fa. Sento che accende il fuoco.
Poi torna. Esce nel giardinetto. Rientra con delle mele e delle verdure. Posa le mele sul tavolo, in un vassoio di metallo inciso, mi pare rame bulinato. Torna in cucina (certo di là è la cucina). Ora la fiamma del focolare si proietta gioconda dalla porta aperta sin qua dentro e fa una danza d’ombre sulle pareti.
Passa qualche tempo e Maria torna con un pane piccolo e bruno e una ciotola di latte caldo. Si siede e bagna delle fettine di pane nel latte. Mangia quieta e adagio. Poi, lasciando metà tazza di lat­te, entra di nuovo in cucina e torna con le verdure, sulle quali versa dell’olio, e le mangia col pane. Si disseta col latte. Poi prende una mela e la mangia. Una cena da bambina.
Maria mangia e pensa, e sorride ad un interno pensiero. Alza e gira gli occhi sulle pareti e pare che comunichi loro un suo segreto. Ogni tanto però si fa seria, quasi mesta. Ma poi il sorriso torna.
Si ode bussare alla porta. Maria si alza e apre. Entra Giuseppe. Si salutano. Poi Giuseppe siede su uno sgabello di fronte a Maria, al di là del tavolo.
Giuseppe è un bell’uomo nella pienezza dell’età. Avrà un trentacinque anni al massimo. I suoi ca­pelli castano scuri e la sua barba, pure castana scura, gli incorniciano un viso regolare con due dolci occhi di un castano quasi nero. Ha fronte spaziosa e liscia, naso sottile, lievemente arcuato, guance piuttosto tonde di un bruno non olivastro, ma anzi rosato ai pomelli. Non è molto alto. Ma è robusto e ben fatto.
Prima di sedere si è levato il mantello, che (è il primo che vedo fatto così) è a ruota intera, ferma­to alla gola da un gancio o simile, ed ha il cappuccio. È di color marrone chiaro e pare di una stoffa impermeabile di lana grezza. Sembra un mantello da montanaro, adatto a far riparo alle intemperie.
Anche prima di sedere offre a Maria due uova e una pigna d’uva, un poco vizza ma ben conserva­ta. E sorride dicendo: «Me l’hanno portata da Cana. Le uova me le ha date il Centurione per un lavo­ro che ho fatto ad un suo carro. Si era rotto in una ruota e il loro operaio è malato. Sono fresche. Le ha prese nel suo pollaio. Bévile. Ti faranno bene».
«Domani, Giuseppe. Ora ho mangiato».
«Ma l’uva la puoi prendere. È buona. Dolce come il miele. L’ho portata piano per non sciuparla. Mangiala. Ce ne ho ancora. Te la porterò domani in un canestrello. Questa sera non potevo, perché vengo direttamente da casa del Centurione».
«Allora non hai ancora cenato».
«No. Ma non importa».
Maria si alza subito e va in cucina, e torna con dell’altro latte e delle ulive e formaggio. «Non ho altro», dice. «Prendi un uovo».
Giuseppe non vuole. Le uova sono per Maria. Mangia con gusto il suo pane e formaggio e beve il latte ancor tiepido. Poi accetta una mela. La cena è finita.
Maria prende il suo ricamo, dopo aver sbarazzato la tavola dalle stoviglie, e Giuseppe l’aiuta e re­sta in cucina anche quando Lei torna di qua. Lo sento smuovere riponendo tutto a posto. Riattizza il fuoco, perché la sera è fresca. Quando torna, Maria lo ringrazia.
Parlano fra loro. Giuseppe racconta come ha passato la giornata. Parla dei suoi nipotini. Si inte­ressa del lavoro di Maria e dei suoi fiori. Promette di portarle dei fiori tanto belli che il Centurione gli ha promessi. «Sono fiori che noi non abbiamo. Li hanno portati da Roma. Mi ha promesso le pianti­ne. Ora, quando la luna è propizia, te li pianto. Hanno bei colori e un odore molto buono. Li ho visti l’estate scorsa, perché fioriscono d’estate. Ti profumeranno tutta la casa. Poi poterò le piante a luna buona. È tempo».
Maria sorride e ringrazia. Un silenzio. Giuseppe guarda la testa bionda di Maria curva sul suo ri­camo. Uno sguardo di amore angelico. Certo, se un angelo amasse una donna d’amore di sposo, la guarderebbe così.
Maria, come chi prenda una decisione, posa in grembo il ricamo e dice: «Giuseppe, anche io ho qualche cosa da dirti. Non ho mai nulla, perché tu sai come vivo ritirata. Ma oggi ho una notizia. Ho avuto notizia che la parente nostra Elisabetta, moglie di Zaccaria, sta per avere un figlio…».
Giuseppe sgrana gli occhi e dice: «A quell’età?».
«A quell’età», risponde sorridendo Maria. «Tutto può il Signore. Ed ora ha voluto dare questa gioia alla parente nostra».
«Come lo sai? È sicura la notizia?».
«È venuto un messaggero. Ed è uno che non può mentire. Vorrei andare da Elisabetta, per servir­la e dirle che giubilo con lei. Se tu lo permetti…».
«Maria, tu sei la mia donna ed io il tuo servo. Tutto quanto fai è ben fatto. Quando vorresti parti­re?».
«Al più presto. Ma starò via dei mesi».
«Ed io conterò i giorni aspettandoti. Va’ tranquilla. Alla casa e al tuo orticello penserò io. Troverai i tuoi fiori belli come se tu li avessi curati. Soltanto… aspetta. Devo andare prima della Pasqua a Geru­salemme per acquistare degli oggetti per il mio lavoro. Se attendi qualche giorno ti accompagno sin là. Non oltre, perché devo tornare sollecito. Ma fin là possiamo andare insieme. Sono più quieto se non ti so sola per le strade. Al ritorno, me lo farai sapere, ti verrò incontro».
«Sei tanto buono, Giuseppe. Il Signore ti compensi con le sue benedizioni e tenga lontano da te il dolore. Lo prego sempre per questo».
I due casti sposi si sorridono angelicamente. Il silenzio si ristabilisce per qualche tempo.
Poi Giuseppe si alza. Si rimette il mantello, alza il cappuccio sul capo. Saluta Maria, che si è pure alzata, ed esce.
Maria lo guarda uscire, con un sospiro come di pena. Poi alza gli occhi al cielo. Prega certo. Chiu­de la porta con cura. Piega il ricamo. Va in cucina. Spegne o copre il fuoco. Guarda che tutto sia a posto. Prende il lume ed esce chiudendo la porta. Fa riparo con la mano alla fiammella che trema al vento freddino della notte. Entra nella sua stanza e prega ancora.
La visione cessa così.



Dice Maria:
«Figlia cara, quando, cessata l’estasi che mi aveva fatta piena di inesprimibile gioia, io tornai ai sensi della Terra, il primo pensiero che, pungente come spina di rose, mi punse il cuore fasciato nelle rose del Divino Amore, a me Sposo da qualche istante, fu il pensiero di Giuseppe.
Io l’amavo, ormai, questo mio santo e previdente custode. Da quando il volere di Dio, attraver­so la parola del suo Sacerdote, mi aveva voluta sposata a Giuseppe, io avevo potuto conoscere ed apprezzare la santità di questo Giusto. Congiunta a lui, avevo sentito cessare il mio smarrimento d’orfana, né avevo più rimpianto il perduto asilo del Tempio. Egli era dolce come il padre perduto. Presso a lui mi sentivo sicura come presso il Sacerdote. Ogni titubanza era caduta, non solo caduta. Ma anche dimenticata, tanto si era allontanata dal mio cuore di vergine, perché avevo capito che non avevo da titubare, da temere di nulla rispetto a Giuseppe. Più sicura di un bambino nelle braccia della mamma, era la mia verginità affidata a Giuseppe.
Ora come dirgli che ero Madre? Cercavo le parole per dargli l’annuncio. Difficile ricerca. Ché non volevo lodarmi del dono di Dio, e non potevo in nessuna maniera giustificare la mia maternità senza dire: “Il Signore mi ha amata fra tutte le donne e di me, sua serva, ha fatto la sua Sposa”. Ingan­narlo, celandogli il mio stato, non volevo neppure.
Ma, mentre pregavo, lo Spirito di cui ero piena mi aveva detto: “Taci. Affida a Me il compito di giustificarti presso lo sposo”. Quando? Come? Non l’avevo chiesto. Mi ero sempre affidata a Dio co­me un fiore si affida all’onda che lo porta. Mai l’eterno mi aveva fatto rimanere senza il suo aiuto. La sua mano mi aveva sorretta, protetta, guidata fin qui. Lo avrebbe fatto anche ora.
Figlia mia, come è bella e confortevole la fede nel nostro eterno, buono Iddio! Ci raccoglie nelle sue braccia come una cuna, ci porta come una barca nel luminoso porto del Bene, ci scalda il cuore, ci consola, ci nutre, ci dà riposo e letizia, ci dà luce e guida. Tutto è la fiducia in Dio, e Dio tutto dà a chi ha fiducia in Lui. Dà Se stesso.
Quella sera portai la mia fiducia di creatura alla perfezione. Ora lo potevo fare, poiché Dio era in me. Prima avevo avuto la fiducia di povera creatura quale ero. Sempre un nulla, anche se la Tanto Amata da esser la Senza Macchia. Ma ora avevo la fiducia divina, perché Dio era mio: mio Sposo, mio Figlio! Oh! gioia! Esser Una con Dio. Non per mia gloria, ma per amarlo in un’unione totale, ma per potergli dire: “Tu, Tu solo che sei in me, opera con la tua divina perfezione in tutte le cose che io faccio”.
Se Egli non mi avesse detto: “Taci!”, avrei forse osato, col volto contro il suolo, dire a Giuseppe: “Lo Spirito mi ha penetrata ed in me è il Germe di Dio”; ed egli mi avrebbe creduto, perché mi sti­mava e perché, come tutti coloro che non mentono mai, non poteva credere che altri mentisse. Sì, pur di non addolorarlo in futuro, avrei vinto la ritrosia di darmi tal lode. Ma ubbidii al divino coman­do.
E per dei mesi, da quel momento, ho sentito la prima ferita insanguinarmi il cuore. Il primo dolore della mia sorte di Corredentrice. L’ho offerto e sofferto per riparare e per dare a voi una norma di vi­ta in momenti analoghi di sofferenza per una necessità di silenzio, per un evento che vi pone in luce cattiva presso chi vi ama.
Date a Dio la tutela del vostro buon nome e dei vostri interessi affettivi. Meritate con una vita santa la tutela di Dio, e poi andate sicuri. Anche tutto il mondo vi fosse contro, Egli vi difenderà presso chi vi ama e farà emergere la verità.
Riposa ora, figlia. E sii sempre più figlia mia».
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

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