"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’,
ma leggetela e fatela leggere"

Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
Evangelo come mi è stato rivelato
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Domenica 29 settembre 2013, XXVI Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 16,19-31.
C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente.
Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe,
bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto.
Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui.
Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura.
Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti.
Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi.
E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre,
perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento.
Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro.
E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno.
Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 3 Capitolo 191 pagina 231.
“Consegna a Michea tanto denaro che domani egli possa ricompensare quanto oggi si è fatto prestare dai contadini di questa zona”, dice Gesù a Giuda Iscariota, che generalmente amministra le… sostanze comuni.
E poi Gesù chiama Andrea e Giovanni e li manda in due punti in cui si può vedere la strada o le strade che vengono da Jezrael. Chiama poi Pietro e Simone e li manda incontro ai contadini di Doras con l’ordine di fermarli presso il confine fra le due proprietà.
Infine dice a Giacomo e Giuda: “Prendete le cibarie e venite”.
Li seguono i contadini di Giocana, donne, uomini e bambini, e gli uomini portano due piccole anfore, piccole per modo di dire, che devono essere colme di vino. Più che anfore sono giarre e conterranno su per giù quei dieci litri ognuna. (Prego sempre non prendere le mie misure per articolo di fede). Vanno là dove un folto vigneto, già tutto coperto di foglie novelle, indica la fine dei possessi di Giocana. Oltre vi è un largo fossato, mantenuto pieno d’acqua con chissà che fatica.
“Vedi? Giocana si è litigato con Doras per questo. Giocana diceva: “Colpa di tuo padre se tutto è rovina. Se non lo voleva adorare, almeno lo doveva temere e non provocare”. E Doras urlava, pareva un demonio: “Tu ti sei salvato le terre per questo fosso. Le bestie non l’hanno varcato…”. E Giocana diceva: “E allora come a te tanta rovina mentre prima i tuoi campi erano i più belli di Esdrelon? È il castigo di Dio, credilo. Avete passato la misura. Quest’acqua?… C’è sempre stata e non è essa che mi ha salvato”. E Doras urlava: “Questo prova che Gesù è un demonio”. “È un giusto”, urlava Giocana. E sono andati avanti per un pezzo, finché ebbero fiato, e dopo Giocana fece con grande spesa derivare acque dal torrente e scavare per cercare altre acque nel suolo e fare tutto un ordine di fossi a confine fra lui e il parente e li fece fare più fondi, e a noi disse quello che ti abbiamo detto ieri… In fondo lui è felice di quanto è accaduto. Era tanto invidioso di Doras… Ora spera poter comperare tutto, perché Doras finirà col vendere tutto per due spiccioli”.
Gesù ascolta con benignità tutte queste confidenze e intanto attende i poveri contadini di Doras, che non tardano a venire e che si prostrano al suolo non appena vedono Gesù al riparo di un albero.
“Pace a voi, amici. Venite. Oggi la sinagoga è qui ed Io sono il vostro sinagogo. Ma prima voglio essere il vostro padre di famiglia. Sedete in cerchio, che vi dia un cibo. Oggi avete lo Sposo, e facciamo convito di nozze”.
E Gesù scopre una cesta e ne trae pani che dà agli stupiti contadini di Doras, e dall’altra leva quelle cibarie che ha potuto trovare: formaggi, verdure che ha fatto cucinare e un piccolo caprettino o agnellino, cotto intero, che spartisce ai poveri disgraziati, poi versa il vino e fa circolare il rozzo calice perché tutti bevano.
“Ma perché? Ma perché? E loro?”, dicono quelli di Doras accennando a quelli di Giocana.
“Loro hanno già avuto”.
“Ma che spesa! Come hai potuto?”.
“Ci sono ancora dei buoni in Israele”, dice Gesù sorridendo.
“Ma oggi è sabato…”.
“Ringraziate quest’uomo”, dice Gesù accennando all’uomo di Endor. “È lui che ha procurato l’agnello. Il resto fu facile averlo”.
Quei poveretti divorano — è la parola — il cibo da tanto sconosciuto.
Vi è uno, piuttosto vecchio, che si stringe al fianco un fanciullo di un dieci anni circa; mangia e piange.
“Perché, padre, fai così?…”, chiede Gesù.
“Perché la tua bontà è troppa…”.
L’uomo di Endor dice con la sua voce gutturale: “È vero… e fa piangere. Ma il pianto è senza amaro…”.
“È senza amaro. È vero. E poi… io vorrei una cosa. È anche desiderio questo pianto”.
“Che vuoi, padre?”.
“Questo fanciullo lo vedi? È mio nipote. Mi è rimasto dopo la frana di questo inverno. Doras neppure sa che mi ha raggiunto, perché lo faccio vivere come una bestia selvatica nel bosco e solo al sabato lo vedo. Se me lo scopre, o lo caccia o lo mette al lavoro… e sarà peggio di un animale da soma questo tenero mio sangue… A Pasqua lo manderò con Michea a Gerusalemme per divenire figlio della Legge… e poi?… È il figlio di mia figlia…”.
“Lo daresti a Me, invece? Non piangere. Ho tanti amici che sono onesti, santi e senza figli. Lo alleveranno santamente, nella mia via…”.
“Oh! Signore! Da quando ho saputo di Te l’ho desiderato. E pregavo il santo Giona, lui che sa cosa è essere di questo padrone, di salvare il mio nipote da questa morte…”.
“Fanciullo, verresti con Me?”.
“Sì, mio Signore. E non ti darò dolore”.
“È detto”.
“Ma… a chi lo vuoi dare?”, chiede Pietro tirando Gesù per una manica. “A Lazzaro anche questo?”.
“No, Simone. Ma ce ne sono tanti senza figli…”.
“Ci sono anche io…”. Il viso di Pietro pare fino affilarsi nel desiderio.
“Simone, te l’ho detto. Tu devi essere il “padre” di tutti i figli che Io ti lascerò in eredità. Ma non devi avere la catena di nessun figlio tuo proprio. Non ti mortificare. Tu sei troppo necessario al Maestro perché il Maestro possa staccarti da Sé per un affetto. Sono esigente, Simone. Sono esigente più di uno sposo gelosissimo. Ti amo con ogni predilezione e ti voglio tutto per Me e di Me”.
“Va bene, Signore… Va bene… Sia fatto come Tu vuoi”. Il povero Pietro è eroico nel suo aderire a questa volontà di Gesù.
“Sarà il figlio della mia nascente Chiesa. Va bene? Di tutti e di nessuno. Sarà il “nostro” bambino. Ci seguirà quando lo permetteranno le distanze, o ci raggiungerà, e suoi tutori saranno i pastori, loro che amano nei bambini tutti il “loro” bambino Gesù. Vieni qui, fanciullo. Come ti chiami?”.
“Jabé di Giovanni, e son di Giuda”, dice sicuro il ragazzo.
“Sì. Siamo giudei noi”, conferma il vecchio. “Io lavoravo nelle terre di Doras in Giudea, e mia figlia si è sposata con un di quelle parti. Lavorava ai boschi presso Arimatea e -quest’in-ver-no…”.
“Ho visto la sventura”.
“Il fanciullo si è salvato perché quella notte era da un parente lontano… Veramente si è portato il nome, Signore! L’ho detto subito a mia figlia: “Perché? Non ricordi l’antico?”. Ma il marito volle chiamarlo così, e Jabé fu”.
“Il fanciullo invocherà il Signore e il Signore lo benedirà e dilaterà i suoi confini, e la mano del Signore è sulla sua mano, ed egli non sarà più oppresso dal male”. Questo gli concederà il Signore per consolare te, padre, gli spiriti dei morti, e confortare l’orfano.
Ed ora che abbiamo separato il bisogno del corpo da quello dell’anima con un atto di amore al fanciullo, ascoltate la parabola che ho pensata per voi.
Vi era un tempo un uomo molto ricco. Le vesti più belle erano le sue, e nei suoi abiti di porpora e di bisso si pavoneggiava nelle piazze e nella sua casa, riverito dai cittadini come il più potente del paese, e dagli amici che lo secondavano nella sua superbia per averne utile. Le sue sale erano aperte ogni giorno in splendidi banchetti in cui la folla degli invitati, tutti ricchi, e perciò non bisognosi, si pigiavano adulando il ricco Epulone. I suoi banchetti erano celebri per abbondanza di cibi e di vini -prelibati.
Ma nella stessa città vi era un mendico, un grande mendico. Grande nella sua miseria come l’altro era grande nella sua ricchezza. Ma sotto la crosta della miseria umana del mendico Lazzaro vi era celato un tesoro ancor più grande della miseria di Lazzaro e della ricchezza dell’Epulone. Ed era la santità vera di Lazzaro. Egli non aveva mai trasgredito alla Legge, neppure sotto la spinta del bisogno, e soprattutto aveva ubbidito al precetto dell’amore verso Dio e verso il prossimo.
Egli, come sempre fanno i poveri, si accostava alle porte dei ricchi per chiedere l’obolo e non morire di fame. E andava ogni sera alla porta dell’Epulone sperando averne almeno le briciole dei pomposi banchetti che avvenivano nelle ricchissime sale. Si sdraiava sulla via, presso la porta, e paziente attendeva. Ma se l’Epulone si accorgeva di lui lo faceva scacciare, perché quel corpo coperto di piaghe, denutrito, in vesti lacere, era una vista troppo triste per i suoi convitati. L’Epulone diceva così. In realtà era perché quella vista di miseria e di bontà era un rimprovero continuo per lui.
Più pietosi di lui erano i suoi cani, ben pasciuti, dai preziosi collari, che si accostavano al povero Lazzaro e gli leccavano le piaghe, mugolando di gioia per le sue carezze, e giungevano a portargli gli avanzi delle ricche mense, per cui Lazzaro sopravviveva alla denutrizione per merito degli animali, perché per mezzo dell’uomo sarebbe morto, non concedendogli l’uomo neppure di penetrare nella sala dopo il convito per raccogliere le briciole cadute dalle mense.
Un giorno Lazzaro morì. Nessuno se ne accorse sulla Terra, nessuno lo pianse. Anzi ne giubilò l’Epulone di non vedere quel giorno né poi quella miseria che egli chiamava “obbrobrio” sulla sua soglia. Ma in Cielo se ne accorsero gli angeli. E al suo ultimo anelito, nella sua tana fredda e spoglia, erano presenti le coorti celesti, che in un folgoreggiare di luci ne raccolsero l’anima portandola con canti di osanna nel seno di Abramo.
Passò qualche tempo e morì l’Epulone. Oh! che funerali fastosi! Tutta la città, che già sapeva della sua agonia e che si pigiava sulla piazza dove sorgeva la sua dimora per essere notata come amica del grande, per curiosità, per interesse presso gli eredi, si unì al cordoglio, e gli ululi salirono al cielo e con gli ululi del lutto le lodi bugiarde al “grande”, al “benefattore”, al “giusto” che era morto.
Può parola d’uomo mutare il giudizio di Dio? Può apologia umana cancellare quanto è scritto sul libro della Vita? No, non può. Ciò che è giudicato è giudicato, e ciò che è scritto è scritto. E, nonostante i funerali solenni, l’Epulone ebbe lo spirito sepolto nell’Inferno.
Allora, in quel carcere orrendo, bevendo e mangiando fuoco e tenebre, trovando odio e torture in ogni dove e in ogni attimo di quella eternità, alzò lo sguardo al Cielo. Al Cielo che aveva visto in un bagliore di folgore, in un atomo di minuto, e la cui non dicibile bellezza gli rimaneva presente ad essere tormento fra i tormenti atroci. E vide lassù Abramo. Lontano, ma fulgido, beato… e nel suo seno, fulgido e beato pure egli, era Lazzaro, il povero Lazzaro un tempo spregiato, repellente, misero, ed ora?… Ed ora bello della luce di Dio e della sua santità, ricco dell’amore di Dio, ammirato non dagli uomini ma dagli angeli di Dio.
Epulone gridò piangendo: “Padre Abramo, abbi pietà di me! Manda Lazzaro, poiché non posso sperare che tu stesso lo faccia, manda Lazzaro ad intingere la punta del suo dito nell’acqua e a posarla sulla mia lingua per rinfrescarla, perché io spasimo per questa fiamma che mi penetra di continuo e mi arde!”.
Abramo rispose: “Ricordati, figlio, che tu avesti tutti i beni in vita, mentre Lazzaro ebbe tutti i mali. E lui seppe del male fare un bene, mentre tu non sapesti dei tuoi beni fare nulla che male non fosse. Perciò è giusto che ora lui sia qui consolato e che tu soffra. Inoltre non è più possibile farlo. I santi sono sparsi sulla Terra perché gli uomini di loro se ne avvantaggino. Ma quando, nonostante ogni vicinanza, l’uomo resta quello che è — nel tuo caso, un demonio — è inutile poi ricorrere ai santi. Ora noi siamo separati. Le erbe sul campo sono mescolate. Ma una volta che sono falciate vengono separate dalle buone le malvagie. Così è di voi e di noi. Fummo insieme sulla Terra e ci cacciaste, ci tormentaste in tutti i modi, ci dimenticaste, contro l’amore. Ora siamo divisi. Tra voi e noi c’è un tale abisso che quelli che vogliono passare da qui a voi non possono, né voi, che lì siete, potete valicare l’abisso tremendo per venire a noi”.
Epulone piangendo più forte gridò: “Almeno, o padre santo, manda, io te ne prego, manda Lazzaro a casa di mio padre. Ho cinque fratelli. Non ho mai capito l’amore neppure fra parenti. Ma ora, ora comprendo cosa è di terribile essere non amati. E, poi che qui dove io sono è l’odio, ora ho capito, per quell’atomo di tempo che vide la mia anima Iddio, cosa è l’Amore. Non voglio che i miei fratelli soffrano le mie pene. Ho terrore per loro che fanno la mia stessa vita. Oh! manda Lazzaro ad avvertirli di dove io sono, e perché ci sono, e a dire loro che l’Inferno è, ed è atroce, e che chi non ama Dio e il prossimo all’Inferno viene. Mandalo! Che in tempo provvedano, e non abbiano a venire qui, in questo luogo di eterno tormento”.
Ma Abramo rispose: “I tuoi fratelli hanno Mosè ed i Profeti. Ascoltino quelli”.
E con gemito di anima torturata rispose l’Epulone: “Oh! padre Abramo! Farà loro più impressione un morto… Ascoltami! Abbi pietà!”.
Ma Abramo disse: “Se non hanno ascoltato Mosè ed i Profeti, non crederanno nemmeno ad uno che risusciti per un’ora dai morti per dire loro parole di Verità. E d’altronde non è giusto che un beato lasci il mio seno per andare a ricevere offese dai figli del Nemico. Il tempo delle ingiurie per esso è passato. Ora è nella pace e vi sta, per ordine di Dio che vede l’inutilità di un tentativo di conversione presso coloro che non credono neppure alla parola di Dio e non la mettono in pratica”.
Questa la parabola, il cui significato è così chiaro da non meritare neppure una spiegazione.
Qui veramente è vissuto conquistando la santità il Lazzaro novello, il mio Giona, la cui gloria presso Dio è palese nella protezione che dà a chi spera in Lui. A voi sì che Giona può venire, protettore e amico, e ci verrà se sarete sempre buoni.
Io vorrei, e dico a voi ciò che dissi a lui la scorsa primavera, Io vorrei potervi tutti aiutare, anche materialmente, ma non posso, ed è il mio dolore. Non posso che additarvi il Cielo. Non posso che insegnarvi la grande sapienza della rassegnazione promettendovi il Regno futuro. Non odiate mai, per nessuna ragione. L’Odio è forte nel mondo. Ma ha sempre un limite l’Odio. L’Amore non ha limite di potenza né di tempo. Amate perciò, per possederlo a difesa e conforto sulla Terra e a premio in Cielo. Meglio essere Lazzari che Epuloni, credetelo. Giungete a crederlo e sarete beati.
Non sentite nel castigo di questi campi una parola d’odio, anche se i fatti lo potevano giustificare. Non leggete male nel miracolo. Io sono l’Amore e non avrei colpito. Ma, visto che l’Amore non poteva piegare l’Epulone crudele, l’ho abbandonato alla Giustizia, ed essa ha fatto le vendette del martire Giona e dei suoi fratelli. Voi imparate questo dal miracolo. Che la Giustizia è sempre vigile anche se pare assente e che, essendo Dio Padrone di tutto il creato, si può servire, per l’applicazione di essa, dei minimi quali i bruchi e le formiche per mordere il cuore del crudele e dell’avido e farlo morire in un rigurgito di veleno che lo strozza.
Io vi benedico, ora. Ma per voi pregherò ogni nuova aurora. E tu, padre, non avere più affanno per l’agnello che mi affidi. Te lo riporterò ogni tanto perché tu possa giubilare vedendolo crescere in sapienza e bontà sulla via di Dio. Sarà il tuo agnello di questa tua povera Pasqua, il più gradito degli agnelli presentati all’altare di Geové. Jabé, saluta il vecchio padre e poi vieni al tuo Salvatore, al tuo Pastore buono. La pace sia con voi!”.
“Oh! Maestro! Maestro buono! Lasciarti!…”.
“Sì. È penoso. Ma non è bene che il sorvegliante qui vi trovi. Sono venuto apposta qui per evitarvi punizioni. Ubbidite per amore all’Amore che vi consiglia”.
I disgraziati si alzano con le lacrime agli occhi e vanno alla loro croce. Gesù li benedice ancora e poi, con la mano del fanciullo nella sua, e con l’uomo di Endor dall’altro lato, torna per la via già fatta alla casa di Michea, raggiunto da Andrea e da Giovanni che, finito il loro turno di guardia, si ricongiungono ai confratelli.
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 22 settembre 2013, XXV Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 16,1-13.
Diceva anche ai discepoli: «C'era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi.
Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore.
L'amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno.
So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua.
Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo:
Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d'olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta.
Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta.
Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto.
Se dunque non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera?
E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire a Dio e a mammona».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 6 Capitolo 381 pagina 149.
1Molta folla è in attesa del Maestro ed è sparsa per le pendici più basse di un monte piuttosto isolato, perché emergente da un intreccio di valli che lo circondano e dalle quali le sue pendici sorgono, meglio, balzano dirute, a picco quasi, in certi posti proprio a picco. Per giungere alla cima, un sentiero intagliato nella roccia calcarea graffia le coste del monte con una serpentina, che in certi posti ha per confine da un lato la parete diritta del monte, dall’altro il precipizio che scoscende. E lo scabro sentiero giallastro cupo, tendente quasi al rossastro, pare un nastro gettato fra il verde polveroso di bassi cespugli spinosi, tutti aculei; direi che le foglie sono gli aculei stessi che coprono le pietrose e aride pendici, infioccandosi qua e là di un fiore vivace viola-rosso, simile ad un pennacchio o ad un batuffolo di seta strappato alle vesti di qualche malcapitato, passato per quella prunaia. E questa veste tormentosa, fatta di punte spinose, di un verde glauco, triste come fosse sparso di impalpabile cenere, si propaga per strisce anche alle basi del monte e nella pianura fra il monte e altri monti, tanto a nord-ovest come a sud-est, alternandosi ai primi posti dove sia vera erba e veri arbusti che non siano tortura e inutilità.
La gente si è accampata su questi e attende paziente la venuta del Signore. Deve essere il giorno seguente al discorso agli apostoli, perché è fresca mattina e la rugiada non si è ancora evaporata su tutti gli steli. Specie in quelli più in ombra, ancora decora di sé spini e foglie, e tramuta in un fiocco diamantato i bizzarri fiori degli spinosi arbusti. L’ora della bellezza certo per il triste monte. Perché nelle altre ore, sotto il sole spietato o nelle notti lunari, deve avere l’orrido aspetto di un luogo di espiazione infernale.
All’est, una ricca e vasta città si vede nella pianura fertilissima. E non si vede altro da questa costa, bassa ancora, dove sono i pellegrini, ma dalla cima l’occhio deve godere di una vista impareggiabile sulle zone vicine. Io credo che, per l’altezza del monte, si dovrebbe spaziare sul mar Morto e le zone a oriente di esso, come pure fino alle catene della Samaria e a quelle che nascondono Gerusalemme. Ma io sulla vetta non ci sono stata, e perciò...
Gli apostoli circolano fra la folla cercando di tenerla quieta e ordinata, di mettere nei posti migliori i malati. Dei discepoli, forse quelli operanti nella zona e che avevano guidato presso i confini della Giudea i pellegrini vogliosi di sentire il Maestro, li aiutano a fare questo.

2L’apparizione di Gesù, bianco-vestito di lino ma ammantellato del rosso mantello per conciliare il caldo delle ore solari col fresco delle notti non ancora estive, è subitanea. Egli guarda, non visto, la gente che lo attende, e sorride. Pare provenire dal dietro (ovest) del monte, da una mezza altezza, e scende rapido per il sentieruolo difficile.
È un fanciullo che, non so se per seguire un volo di uccelli annidati fra i cespugli e alzatisi a volo spaventati da un sasso che rotola dall’alto, o per attrazione di sguardo, vede Gesù e grida balzando in piedi: «Il Signore!».
Tutti si volgono e vedono Gesù, ormai lontano un duecento metri al massimo. Fanno per correre a Lui, ma Egli, con il gesto delle braccia e la voce che giunge netta, forse per eco di monte, dice: «Rimanete dove siete». E sempre sorridendo scende fino a chi attende, fermandosi al punto più alto del pianoro. Di lì saluta: «La pace a voi tutti», e con un particolare sorriso ripete il saluto agli apostoli e discepoli che gli si sono stretti intorno.
Gesù è raggiante di bellezza. Col sole in fronte e la costa verdastra del monte alle spalle, pare una visione di sogno. Le ore passate in solitudine, qualche fatto a noi ignoto, forse uno straripare su Lui delle paterne carezze, non so che, accentuano la sua sempre perfetta bellezza, la fanno gloriosa e imponente, pacifica, serena, direi ilare, come di chi torna da un convegno d’amore e seco porta la letizia di esso in tutto l’aspetto, nel sorriso, negli sguardi. Qui la testimonianza di questo convegno d’amore, che è divino, traluce moltiplicata per cento e cento di quanto solitamente è visibile dopo un convegno di povero amore umano, e il Cristo ne sfolgoreggia. E soggioga i presenti che, ammirati, lo contemplano in silenzio, come intimiditi dall’intuizione di un mistero di riunione dell’Altissimo col suo Verbo... È un segreto, una segreta ora d’amore fra il Padre e il Figlio. Nessuno la conoscerà mai. Ma il Figlio ne conserva il segno, quasi che, dopo essere stato il Verbo del Padre quale è in Cielo, a mala pena potesse tornare ad essere il Figlio dell’uomo. L’infinità, la sublimità stenta a tornare «l’Uomo». La divinità trabocca, esplode, irraggia dall’umanità come olio soave da una creta porosa o luce di fornace da un velo di vetri opachi.
E Gesù china gli occhi raggianti, curva il volto beato, nasconde il prodigioso sorriso, curvandosi sui malati che carezza e guarisce e che guardano stupiti quel viso di sole e d’amore curvo sulla loro miseria per dare gioia. Ma poi si deve infine rialzare e deve mostrare alle turbe ciò che è il volto del Pacifico, del Santo, del Dio fatto Carne, tutt’ancora avvolto nella luminosità lasciata dall’estasi. Ripete: «La pace a voi». Persino la voce è più musicale del solito, infusa di note soavi e trionfali... Potente si spande sui muti ascoltatori, ricerca i cuori, li carezza, li scuote, li chiama ad amare.
Meno quel gruppo di farisei, aridi e scabri, spinosi e arcigni più del monte stesso, che stanno come statue di incomprensione e livore in un angolo; meno l’altro che, tutto bianco e appartato, ascolta da un ciglio, e che sento indicare come «esseni» da Bartolomeo e l’Iscariota - e Pietro brontola: «E così c’è un pollaio di sparvieri di più!» - gli altri ne sono tutti scossi.
«Oh! lasciali fare. Il Verbo è per tutti!» dice Gesù sorridendo al suo Pietro, alludendo agli esseni.

3Poi inizia a parlare.
«Bello sarebbe se l’uomo fosse perfetto come lo vuole il Padre dei Cieli. Perfetto in ogni suo pensiero, affetto, atto. Ma l’uomo non sa essere perfetto e usa male i doni di Dio, il quale ha dato all’uomo libertà di agire, comandando, però, le cose buone, consigliando le perfette, acciò l’uomo non potesse dire: “Io non sapevo”.
Come usa l’uomo della libertà che Dio gli ha data? Come potrebbe usarne un bambino nella gran parte dell’umanità, o come uno stolto, o anche come un delinquente, nelle altre parti. Ma poi viene la morte, e allora l’uomo è soggetto al Giudice che chiederà severo: “Come usasti e abusasti di ciò che ti avevo dato?”. Tremenda domanda! Come allora men che festuche di paglia appariranno i beni della Terra, per i quali così spesso l’uomo si fa peccatore! Povero di una miserabilità eterna, nudo di una veste che nulla può surrogare, starà avvilito e tremante davanti alla maestà del Signore, né troverà parola per giustificarsi. Perché sulla terra è facile giustificarsi, ingannando i poveri uomini. Ma in Cielo ciò non può accadere. Dio non si inganna. Mai. E Dio non scende a compromessi. Mai.
Come allora salvarsi? Come fare servire tutto a salvezza, anche ciò che è venuto dalla Corruzione che ha insegnato i metalli e le gemme come strumenti di ricchezza, che ha acceso smanie di potere e appetiti di carne? Non potrà allora l’uomo, che per povero che sia può sempre peccare desiderando smoderatamente oro, cariche e donne - e talora diviene ladro di queste cose per avere ciò che il ricco aveva - non potrà allora l’uomo, ricco o povero che sia, salvarsi mai? Sì che può. E come? Sfruttando le dovizie per il Bene, sfruttando la miseria per il Bene. Il povero che non invidia, non impreca e non attenta a ciò che è d’altri, ma di ciò che ha si contenta, sfrutta il suo umile stato per averne santità futura e, in verità, la maggioranza dei poveri sa fare questo. Meno lo sanno fare i ricchi, per i quali la ricchezza è un continuo tranello di Satana, della triplice concupiscenza.

4Ma udite una parabola e vedrete che anche i ricchi possono salvarsi pur essendo ricchi, o riparare ai loro errori passati coll’uso buono delle ricchezze anche se male acquistate. Perché Dio, il Buonissimo, lascia sempre molti mezzi ai suoi figli perché si salvino.
C’era dunque un ricco il quale aveva un fattore. Alcuni, nemici di questo perché invidiosi del buon posto che aveva, oppure molto amici del ricco e perciò premurosi del suo benessere, accusarono il fattore al suo padrone: “Egli dissipa i tuoi beni. Se ne appropria. Oppure trascura di farli fruttare. Sta’ attento! Difenditi!”.
Il ricco, udite le ripetute accuse, comandò al fattore di comparirgli davanti. E gli disse: “Di te mi è stato detto questo e quello. Come mai hai agito in tal modo? Dàmmi il rendiconto della tua amministrazione perché non ti permetto più di tenerla. Non posso fidarmi di te e non posso dare un esempio di ingiustizia e di supinità che indurrebbe i conservi ad agire come tu hai agito. Va’ e torna domani con tutte le scritture, che io le esamini per rendermi conto della posizione dei miei beni prima di darli ad un nuovo fattore”.
E licenziò il fattore, che se ne andò pensieroso dicendo fra sé: “E ora? Come farò ora che il padrone mi leva la fattoria? Economie non ne ho perché, persuaso come ero di farla franca, tanto usurpavo tanto godevo. Mettermi come contadino e sottoposto non mi va perché sono disusato al lavoro e appesantito dai bagordi. Chiedere l’elemosina mi va meno ancora. Troppo avvilimento! E che farò?”.
Pensa e pensa, trovò modo di uscire dalla penosa situazione. Disse: “Ho trovato! Con lo stesso mezzo come mi sono assicurato un bel vivere fino ad ora, d’ora in poi mi assicurerò amici che mi ospiteranno per riconoscenza quando non avrò più la fattoria. Chi benefica ha sempre amici. Andiamo dunque a beneficare per essere beneficato e andiamoci subito, prima che la notizia si sparga e sia troppo tardi”.
E andato dai diversi debitori del suo padrone disse al primo: “Quanto devi tu al mio padrone per la somma che ti prestò alla primavera di tre anni fa?”.
E l’interrogato rispose: “Cento barili d’olio per la somma e gli interessi”.
“Oh! poverino! Tu, così carico di prole, tu afflitto da malattie nei figli, dover dare tanto?! Ma non ti dette per un valore di trenta barili?”.
“Sì. Ma avevo bisogno subito e lui mi disse: ‘Te lo do. Ma a patto che tu mi dia quanto la somma ti frutta in tre anni’. Mi ha fruttato per un valore di cento barili. E li devo dare”.
“Ma è un’usura! No. No. Lui è ricco e tu sei appena fuori della fame. Lui è con poca famiglia e tu con tanta. Scrivi che ti ha fruttato per cinquanta barili e non ci pensare più. Io giurerò che ciò è vero. E tu avrai benessere”.
“Ma non mi tradirai? Se lo viene a sapere?”.
“Ti pare? Io sono il fattore, e ciò che giuro è sacro. Fa’ come ti dico e sii felice”.
L’uomo scrisse, consegnò e disse: “Te benedetto! Mio amico e salvatore! Come compensarti?”.
“Ma in nessun modo! Vuol dire che, se per te avessi a soffrire ed essere cacciato, tu mi accoglierai per riconoscenza”.
“Ma certo! Certo! Contaci pure”.
Il fattore andò da un altro debitore, tenendo su per giù lo stesso discorso. Costui doveva rendere cento staia di grano, perché per tre anni la secca aveva distrutto le sue biade e aveva dovuto chiederne al ricco per sfamare la famiglia.
“Ma non ci pensare a raddoppiare ciò che ti ha dato! Negare il grano! Esigerne il doppio da uno che ha fame e figli, mentre il suo tarla nei granai perché ce ne è in esuberanza! Scrivi ottanta staia”.
“Ma se si ricorda che me ne ha date venti e venti e poi dieci?”.
“Ma che vuoi che ricordi? Io te li ho dati e io non voglio ricordare. Fa’, fa’ così e mettiti a posto. Giustizia ci vuole fra poveri e ricchi! Io già, se ero io il padrone, volevo solo le cinquanta staia e forse condonavo anche quelle”.
“Tu sei buono. Fossero tutti come te! Ricordati che la mia casa ti è amica”.
Il fattore andò da altri, tenendo lo stesso metodo, professandosi pronto a soffrire per rimettere le cose a posto con giustizia. E offerte di aiuti e benedizioni piovvero su lui.

5Rassicurato sul domani, andò tranquillo dal padrone, il quale a sua volta aveva pedinato il fattore e scoperto il suo giuoco. Pure lo lodò dicendo: “La tua azione non è buona e per essa non ti lodo. Ma lodarti devo per la tua accortezza. In verità, in verità i figli del secolo sono più avveduti dei figli della luce”.
E ciò che disse il ricco Io pure vi dico: “La frode non è bella, e per essa Io non loderò mai nessuno. Ma vi esorto ad essere, almeno come figli del secolo, avveduti con i mezzi del secolo, per farli usare a monete per entrare nel regno della Luce”. Ossia con le ricchezze terrene, mezzi ingiusti nella ripartizione e usati per l’acquisto di un benessere transitorio che non ha valore nel Regno eterno, fatevene degli amici che vi aprano le porte di esso. Beneficate coi mezzi che avete, restituite quello che voi, o altri della vostra famiglia, hanno preso senza diritto, distaccatevi dall’affetto malato e colpevole per le ricchezze. E tutte queste cose saranno come amici che nell’ora della morte vi apriranno le porte eterne e vi riceveranno nelle dimore beate.
Come potete esigere che Dio vi dia i suoi beni paradisiaci se vede che non sapete fare buon uso neppure dei beni terrestri? Volete che, per un impossibile supposto, ammetta nella Gerusalemme celeste elementi dissipatori? No, mai. Lassù si vivrà con carità e con generosità e giustizia. Tutti per Uno e tutti per tutti. La comunione dei santi è società attiva e onesta, è santa società. E nessuno che abbia mostrato di essere ingiusto e infedele può entrarvi.
Non dite: “Ma lassù saremo fedeli e giusti perché lassù tutto avremo senza temenze di sorta”. No. Chi è infedele nel poco sarebbe infedele anche se il Tutto possedesse, e chi è ingiusto nel poco ingiusto è nel molto. Dio non affida le vere ricchezze a chi nella prova terrena mostra di non sapere usare delle ricchezze terrene. Come può Dio affidarvi un giorno in Cielo la missione di spiriti sostenitori dei fratelli sulla terra, quando avete mostrato che carpire e frodare, o conservare con avidità, è la vostra prerogativa? Vi negherà perciò il vostro tesoro, quello che per voi aveva conservato, dandolo a quelli che seppero essere avveduti sulla terra, usando anche ciò che è ingiusto e malsano in opere che giusto e sano lo fanno.
Nessun servo può servire due padroni. Perché o dell’uno o dell’altro sarà, o l’uno o l’altro odierà. I due padroni che l’uomo può scegliere sono Dio o Mammona. Ma se vuole essere del primo non può vestire le insegne, seguire le voci, usare i mezzi del secondo».

6Una voce si alza dal gruppo degli esseni: «L’uomo non è libero di scegliere. È costretto a seguire un destino. Né diciamo che sia distribuito senza saggezza. Anzi la Mente perfetta ha stabilito, a proprio disegno perfetto, il numero di coloro che saranno degni dei Cieli. Gli altri inutilmente si sforzano di divenirlo. Così è. Diverso non può essere. Come uno, uscendo di casa, può trovare la morte per una pietra che si stacca dal cornicione, mentre uno nel più fitto di una battaglia si può salvare dalla più piccola ferita, ugualmente colui che vuole salvarsi, ma così non è scritto, non farà che peccare anche senza saperlo, perché è segnata la sua dannazione».
«No, uomo. Così non è, e ricrediti. Pensando così tu fai grave ingiuria al Signore».
«Perché? Dimostramelo ed io mi ravvederò».
«Perché tu, dicendo questo, ammetti mentalmente che Dio è ingiusto verso le sue creature. Egli le ha create in ugual modo e con uno stesso amore. Egli è un Padre. Perfetto nella sua paternità come in ogni altra cosa. Come può allora fare distinzioni, e quando un uomo viene concepito maledirlo mentre è innocente embrione? Sin da quando è incapace di peccare?».
«Per avere una rivalsa all’offesa avuta dall’uomo».
«No. Non così si rivale Dio! Egli non si accontenterebbe di un misero sacrificio quale questo, e di un ingiusto, forzato sacrificio. La colpa a Dio può essere solo levata dal Dio fatto Uomo. Egli sarà l’Espiatore. Non questo o quell’uomo. Oh! fosse stato possibile che Io avessi a levare solo la colpa d’origine! Che nessun Caino avesse avuto la terra, nessun Lamec, nessun corrotto sodomita, nessun omicida, ladro, fornicatore, adultero, bestemmiatore, nessuno senza amore ai genitori, nessun spergiuro, e così via! Ma di ognuno di questi peccati non Dio, ma il peccatore è colpevole e autore. Dio ha lasciato libertà ai figli di scegliere il Bene o il Male».
«Non fece bene» urla uno scriba. «Ci ha tentati oltre misura. Sapendoci deboli, ignoranti, avvelenati, ci ha messi in tentazione. Ciò è imprudenza o malvagità. Tu che sei giusto devi convenire che dico una verità».
«Dici una menzogna per tentarmi. Dio ad Adamo ed Eva aveva dato tutti i consigli, e a che servì?».
«Fece male anche allora. Non doveva mettere l’albero, la tentazione, nel Giardino».
«E allora dove il merito dell’uomo?».
«Ne faceva senza. Viveva senza proprio merito e per unico merito di Dio».
«Essi ti vogliono tentare, Maestro. Lascia quei serpi e ascolta noi che viviamo in continenza e meditazione» grida di nuovo l’esseno.
«Sì, vi vivete. Ma malamente. Perché non vivervi santamente?».

7L’esseno non risponde a questa domanda, ma chiede: «Come mi hai detto ragione persuasiva sul libero arbitrio, ed io la mediterò senza malanimo sperando poterla accettare, or dimmi. Credi Tu realmente in una risurrezione della carne e in una vita degli spiriti completati da essa?».
«E vuoi che Dio ponga fine così alla vita dell’uomo?».
«Ma l’anima… Posto che il premio la fa beata, a che serve far risorgere la materia? Aumenterà ciò il gaudio dei santi?».
«Niente aumenterà il gaudio che un santo avrà quando possederà Iddio. Ossia una cosa sola lo aumenterà l’ultimo Giorno: quello di sapere che il peccato non è più. Ma non ti pare giusto che, come durante questo giorno carne e anima furono unite nella lotta per possedere il Cielo, nel Giorno eterno carne e anima siano unite per godere il premio? Non ne sei persuaso? E allora perché vivi in continenza e meditazione?».
«Per… per essere maggiormente uomo, signore sopra gli altri animali che ubbidiscono agli istinti senza freno, e per essere superiore alla maggior parte degli uomini che sono imbrattati di animalità anche se ostentano filatterie e fimbrie, e zizit, e larghe vesti, e si dicono “i separati”».
Anatema! I farisei, ricevuta in pieno la frecciata che fa mormorare di approvazione la folla, si contorcono e gridano come ossessi. «Egli ci insulta, Maestro! Tu sai la santità nostra. Difendici» urlano gesticolando.
Gesù risponde: «Anche egli sa la vostra ipocrisia. Le vesti non corrispondono alla santità. Meritate di esser lodati e potrò parlare. Ma a te, esseno, Io rispondo che troppo per poco ti sacrifichi. Perché? Per chi? Per quanto? Per una lode umana. Per un corpo mortale. Per un tempo rapido come volo di falco. Eleva il tuo sacrificio. Credi al Dio vero, alla beata risurrezione, alla volontà libera dell’uomo. Vivi da asceta. Ma per queste ragioni soprannaturali. E con la carne risorta godrai dell’eterna gioia».
«È tardi! Sono vecchio! Ho forse sciupato la mia vita stando in una setta d’errore… È finita!…».
«No. Mai finita per chi vuole il bene!

8Udite, o voi peccatori, o voi che siete negli errori, o voi, quale che sia il vostro passato. Pentitevi. Venite alla Misericordia. Vi apre le braccia. Vi indica la via. Io sono fonte pura, fonte vitale. Gettate le cose che vi hanno traviato fin qui. Venite nudi al lavacro. Rivestitevi di luce. Rinascete. Avete rubato come ladroni sulle vie, o signorilmente e astutamente nei commerci e nelle amministrazioni? Venite. Avete avuto vizi o passioni impure? Venite. Siete stati oppressori? Venite. Venite. Pentitevi. Venite all’amore e alla pa-ce. Oh! ma lasciate che l’amore di Dio possa riversarsi su di voi. Sollevatelo questo amore in ambascia per la vostra resistenza, paura, titubanza. Io ve ne prego in nome del Padre mio e vostro. Venite alla Vita e alla Verità, e avrete la vita eterna».
Un uomo dalla folla grida: «Io sono ricco e peccatore. Che devo fare per venire?».
«Rinuncia a tutto per amore di Dio e della tua anima».
I farisei mormorano e scherniscono Gesù come «venditore di illusioni e di eresie», come «peccatore che si finge santo», e lo ammoniscono che gli eretici sono sempre eretici, e tali sono gli esseni. Dicono che le conversioni subitanee non sono che esaltazioni momentanee e che l’impuro sarà sempre tale, il ladro ladro, l’omicida omicida, terminando col dire che solo loro, che vivono in santità perfetta, hanno diritto al Cielo e alla predicazione.

9«Era un giorno felice. Una semina di santità cadeva nei cuori. Il mio amore, nutrito dal bacio di Dio, dava ai semi vita. Il Figlio dell’uomo era beato di santificare... Voi mi avvelenate il giorno. Ma non importa. Io vi dico - e, se dolce non sarò, di voi è la colpa - Io vi dico che voi siete di quelli che si mostrano giusti, o tentano di farlo, al cospetto degli uomini, ma giusti non siete. Dio conosce i vostri cuori. Ciò che è grande al cospetto degli uomini è abominevole dinanzi all’immensità e perfezione di Dio. Voi citate la Legge antica. Perché allora non la vivete? Voi modificate a vostro pro la Legge, aggravandola di pesi che vi dànno utilità. Perché allora non lasciate che Io la modifichi a pro di questi piccoli, levando da essa tutti gli zizit e i telefin pesanti, inutili, dei precetti fatti da voi, tali e tanti che la Legge essenziale scompare sotto di essi e muore affogata? Io ho pietà di queste turbe, di queste anime che cercano il respiro nella Religione e trovano il nodo scorsoio. Che cercano l’amore e trovano il terrore…
No. Venite, o piccoli d’Israele. La Legge è amore! Dio è amore! Così Io dico agli intimoriti da voi. La Legge severa e i profeti minaccianti che mi hanno predetto, ma non sono riusciti a tenere indietro il peccato nonostante gli urli del loro profetare angoscioso, sono fino a Giovanni. Da Giovanni in poi viene il Regno di Dio, il Regno dell’amore. Ed Io dico agli umili: “Entratevi. È per voi”. Ed ognuno di quelli di buona volontà si sforza ad entrarvi. Ma per coloro che non vogliono curvare il capo, battersi il petto, dire: “Ho peccato”, non vi sarà il Regno. È detto: “Circoncidete il vostro cuore senza indurare più la vostra cervice”.
Questa terra vide il prodigio di Eliseo che fece dolci le acque amare col gettarvi dentro il sale. Ed Io non getto il sale della Sapienza nei vostri cuori? E allora perché siete inferiori ad acque e non mutate lo spirito vostro? Intridete nelle vostre formule il mio sale e avranno novello sapore, perché ridaranno alla Legge la primitiva forza. In voi, prima di tutti, i più bisognosi. Voi dite che Io muto la Legge? No. Non mentite. Io rendo alla Legge la sua primitiva forma da voi travisata. Perché è legge che durerà quanto la terra, e prima spariranno cielo e terra che uno solo dei suoi estremi o dei suoi consigli. E se voi la mutate, perché cosi vi piace, e sottilizzate cercando scappatoie alle vostre colpe, sappiate che ciò non giova. Non giova, o Samuele! Non giova, o Isaia! Sempre è detto: “Non fare adulterio”, e Io completo: “Chi rimanda una sposa per prenderne un’altra è adultero, e chi sposa una ripudiata dal marito è adultero, perché ciò che Dio ha unito solo la morte può dividere”.
Ma le parole dure sono per i peccatori impenitenti. Coloro che hanno peccato, ma si dolgono con desolazione per averlo fatto, sappiano, credano che Dio è Bontà,
e vengano a Colui che assolve, perdona e ammette alla Vita. Andate con questa certezza. Spargetela nei cuori. Predicate la misericordia che vi dà la pace benedicendovi nel nome del Signore».

10La gente sfolla lentamente, sia perché il sentiero è stretto, sia perché Gesù l’attrae. Ma sfolla...
Restano gli apostoli con Gesù e, parlando, s’incamminano. Cercano ombra camminando presso un piccolo boschetto di tamerici scapigliati. Ma dentro vi è un esseno. Quello che ha parlato con Gesù. Si sta spogliando delle vesti bianche.
Pietro, che è avanti a tutti, resta di stucco vedendo che l’uomo si riduce con le sole brache corte, e corre indietro dicendo: «Maestro! Un matto! Quello che parlava con Te, l’esseno. Si è messo nudo e piange e sospira. Non possiamo andar là».
Ma l’uomo, magro, barbuto, nudo affatto nel corpo, meno le corte brache e i sandali, già esce dal folto del boschetto e viene verso Gesù piangendo e battendosi il petto. Si prostra: «E io sono il miracolato nel cuore. Mi hai guarito lo spirito. Ubbidisco alla tua parola. Mi rivesto di luce lasciando ogni altro pensiero che mi fosse veste d’errore. Mi separo per meditare il Dio vero, per ottenere vita e risurrezione. Basta così? Indicami il nuovo nome e un luogo in cui vivere di Te e delle tue parole».
«È matto! Non sappiamo viverci noi che ne sentiamo tante! E lui... per un solo discorso...» dicono fra loro gli apostoli.
Ma l’uomo, che sente, dice: «E volete mettere termini a Dio? Egli mi ha infranto il cuore per darmi uno spirito libero. Signore!...» supplica tendendo le braccia a Gesù.
«Sì. Chiamati Elia e sii fuoco. Quel monte è pieno di caverne. Va’ in esso, e quando sentirai scuotere la terra per tremendo terremoto esci e cerca i servi del Signore per unirti a loro. Sarai rinato per essere servo tu pure. Va’».
L’uomo gli bacia i piedi, si alza e si avvia.
«Ma va così nudo?» chiedono sbalorditi.
«Dategli un mantello, un coltello, un’esca e un acciarino, e un pane. Camminerà oggi e domani, e poi, dove sostammo, si ritirerà in preghiera e il Padre provvederà al suo figlio».
Andrea e Giovanni partono di corsa e lo raggiungono mentre sta per scomparire dietro una svolta.
Tornano dicendo: «Li ha presi. Gli abbiamo anche indicato il luogo dove eravamo. Che preda impensata, Signore!».
«Dio anche sulle rocce fa fiorire i fiori. Anche nei deserti dei cuori fa sorgere spiriti di volontà per mio conforto. Ora andiamo verso Gerico. Sosteremo in qualche casa di campagna».
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 15 settembre 2013, XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 15,1-32.
Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo.
I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro».
Allora egli disse loro questa parabola:
«Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?
Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento,
va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta.
Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.
O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova?
E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta.
Così, vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.
Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze.
Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto.
Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci.
Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava.
Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te;
non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni.
Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio.
Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi.
Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa,
perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze;
chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò.
Il servo gli rispose: E' tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo.
Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo.
Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici.
Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso.
Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo;
ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 3 Capitolo 205 pagina 327.
1“Giovanni di Endor, vieni qui con Me. Ti devo parlare”, dice Gesù affacciandosi sull’uscio.
L’uomo accorre lasciando il bambino al quale insegnava qualcosa. “Che mi vuoi dire, Maestro?”, chiede.
“Vieni con Me qui sopra”.
Salgono sulla terrazza e si siedono dalla parte più riparata perché, per quanto sia mattina, il sole è già forte. Gesù gira lo sguardo sulla campagna coltivata, in cui i grani di giorno in giorno divengono d’oro e gli alberi gonfiano le loro frutta. Pare volere attingere il pensiero da quella metamorfosi vegetale.
“Senti, Giovanni. Oggi Io credo che verrà Isacco per condurmi i contadini di Giocana prima della loro partenza. Ho detto a Lazzaro di prestare a Isacco un carro per fare loro accelerare il ritorno senza tema di giungere con un ritardo che provocherebbe loro un castigo. E Lazzaro lo fa. Perché Lazzaro fa tutto ciò che Io dico. Ma da te Io voglio un’altra cosa. Ho qui una somma che mi è stata data da una creatura per i poveri del Signore. Generalmente è un mio apostolo l’incaricato di tenere le monete e di dare gli oboli. È Giuda di Keriot generalmente; qualche volta gli altri. Giuda non è presente. Gli altri non voglio siano a cognizione di quel che voglio fare. Anche Giuda questa volta non lo sarebbe. Lo farai tu, in mio nome…”.
“Io, Signore?… Io?… Oh! non ne sono degno!…”.
“Ti devi abituare a lavorare in mio nome. Non sei venuto per questo?”.
“Sì. Ma pensavo dovere lavorare a ricostruire la povera anima mia”.
“E Io te ne do il mezzo. In che hai peccato? Contro la misericordia e l’amore. Con l’odio hai demolito la tua anima. Con l’amore e la misericordia la ricostruirai. Io te ne do il materiale. Ti adibirò particolarmente alle opere di misericordia e di amore. Tu sei anche capace di curare, tu sei capace di parlare. Per questo sei atto ad avere cura delle infelicità fisiche e morali, e hai capacità di farlo. Inizierai con quest’opera. Tieni la borsa. La darai a Michea e ai suoi amici. Fànne parti uguali. Ma fàlle così come Io dico. La dividi per dieci, poi ne dai quattro parti a Michea: una per sé, una per Saulo, una per Gioele e una per Isaia. E le altre sei le dai a Michea perché le dia al vecchio padre di Jabé, per sé e per i suoi compagni. Potranno così avere qualche conforto”.
“Va bene. Ma che dico loro per giustificare?”.
“Dirai: “Questo è perché vi ricordiate di pregare per un’anima che si redime””.
“Ma potranno pensare che sia io! Non è giusto!”.
“Perché? Non ti vuoi redimere?”.
“Non è giusto che pensino che sia io il donatore”.
“Lascia, e fa’ come Io dico”.
“Ubbidisco… ma almeno concedimi di mettere anche io qualche cosa. Tanto… ora non mi occorre più nulla. Libri non ne compero più, polli da nutrire non ne ho più. A me basta tanto poco… Tieni, Maestro. Serbo solo un minimo per le spese dei sandali…”, ed estrae da una borsa che aveva in cintura molte monete e le aggiunge alle monete di Gesù.
205.2
“Dio ti benedica per la tua misericordia… 2Giovanni, fra poco ci lasceremo perché tu andrai con Isacco”.
“Me ne duole, Maestro. Ma ubbidisco”.
“Anche a Me duole di allontanarti. Ma ho tanto bisogno di discepoli peregrinanti. Io non basto più. Presto lancerò gli apostoli, poi manderò i discepoli. E tu farai molto bene. Ti serberò a speciali missioni. Intanto con Isacco ti formerai. È tanto buono e lo Spirito di Dio lo ha veramente istruito durante la lunga malattia. Ed è l’uomo che tutto ha sempre perdonato… Lasciarci, del resto, non vuole dire non vederci più. Ci incontreremo sovente, e ogni volta che ci ritroveremo parlerò proprio per te, ricordatelo…”.
Giovanni si piega su se stesso, si nasconde il volto fra le mani con un aspro scoppio di pianto, e geme: “Oh! allora dimmi subito qualche cosa che mi persuada che io sono perdonato… che io posso servire Dio… Se sapessi, ora che è caduto il fumo dell’odio, come vedo la mia anima… e come… e come penso a Dio…”.
“Lo so, non piangere. Resta nell’umiltà, ma non ti avvilire. L’avvilimento è ancora superbia. Solo, solo umiltà abbi. Suvvia, non piangere…”.
Giovanni di Endor si calma poco a poco…
Quando lo vede calmato, Gesù dice: “Vieni, andiamo sotto quel folto di meli e raduniamo i compagni e le donne. Parlerò a tutti, ma ti dirò come Dio ti ama”.
Scendono, radunandosi intorno gli altri man mano che vanno, e si siedono poi a cerchio sotto l’ombra del pometo. Anche Lazzaro, che parlava con lo Zelote, si aggiunge alla compagnia. Venti persone in tutto.
205.3
3“Udite. È una bella parabola che vi guiderà con la sua luce in tanti casi.
Un uomo aveva due figli. Il maggiore era serio, lavoratore, affezionato, ubbidiente. Il secondo era intelligente più del maggiore — che in verità era un poco ottuso e si lasciava guidare per non avere da affaticarsi a decidere da sé — ma in compenso era anche ribelle, svagato, amante del lusso e del piacere, dissipatore e ozioso. L’intelligenza è un grande dono di Dio. Ma è un dono che va usato saggiamente. Altrimenti è come certi farmachi i quali, usati in mal modo, non sanano ma uccidono. Il padre — era nel suo diritto e nel suo dovere — lo richiamava a vita più saggia. Ma senza alcun utile, tolto quello di averne male risposte e un maggior irrigidimento del figlio nelle proprie cattive idee.
Infine un giorno, dopo una disputa più fiera, il figlio minore disse: “Dàmmi la mia parte dei beni. Così non sentirò più i tuoi rimproveri e i lagni del fratello. Ognuno il suo e sia finito tutto”. “Guarda”, rispose il padre, “che presto sarai rovinato. Che farai allora? Pensa che io non sarò ingiusto in favore di te e non riprenderò un picciolo a tuo fratello per darlo a te”. “Non ti chiederò nulla. Sta’ sicuro. Dàmmi la mia parte”.
Il padre fece stimare le terre e le cose preziose e, visto che denaro e gioielli facevano tanto quanto le terre, dette al maggiore i campi e i vigneti, le mandre e gli ulivi, e al minore il denaro e i gioielli, che il giovane vendette subito mutando tutto in denaro. E fatto questo, in pochi giorni, se ne andò in lontano paese dove visse da gran signore, scialacquando tutto il suo in bagordi di ogni specie, facendosi credere un figlio di re perché si vergognava di dire: “sono campagnolo”, rinnegando perciò il padre suo. Festini, amici e amiche, vesti, vini, giuoco… vita dissoluta… Presto vide scemare la sostanza e venire avanti la miseria. E con la miseria, a farla più grave, venne nel paese una grande carestia che dette fondo ai resti della sostanza.
205.4
4Avrebbe potuto andare dal padre. Ma era superbo e non volle. Andò allora da un riccone del paese, già suo amico nei tempi buoni, e lo pregò dicendo: “Accoglimi fra i tuoi servi in ricordo di quando godesti delle mie dovizie”. Vedete voi come è stolto l’uomo! Preferisce mettersi sotto la frusta di un padrone anziché dire ad un padre: “Perdono! Ho sbagliato!”. Quel giovane aveva imparato tante cose inutili con la sua intelligenza aperta, ma non aveva voluto imparare il detto dell’Ecclesiastico: “Quanto è infame colui che abbandona il padre suo e quanto è maledetto da Dio chi fa inquietare la madre”. Era intelligente ma non sapiente.
L’uomo a cui si era rivolto, in cambio del molto che aveva goduto dal giovane stolto, mise questo stolto di guardia ai porci — perché si era in paese pagano e vi erano molti porci — e lo mandò a pasturare nei suoi possessi le mandre dei porci. Lurido, stracciato, puzzolente, affamato — perché il cibo era scarso per tutti i servi e specie per gli infimi, e lui, straniero mandriano di porci e deriso, era ritenuto tale — vedeva i porci satollarsi delle ghiande e sospirava: “Potessi almeno io pure empirmi il ventre di questi frutti! Ma sono troppo amari! Neppure la fame me li fa parere buoni”. E piangeva pensando ai ricchi festini da satrapo fatti poco tempo prima fra risa, canti, danze… e pensava poi agli onesti pranzi ben nutriti della sua casa lontana, alle porzioni che il padre faceva a tutti imparzialmente, serbando per sé sempre il meno, lieto di vedere il sano appetito dei suoi figli… e pensava anche alle parti fatte ai servi da quel giusto, e sospirava: “I garzoni di mio padre, anche i più infimi, hanno pane in abbondanza… e io qui muoio di fame…”. Un lungo lavoro di riflessione, una lunga lotta per strozzare la superbia…
205.5
5Infine venne il giorno che, rinato nell’umiltà e nella sapienza, sorse in piedi e disse: “Io vado dal padre mio! È stolto questo orgoglio che mi fa prigione. E di che? Perché soffrire e nel corpo e più nel cuore mentre posso avere perdono e sollievo? Vado dal padre mio. È detto. Che gli dirò? Ma quello che è nato qui dentro, in questa abbiezione, fra queste lordure, fra i morsi della fame! Gli dirò: ‘Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami perciò come l’infimo dei tuoi garzoni, ma sopportami sotto il tuo tetto. Che io ti veda passare…’. Non potrò dirgli: ‘…perché ti amo’. Non lo crederebbe. Ma lo dirà la mia vita, ed egli lo comprenderà, e prima di morire mi benedirà ancora… Oh! lo spero. Perché mio padre mi ama”. E, tornato la sera in paese, si licenziò dal padrone e mendicando per via tornò a casa sua.
Ecco i campi paterni… e la casa… e il padre che dirigeva i lavori, invecchiato, scarnito dal dolore, ma sempre buono… Il colpevole, guardando quella rovina causata da lui, si fermò intimorito… ma il padre, girando l’occhio, lo vide e gli corse incontro, perché era ancora lontano, e raggiuntolo gli gettò le braccia al collo e lo baciò. Solo il padre aveva riconosciuto in quel mendicante avvilito la sua creatura e solo lui aveva avuto un movimento di amore. Il figlio, stretto fra quelle braccia, con il capo sulla spalla paterna, mormorò fra i singhiozzi: “Padre, lascia che io mi getti ai tuoi piedi”. “No, figlio mio! Non ai piedi. Sul mio cuore, che ha tanto sofferto della tua assenza e che ha bisogno di rivivere col sentire il tuo calore sul mio petto”. E il figlio, piangendo più forte, disse: “Oh! padre mio! Io ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato da te: figlio. Ma permettimi di vivere fra i tuoi servi, sotto il tuo tetto, vedendoti, mangiando il tuo pane, servendoti, bevendo il tuo alito. Ad ogni boccone di pane, ad ogni tuo respiro si riformerà il mio cuore tanto corrotto e diverrò onesto…”. Ma il padre, tenendolo sempre abbracciato, lo condusse verso i servi, che si erano ammucchiati in distanza e che osservavano, e disse loro: “Presto, portate qui la veste più bella e catini di acque odorose, lavatelo, profumatelo, rivestitelo, mettetegli dei calzari nuovi e un anello al dito. Poi prendete un vitello ingrassato e ammazzatelo. E si prepari un banchetto. Perché questo figlio mio era morto ed ora è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato. Io voglio che ora lui pure ritrovi il suo semplice amore di pargolo; e il mio amore e la festa della casa per il suo ritorno glielo devono dare. Deve capire che egli è sempre per me il caro bambino ultimo nato, quale era nella infanzia sua lontana, quando mi camminava al fianco facendomi beato col suo sorriso e il suo balbettio”. E così fecero i servi.
6Il figlio maggiore era in campagna e non seppe nulla fino al
205.6
suo ritorno. A sera, venendo verso casa, la vide luminosa di lumi e udì suoni di strumenti e danze uscire da essa. Chiamò un servo che correva indaffarato e gli disse: “Che avviene?”. E il servo rispose: “È tornato tuo fratello! Tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso perché ha riavuto il figlio e sano, guarito dal suo grande male, ed ha ordinato banchetto. Non si attende che te per cominciare”. Ma il primogenito, in collera perché gli pareva ingiustizia tanta festa per il minore, che oltre che minore era stato cattivo, non volle entrare e anzi fece per allontanarsi da casa.
Ma il padre, avvertito di questo, corse fuori e lo raggiunse tentando di convincerlo e pregandolo di non amareggiargli la sua gioia. Il primogenito rispose al padre suo: “E vuoi che io non sia inquieto? Tu fai ingiustizia e spregio al tuo primogenito. Io da quando ho potuto lavorare ti ho servito, e sono molti anni. Io non ho mai trasgredito ad un tuo comando, neppure ad un tuo desiderio. Io ti sono sempre stato vicino e ti ho amato per due per farti guarire dalla piaga fatta da mio fratello. E tu non mi hai dato neppure un capretto per godermelo cogli amici. Questo, che ti ha offeso, che ti ha abbandonato, che è stato infingardo e dissipatore e che torna ora perché è spinto dalla fame, tu lo onori e per lui ammazzi il vitello più bello. Vale la pena essere lavoratori e senza vizi! Questo non me lo dovevi fare!”.
Il padre disse allora stringendoselo al seno: “Oh! figlio mio! E puoi credere che io non ti ami perché non stendo un velo di festa sulle tue azioni? Le tue azioni sono sante di loro, e il mondo ti loda per esse. Ma questo tuo fratello, invece, ha bisogno di essere rialzato nella stima del mondo e nella stima sua stessa. E credi tu che io non ti ami perché non ti do un premio visibile? Ma mattina e sera e in ogni mio alito e pensiero tu sei presente al mio cuore, e ad ogni attimo io ti benedico. Tu hai il premio continuo di essere sempre con me, e tutto quanto è mio è tuo. Ma era giusto banchettare e fare festa per questo tuo fratello, che era morto ed è risuscitato al Bene, che era perduto ed è stato ritornato al nostro amore”. E il primogenito si arrese.

205.7
7Così, amici miei, succede nella Casa del Padre. E chi si sa uguale al figlio minore della parabola pensi pure che, se lo imita nell’andare al Padre, il Padre gli dice: “Non ai miei piedi. Ma sul mio cuore, che ha sofferto della tua assenza e che ora è beato per il tuo ritorno”. Chi è in condizioni di figlio primogenito e senza colpa verso il Padre, non sia geloso della gioia paterna, ma ne prenda parte, dando amore al fratello redento.
Ho detto. Rimani, Giovanni di Endor, e tu, Lazzaro. Gli altri vadano a preparare le mense. Presto verremo”.
Tutti si ritirano. Quando Gesù, Lazzaro e Giovanni sono soli, Gesù dice a Lazzaro e Giovanni: “Così si farà dell’anima cara che tu attendi, Lazzaro, e così si fa della tua, Giovanni. La bontà di Dio supera ogni misura”…
205.8
8…Gli apostoli, insieme alla Madre e alle donne, vanno verso casa preceduti da Marjziam che saltella correndo avanti. Ma presto ritorna e prende Maria per mano dicendole: “Vieni con me. Ti devo dire una cosa, da soli”. E Maria lo accontenta.
Torcono verso il pozzo, sito in un angolo del cortiletto, tutto velato da una pergola folta che da terra sale con un arco verso la terrazza. Là dietro è l’Iscariota.
“Giuda, che vuoi? Vai, Marjziam… Parla, che vuoi?”.
“Io sono in colpa… Non oso andare dal Maestro né affrontare i compagni… Aiutami…”.
“Ti aiuterò. Ma non pensi quanto dolore dài? Mio Figlio ha pianto per causa tua. E i compagni ne hanno sofferto. Ma vieni. Nessuno ti dirà niente. E, se puoi, non ricadere più in queste colpe. È indegno di un uomo, ed è sacrilego verso il Verbo di Dio”.
“E tu, Madre, mi perdoni?”.
“Io? Io non conto presso te che ti senti tanto grande. Io sono la più piccola delle serve del Signore. Come ti puoi preoccupare di me se non hai pietà di mio Figlio?”.
“Perché ho anche io una madre e, se ho il tuo perdono, mi pare di avere il suo”.
“Ella non sa questa tua colpa”.
“Ma ella mi aveva fatto giurare di essere buono col Maestro. Sono spergiuro. Sento il rimprovero dell’anima di mia madre”.
“Senti questo? E il lamento e il rimprovero del Padre e del Verbo non lo senti? Sei un disgraziato, Giuda! Semini, in te e in chi ti ama, il dolore”.
Maria è molto seria e mesta. Senza acredine parla, ma con molta serietà. Giuda piange.
“Non piangere. Ma migliorati. Vieni”, e lo prende per mano entrando così nella cucina.
Lo stupore di tutti è vivissimo. Ma Maria previene ogni uscita poco pietosa. Dice: “Giuda è ritornato. Fate come il primogenito dopo il discorso del padre. Giovanni, va’ ad avvisare Gesù”.
Giovanni di Zebedeo parte di corsa.
Un silenzio grava nella cucina… Poi Giuda dice: “Perdonatemi, tu Simone per il primo. Hai un cuore tanto paterno. Sono un orfano io pure”.
“Sì, sì, ti perdono. Per favore, non parlarne più. Siamo fratelli… e non mi piacciono questi alti e bassi di perdoni chiesti e di ricadute fatte. Avviliscono chi li fa e chi li dà. Ecco Gesù. Vai da Lui. E basta”.
Giuda va mentre Pietro, non potendo fare altro, si dà a spezzare con foga delle legna secche…
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 8 settembre 2013, XXIII Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 14,25-33.
Siccome molta gente andava con lui, egli si voltò e disse:
«Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.
Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo.
Chi di voi, volendo costruire una torre, non si siede prima a calcolarne la spesa, se ha i mezzi per portarla a compimento?
Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo, dicendo:
Costui ha iniziato a costruire, ma non è stato capace di finire il lavoro.
Oppure quale re, partendo in guerra contro un altro re, non siede prima a esaminare se può affrontare con diecimila uomini chi gli viene incontro con ventimila?
Se no, mentre l'altro è ancora lontano, gli manda un'ambasceria per la pace.
Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo.
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 4 Capitolo 281 pagina 384.
1Gesù è diretto al Tempio. Lo precedono a gruppi i discepoli, lo seguono in gruppo le discepole, ossia la Madre, Maria Cleofe, Maria Salome, Susanna, Giovanna di Cusa, Elisa di Betsur, Annalia di Gerusalemme, Marta e Marcella. Non c’è la Maddalena. Intorno a Gesù, i dodici apostoli e Marziam.
Gerusalemme è nella pompa dei suoi tempi di solennità. Gente in ogni via e di ogni terra. Canti, discorsi, mormorio di preghiere, imprecazioni di asinai, qualche pianto di bambino. E su tutto un cielo nitido che si mostra fra casa e casa, e un sole che scende allegro a ravvivare i colori delle vesti, ad accendere i morenti colori delle pergole e degli alberi che si intravvedono qua e là oltre i muri dei chiusi giardini o delle terrazze.
Talora Gesù incrocia persone di conoscenza, e il saluto è più o meno deferente a seconda degli umori dell’incrociante. Così è profondo ma sussiegato quello di Gamaliele, il quale guarda fisso Stefano, che gli sorride dal gruppo dei discepoli e che Gamaliele, dopo essersi inchinato a Gesù, chiama in disparte e gli dice poche parole, dopo di che Stefano torna nel gruppo. Venerante è il saluto del vecchio sinagogo Cleofa di Emmaus, diretto insieme ai suoi concittadini al Tempio. Aspro come una maledizione è quello di risposta dei farisei di Cafarnao.
2Un gettarsi a terra baciando i piedi di Gesù nella polvere della via è quello dei contadini di Giocana, capitanati dall’intendente. La folla si ferma ad osservare stupita questo gruppo di uomini che ad un quadrivio si precipita con un grido ai piedi di un giovane uomo, che non è un fariseo né uno scriba famoso, che non è un satrapo né un potente cortigiano, e qualcuno domanda chi è, e un bisbiglio corre: «È il rabbi di Nazaret, quello che si dice sia il Messia».
Proseliti e gentili si affollano allora curiosi, stringendo il gruppo contro al muro, facendo ingombro nella minuscola piazzetta, finché un gruppo di asinai li disperde vociando imprecazioni all’ostacolo. Ma la folla subito si riunisce di nuovo, separando le donne dagli uomini, esigente, brutale nella sua manifestazione che è anche di fede. Tutti vogliono toccare le vesti di Gesù, dirgli una parola, interrogarlo. Ed è sforzo inutile, perché la loro stessa fretta, la loro ansia, la loro irrequietezza per farsi avanti, respingendosi a vicenda, fa sì che nessuno ci riesce, e anche le domande e le risposte si confondono in un unico rumore incomprensibile.
L’unico che si astrae dalla scena è il nonno di Marziam, il quale ha risposto con un grido al grido del nipotino e, subito dopo aver venerato il Maestro, si è stretto al cuore il nipote e stando così, ancora rilassato sui calcagni, i ginocchi a terra, se lo è seduto nel grembo e se lo ammira e carezza con lacrime e baci, beati, e lo interroga e lo ascolta. Il vecchio è già in Paradiso tanto è beato.
Accorrono le milizie romane credendo che vi sia qualche rissa, e si fanno largo. Ma quando vedono Gesù hanno un sorriso e si ritirano tranquille, limitando a consigliare i presenti a lasciare libero l’importane quadrivio. E Gesù subito ubbidisce, approfittando dello spazio fatto dai romani che lo precedono di qualche passo come per fargli strada, in realtà per tornare al loro posto di picchetto perché la guardia romana è molto rinforzata, come se Pilato sapesse esservi malcontento nella folla e temesse sommosse in questi giorni in cui Gerusalemme è colma di ebrei di ogni parte. Ed è bello vederlo andare preceduto dal drappello romano, come un re al quale si fa largo mentre va ai suoi possessi.
Ha detto, nel muoversi, al bambino e al vecchio: «State insieme e seguitemi»; e all’intendente: «Ti prego lasciarmi i tuoi uomini. Mi saranno ospiti fino a sera».
L’intendente risponde ossequioso: «Tutto ciò che Tu vuoi sia fatto», e se ne va da solo da un profondo saluto.
3È ormai prossimo il Tempio - e il formicaio della folla, proprio come di formiche presso la buca del formicaio, è ancor più forte - quando un contadino di Giocana grida: «Ecco il padrone!» e cade a ginocchi per salutare, imitato da altri.
Gesù resta in piedi in mezzo ad un gruppo di prostrati, perché i contadini si erano stretti a Lui, e gira lo sguardo verso il luogo indicato, incontrando lo sguardo di un impaludato fariseo, che non mi è nuovo, ma che non so dove l’ho visto.
Il fariseo Giocana è con altri della sua casta: un mucchio di stoffe preziose, di frange, di fibbie, di cinture, di filatterie, tutte più ampie delle comuni. Giocana guarda attento Gesù, uno sguardo di pura curiosità, ma però non irriverente. Anzi ha un saluto impettito, appena un inchino del capo. Ma è sempre un saluto, al quale Gesù risponde deferente. Anche due o tre altri farisei salutano, mentre altri guardano sprezzanti o fingono di guardare altrove, e uno solo lancia una offesa di certo, perché vedo che chi circonda Gesù sussulta e lo stesso Giocana si volta tutto d’un pezzo a fulminare con lo sguardo l’offensore, che è un uomo più giovane di lui, dai tratti marcati e duri.
Quando sono sorpassati e i contadini osano parlare, uno di essi dice: «È Doras, Maestro, quello che ti ha maledetto».
«Lascialo fare. Ho voi che mi benedite» dice calmo Gesù.
Appoggiato ad un archivolto, insieme ad altri, è Mannaen, e come vede Gesù alza le braccia con una esclamazione di gioia: «Giornata gioconda è questa poiché io ti trovo!» e viene verso Gesù, seguito da chi è con lui. Lo venera sotto l’ombroso archivolto che fa rimbombare le voci come sotto una cupola.
Proprio mentre lo venera, passano rasente al gruppo apostolico i cugini Simone e Giuseppe con altri nazareni… e non salutano… Gesù li guarda accorato ma non dice nulla.
Giuda e Giacomo si parlano tra loro concitati, e Giuda avvampa di sdegno e poi parte di corsa, inutilmente trattenuto dal fratello. Ma Gesù lo richiama con un talmente imperioso: «Giuda, vieni qui!» che l’inquieto figlio di Alfeo torna indietro… «Lasciali fare. Sono semi che ancora non hanno sentito la primavera. Lasciali nel buio della zolla restia. Io penetrerò lo stesso anche se la zolla divenisse un diaspro chiuso intorno al seme. A suo tempo Io lo farò».
Ma più forte della risposta di Giuda d’Alfeo suona il pianto di Maria d’Alfeo, desolata. Un pianto di persona avvilita… Ma Gesù non si volge a consolarla, benché sia ben netto quel lamento sotto l’archivolto pieno d’echi.
Continua a parlare con Mannaen che gli dice: «Questi che con me sono, sono discepoli di Giovanni. Vogliono come me essere tuoi».
«La pace sia ai buoni discepoli. Là avanti sono Mattia, Giovanni e Simeone, con Me per sempre. Accolgo voi come accolsi loro, perché caro mi è tutto ciò che a Me viene dal santo Precursore».
4E raggiunta la cinta del Tempio.
Gesù dà gli ordini all’Iscariota e a Simone Zelote per gli acquisti di rito e le offerte di rito. Poi chiama il sacerdote Giovanni e dice: «Tu che sei di questo luogo provvederai ad invitare qualche levita che sai degno di conoscere la Verità. Perché veramente quest’anno Io posso celebrare una festa di letizia. Mai più sarà così dolce il giorno…».
«Perché, Signore?» chiede lo scriba Giovanni.
«Perché ho voi intorno, tutti, o con la presenza visibile o col loro spirito».
«Ma sempre vi saremo! E con noi molti altri» assicura veemente l’apostolo Giovanni. E tutti fanno coro.
Gesù sorride e tace mentre il sacerdote Giovanni, insieme a Stefano, va avanti, nel Tempio, ad eseguire l’ordine. Gesù gli grida dietro: «Raggiungeteci al portico dei Pagani».
Entrano e quasi subito incontrano Nicodemo, che fa un profondo saluto, ma non si avvicina a Gesù. Però ha con Gesù un sorriso di intensa intesa pieno di pace.
Mentre le donne si fermano dove possono, Gesù con gli uomini va alla preghiera, nel luogo degli ebrei, e poi torna indietro, compito ogni rito, per riunirsi a chi lo attende nel portico dei Pagani.
I porticati vastissimi e altissimi, sono pieni di popolo che ascolta le lezioni dei rabbi. Gesù si dirige al punto dove vede fermi i due apostoli e i due discepoli mandati avanti. Subito si fa cerchio intorno a Lui, e agli apostoli e discepoli si uniscono anche altre numerose persone che erano sparse nell’affollato cortile marmoreo. La curiosità è tale che anche alcuni allievi di rabbi, non so se spontaneamente o se perché mandati dai maestri, si accostano al cerchio stretto attorno a Gesù.
5Gesù chiede a bruciapelo: «Perché intorno a Me vi pigiate? Ditelo. Avete rabbi noti e sapienti, benvisti da tutti. Io sono l’Ignoto e il Malvisto. Perché allora venite a Me?».
«Perché ti amiamo» dicono alcuni, ed altri: «Perché hai parole diverse dagli altri», ed altri ancora: «Per vedere i tuoi miracoli», e: «Perché di Te abbiamo sentito parlare», e: «Perché Tu solo hai parole di vita eterna e opere corrispondenti alle parole», e infine: «Perché vogliamo unirci ai tuoi discepoli».
Gesù guarda la gente man mano che parla, quasi volesse trafiggerla con lo sguardo per leggere le più occulte sensazioni; e qualcuno, non resistendo a quello sguardo, si allontana o, quanto meno, si nasconde dietro a una colonna o a gente più alta di lui.
Gesù riprende:
«Ma sapete voi cosa vuol dire e vuole essere venire dietro a Me? Io rispondo a queste sole parole, perché non merita risposta la curiosità e perché chi ha fame delle mie parole è, di conseguenza, di Me amante e desideroso di unirsi a Me. Perciò, fra chi ha parlato, vi sono due gruppi: i curiosi che trascuro, i volenterosi che ammaestro senza inganno sulla severità di questa vocazione.
6Venire a me come discepolo vuol dire rinuncia di tutti gli amori a un solo amore: il mio. Amore egoista verso se stessi, amore colpevole verso le ricchezze o il senso o la potenza, amore onesto verso la sposa, santo verso la madre, il padre, amore amabile dei e ai figli e fratelli, tutto deve cedere al mio amore se si vuole essere miei. In verità vi dico che più liberi di uccelli spazianti nei cieli devono essere i miei discepoli, più liberi dei venti che scorrono i firmamenti senza che nessuno li trattenga, nessuno e nessuna cosa. Liberi, senza catene pesanti, senza lacci d’amore materiale, senza neppure le ragnatele sottili delle più lievi barriere. Lo spirito è come una delicata farfalla serrata dentro al bozzolo pesante della carne, e può appesantirne il volo, o arrestarlo del tutto, anche l’iridescente e impalpabile tela di un ragno: il ragno della sensibilità, della ingenerosità nel sacrificio. Io voglio tutto, senza riserve. Lo spirito abbisogna di questa libertà di dare, di questa generosità di dare, per poter essere certo di non essere impigliato nella ragnatela delle affezioni, consuetudini, riflessioni, paure, tese come tanti fili da quel ragno mostruoso che è Satana, rapinatore di anime.
Se uno vuol venire a Me e non odia santamente suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli, i suoi fratelli e le sue sorelle, e persino la sua vita, non può essere mio discepolo. Ho detto: “odia santamente”. Voi in cuor vostro dite: “L’odio, Egli lo insegna, non è mai santo. Perciò Egli si contraddice”. No. Non mi contraddico. Io dico di odiare la pesantezza dell’amore, la passionalità carnale dell’amore al padre e madre, e sposa e figli, e fratelli e sorelle, e alla stessa vita, ma anzi ordino di amare, con la libertà leggera che è propria degli spiriti, i parenti e la vita. Amateli in Dio e per Dio, non posponendo mai Dio a loro, occupandovi e preoccupandovi di portarli dove il discepolo è giunto, ossia a Dio Verità. Così amerete santamente i parenti e Dio, conciliando i due amori e facendo dei legami di sangue, non peso ma ala, non colpa ma giustizia.
Anche la vostra vita dovete esser pronti a odiare per seguire Me. Odia la sua vita colui che, senza paura di perderla o di renderla umanamente triste, la fa servire a Me. Ma non è che una apparenza di odio. Un sentimento erroneamente detto “odio” dal pensiero dell’uomo che non sa elevarsi, dell’uomo tutto terrestre, di poco superiore al bruto. In realtà questo apparente odio, che è il negare le soddisfazioni sensuali alla esistenza per dare una sempre più vasta vita allo spirito, è amore. Amore è, e del più alto che esista, del più benedetto. Questo negarsi le basse soddisfazioni, questo interdirsi la sensualità degli affetti, questo procurarsi rimproveri e commenti ingiusti, questo rischiare punizioni, ripudi, maledizioni e forse anche persecuzioni, è una sequela di pene. Ma occorre abbracciarle e imporsele come una croce, un patibolo sul quale si espia ogni passata colpa per andare giustificati a Dio, e dal quale si ottiene ogni grazia, vera, potente, santa grazia di Dio per coloro che noi amiamo. Chi non porta la sua croce e non viene dietro a Me, chi non sa fare questo, non può essere mio discepolo.
7Pensateci dunque molto, molto, voi che dite: “Siamo venuti perché vogliamo unirci ai tuoi discepoli”. Non è vergogna ma sapienza pesarsi, giudicarsi e confessare, a se stessi e agli altri: “Io non ho stoffa di discepolo”. E che? I pagani hanno a base di un loro insegnamento la necessità di “conoscere se stessi”; e voi israeliti, per conquistare il Cielo, non lo sapreste fare? Perché, ricordatevelo sempre, beati quelli che verranno a Me. Ma piuttosto che venire per poi tradire Me e Colui che mi ha mandato, meglio è non venire affatto e rimanere i figli della Legge come fin qui foste. Guai a coloro che avendo detto: “Vengo”, portano poi danno al Cristo essendo i traditori dell’idea cristiana, gli scandalizzatori dei piccoli, dei buoni! Guai a loro! Eppure vi saranno, e sempre vi saranno!
Imitate perciò colui che vuole edificare una torre. Prima calcola attentamente la spesa necessaria e fa i conti del suo denaro per vedere se ha di che portarla a termine, perché, terminate le fondamenta, non debba sospendere i lavori non avendo più denaro. In questo caso perderebbe anche quanto aveva prima, rimanendo senza torre e senza talenti, e in cambio si attirerebbe le beffe del popolo che direbbe: “Costui ha cominciato a fabbricare senza poter finire. Ora può empirsi lo stomaco delle rovine della sua incompiuta fabbrica”.
Imitate ancora i re della terra, facendo servire i poveri avvenimenti del mondo a insegnamento soprannaturale. Costoro, quando vogliono muovere guerra ad un altro re, esaminano con calma e attenzione ogni cosa, il pro ed il contro, meditano se l’utile della conquista valga il sacrificio delle vite dei sudditi, studiano se è possibile conquistare quel luogo, se le loro milizie, inferiori della metà a quelle del rivale, anche se più combattive, possono vincere; e giustamente pensando che è improbabile che diecimila vincano ventimila, prima che avvenga lo scontro mandano incontro al rivale una ambasceria con ricchi doni e, ammansendo il rivale, già insospettito dalle mosse militari dell’altro, lo disarmano con prove di amicizia, ne annullano i sospetti e fanno con esso trattato di pace, in verità sempre più vantaggioso, tanto umanamente che spiritualmente, di una guerra.
Così dovete fare voi prima di iniziare la nuova vita e di schierarvi contro il mondo. Perché questo è essere miei discepoli: andare contro la turbinosa e violenta corrente del mondo, della carne, di Satana. E, se non sentite in voi il coraggio di rinunciare a tutto per amor mio, non venite a Me perché non potete essere miei discepoli».
8«Va bene. Ciò che Tu dici è vero» ammette uno scriba che si è mescolato al gruppo. «Ma se ci spogliamo di tutto, con che ti serviamo poi? La Legge ha dei comandi che sono come monete che Dio dà all’uomo perché usandole si compri la vita eterna. Tu dici: “Rinunciate a tutto” e accenni il padre, la madre, le ricchezze, gli onori. Dio ha pur dato queste cose e ci ha detto, per bocca di Mosè, di usarle con santità per apparire giusti agli occhi di Dio. Se Tu ci levi tutto, che ci dai?».
«Il vero amore, l’ho detto, o rabbi. Vi do la mia dottrina che non leva un iota alla antica Legge, ma anzi la perfeziona».
«Allora tutti siamo discepoli uguali, perché tutti abbiamo le stesse cose».
«Tutti le abbiamo secondo la Legge mosaica. Non tutti secondo la Legge perfezionata da Me secondo l’Amore. Ma non tutti raggiungono, nella stessa, la stessa somma di meriti. Anche fra i miei stessi discepoli non tutti giungeranno ad avere somma di meriti in uguale misura, e alcuno fra essi non solo non avrà somma ma perderà anche l’unica sua moneta: la sua anima».
«Come? A chi più è dato più resterà. I tuoi discepoli, meglio i tuoi apostoli, ti seguono nella tua missione e sono al corrente dei tuoi modi, hanno avuto moltissimo; molto hanno avuto i discepoli effettivi, meno i discepoli solo di nome, nulla quelli che, come me, non ti ascoltano che per accidente. È ovvio che moltissimo avranno in Cielo gli apostoli, molto i discepoli effettivi, meno i discepoli di nome, nulla quelli che, come me, non ti ascoltano che per accidente. È ovvio che moltissimo avranno in Cielo gli apostoli, molto i discepoli effettivi, meno i discepoli di nome, nulla quelli che sono come me».
«Umanamente è ovvio, e male anche umanamente. Perché non tutti sono capaci di far fruttare i beni avuti. Odi questa parabola e perdona se troppo a lungo qui insegno. Ma Io sono la rondine di passaggio, e non sosto che per poco nella Casa del Padre, essendo venuto per tutto il mondo e non volendo, questo piccolo mondo che è il Tempio di Gerusalemme, permettermi di raccogliere il volo e rimanere là dove la gloria del Signore mi chiama»,
«Perché dici così?».
«Perché è verità».
Lo scriba si guarda attorno e poi china la testa. Che sia verità lo vede scritto su troppi volti di sinedristi, rabbi e farisei che sono andati sempre più ingrossando l’assembramento che è intorno a Gesù. Volti verdi di bile o purpurei d’ira, sguardi che equivalgono a parole di maledizione e a sputi di veleno, rancore che lievita da ogni parte, desiderio di malmenare il Cristo, che resta desiderio solo per paura dei molti che circondano il Maestro con devozione e che sono pronti a tutto per difenderlo, paura forse anche di punizioni da parte di Roma che ha benignità verso il mite Maestro galileo.
9Gesù riprende calmo ad esporre con la parabola il suo pensiero:
«Un uomo, essendo in procinto di fare un lungo viaggio e una lunga assenza, chiamò tutti i suoi servi e consegnò a loro tutti i suoi beni. A chi diede cinque talenti d’argento, a chi due d’argento, a chi uno solo d’oro. A ciascuno a seconda del suo grado e della sua abilità. E poi partì.
Ora, il servo che aveva avuto cinque talenti d’argento andò a negoziare con accortezza i suoi talenti, e dopo qualche tempo essi gliene procurarono altri cinque. Quello che aveva avuto due talenti d’argento fece lo stesso e raddoppiò la somma avuta. Ma quello al quale il padrone aveva più dato - un talento d’oro schietto - preso dalla paura di non saper fare, dei ladri, di mille cose chimeriche, e soprattutto dall’infingardia, fece una grande buca in terra e vi nascose il denaro del suo padrone.
Passarono molti e molti mesi e tornò il padrone. Chiamò subito i suoi servi perché rendessero il denaro avuto in deposito.
Venne quello che aveva avuto cinque talenti d’argento e disse: “Ecco, mio signore. Tu me ne desti cinque. Io, parendomi male di non far fruttare quanto mi avevi dato, mi sono industriato e ti ho guadagnato altri cinque talenti. Di più non ho potuto…”. “Bene, molto bene, servo buono e fedele. Sei stato fedele nel poco, volenteroso e onesto. Ti darò autorità su molto. Entra nella gioia del tuo signore”.
Poi venne l’altro dei due talenti e disse: “Mi sono permesso di usare i tuoi beni per tuo utile. Ecco qui i conti che ti mostrano come ho usato il tuo denaro. Vedi? Erano due talenti d’argento. Ora sono quattro. Sei contento, mio signore?”. E il padrone dette al servo buono la stessa risposta data al primo servo.
Venne per ultimo quello che, godendo della massima fiducia del padrone, aveva avuto dallo stesso il talento d’oro. Lo svolse dalla sua custodia e disse: “Tu mi hai affidato il maggior valore, perché mi sai prudente e fedele, così come io so che tu sei intransigente ed esigente e che non tolleri perdite nel tuo denaro, ma se disgrazia ti incoglie ti rifai su chi ti è prossimo, perché in verità mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso, non condonando uno spicciolo al tuo banchiere o al tuo fattore, per nessuna ragione. Tanto deve essere il denaro quanto tu dici. Ora io, temendo di sminuire questo tesoro, l’ho preso e l’ho nascosto. Non mi sono fidato di nessuno, neppure di me stesso. Ora l’ho dissotterrato e te lo rendo. Eccoti il tuo talento”.
“O servo iniquo ed infingardo! In verità tu non mi hai amato, poiché non mi hai conosciuto e non hai amato il mio benessere perché l’hai lasciato inerte. Hai tradito la stima che avevo posta in te, e da te stesso ti smentisci, ti accusi e condanni. Tu sapevi che io mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso. E perché allora non hai fatto che io potessi mietere e raccogliere Così rispondi alla mia fiducia? Così mi conosci? Perché non hai portato il denaro ai banchieri, che lo avrei al ritorno ritirato con gli interessi? A questo con particolare cura ti avevo istruito, e tu, stolto infingardo, non ne hai fatto conto. Ti sia dunque levato il talento e ogni altro bene e sia dato a quello che ha i dieci talenti”.
“Ma colui ne ha già dieci, mentre questo ne resta privo…” gli obbiettarono.
“Bene sta. A chi ha, e su quanto ha lavora, sarà dato più ancora e fino alla sovrabbondanza. Ma a chi non ha, perché non volle avere, sarà tolto anche quello che gli fu dato. Riguardo al servo disutile, che ha tradito la fiducia mia e lasciato inerti i doni datigli, gettatelo fuori dalla mia proprietà, e vada piangendo e rodendosi in cuor suo”.
Questa è la parabola. Come tu vedi, o rabbi, a chi più aveva meno restò, perché non seppe meritare di conservare il dono di Dio. E non è detto che uno di quelli che tu chiami discepoli solo di nome, aventi ben poco da negoziare perciò, e anche fra chi, ascoltandomi solo per accidente, come tu dici, e avendo per unica moneta l’anima, non giungano ad avere il talento d’oro, e i frutti dello stesso anche, che verrà levato ad uno dei più beneficati. Infinite sono le sorprese del Signore, perché infinite sono le reazioni dell’uomo. Vedrete gentili giungere alla Vita eterna e samaritani possedere il Cielo, e vedrete israeliti puri e seguaci miei perdere il Cielo e l’eterna Vita».
10Gesù tace e, come volesse troncare ogni discussione, si volge verso la cinta del Tempio.
Ma un dottore della Legge, che si era seduto in serio ascolto sotto il porticato, si alza e gli si para davanti chiedendogli: «Maestro, che debbo fare per ottenere la Vita eterna? Hai risposto ad altri, rispondi a me pure».
«Perché mi vuoi tentare? Perché vuoi mentire? Speri che Io dica cosa disforme alla Legge perché aggiungo concetti più luminosi e perfetti ad essa? Cosa c’è scritto nella Legge? Rispondi! Quale è il comandamento principale di essa?»
«”Amerai il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze, con tutta la tua intelligenza. Amerai il tuo prossimo come te stesso”».
«Ecco. Bene hai risposto. Fa’ questo e avrai la Vita eterna».
«E chi è il mio prossimo ? Il mondo è pieno di gente buona e malvagia, nota ed ignota, amica e nemica di Israele. Quale è il mio prossimo?».
«Un uomo scendendo da Gerusalemme a Gerico per le gole delle montagne, incappò nei ladroni, i quali, dopo averlo ferito crudelmente, lo spogliarono di ogni suo avere e fin delle vesti, lasciandolo più morto che vivo sul bordo della strada.
Per la stessa via passò un sacerdote che aveva cessato il suo turno al Tempio. Oh! era ancor profumato degli incensi del Santo! E avrebbe dovuto avere l’anima profumata di bontà soprannaturale e di amore, essendo stato nella Casa di Dio, quasi a contatto coll’Altissimo. Il sacerdote aveva fretta di tornare alla sua casa. Guardò dunque il ferito ma non si arrestò. Passò oltre sollecito, lasciando il disgraziato sulla proda.
Passò un levita. Contaminarsi lui che deve servire nel Tempio? Ohibò! Raccolse la veste perché non si sporcasse di sangue, gettò uno sguardo sfuggente su colui che gemeva nel suo sangue e affrettò il passo verso Gerusalemme, verso il Tempio.
Terzo, venendo dalla Samaria, diretto al guado, venne un samaritano. Vide il sangue, si fermò, scoperse il ferito nel crepuscolo che si infittiva, scese dal giumento, si accostò al ferito, lo ristorò con un sorso di vino gagliardo, strappò il suo mantello farne fasce e, lavate e unte le ferite prima con aceto e poi con olio, gliele fasciò con amore, e caricato il ferito sul suo giumento, guidò con accortezza la bestia, sorreggendo nel contempo il ferito, confortandolo con buone parole, non preoccupandosi della fatica, né sdegnandosi per essere questo ferito di nazionalità giudea. Giunto in città, lo condusse all’albergo, lo vegliò per tutta la notte e all’alba, vedendolo migliorato, lo affidò all’oste, pagandolo in anticipo con dei denari e dicendo: “Abbine cura come fossi io stesso. Al mio ritorno, quanto avrai speso in più io te lo renderò e con buona misura, se bene avrai fatto”. E se ne andò.
Dottore della Legge, rispondimi. Quale fra questi tre fu “prossimo” per colui che incappò nei ladroni? Forse il sacerdote? Forse il levita? O non piuttosto il samaritano che non si chiese chi era il ferito, perché era ferito, se faceva male a soccorrerlo perdendo tempo, denaro e rischiando d’essere accusato d’essere il feritore?».
Il dottore della Legge risponde: «Fu “prossimo” costui, perché ebbe misericordia».
«Fa’ tu pure il simigliante e amerai il prossimo e Dio nel prossimo, meritando vita eterna».
11Nessuno osa più parlare e Gesù ne approfitta per raggiungere le donne, che erano in attesa presso la cinta, e con esse andare di nuovo in città. Ora ai discepoli si è aggiunta una coppia di sacerdoti, o meglio, un sacerdote e un levita, giovanissimo quest’ultimo, patriarcale l’altro.
Ma Gesù ora parla con la Madre avendo in mezzo, fra Sé e Lei, Marziam. E le chiede: «Mi hai udito, Madre?».
«Sì, Figlio mio, e alla tristezza di Maria di Cleofe si è aggiunta la mia. Ella ha pianto poco prima di entrare nel Tempio…».
«Lo so, Madre. E ne so il motivo. Ma non deve piangere. Solo pregare».
«Oh! prega tanto! In queste sere, sotto la sua capanna, fra i figli dormenti, ella pregava e piangeva. Io la sentivo piangere attraverso la parete sottile delle frasche vicine. Vedere a pochi passi Giuseppe e Simone, vicini ma divisi così!… E non è la sola a piangere. Con me ha pianto Giovanna che ti pare tanto serena…».
«Perché, Madre?».
«Perché Cusa… Ha una condotta… inesplicabile. Un poco la seconda in tutto. Un poco la respinge in tutto. Se sono soli, dove nessuno li vede, è il marito esemplare di sempre. Ma se con lui sono altre persone, della Corte, è naturale, ecco allora che egli diviene autoritario e sprezzante per la mite sua sposa. Ella non capisce perché…».
«Io te lo dico. Cusa è servo di Erode. Comprendimi, Madre. “Servo”. Io non lo dico a Giovanna per non darle dolore. Ma così è. Quando non teme biasimo e derisione sovrana, è il buon Cusa. Quando li può temere, non è più tale».
«È perché Erode è molto irritato per Mannaen e…».
«È perché Erode è folle del rimorso tardivo di aver ceduto ad Erodiade. Ma Giovanna ha già tanto bene nella vita. Deve, sotto il diadema, portare il suo cilizio».
«Anche Annalia piange…».
«Perché?».
«Perché lo sposo devia contro di Te».
«Non pianga. Diglielo. Ciò è una risoluzione. Una bontà di Dio. Il suo sacrificio porterà di nuovo Samuele al Bene. Per ora questo la lascerà libera da pressioni per il matrimonio. Le ho promesso di prenderla con Me. Mi precederà nella morte…».
«Figlio!…». Maria stringe la mano di Gesù, col viso che si fa esangue.
«Mamma cara! È per gli uomini. Lo sai. È per amore degli uomini. Beviamo il nostro calice con buona volontà. Non è vero?».
«Maria inghiotte le lacrime e risponde: «Sì» Un «sì» straziato e straziante tanto.
Marziam alza il visetto e dice a Gesù: «Perché dici queste brutte cose che fanno dolore alla Mamma? Io non ti lascerò morire. Come ho difeso gli agnelli così difenderò Te.»
Gesù lo carezza e, per sollevare il morale dei due afflitti, chiede al bambino: «Che faranno, ora, le tue pecorelle? Non le rimpiangi?».
«Oh! sono con Te! Però ci penso sempre e mi chiedo: “Porfirea le avrà portate al pascolo? e avrà fatto attenzione che Spuma non vada nel lago?”. È tanto vivace Spuma, sai? Sua madre lo chiama, lo chiama… Macché! Fa ciò che vuole. E Neve, così ghiotta che mangia fino a stare male? Sai, Maestro? Io capisco cosa è essere sacerdote in tuo Nome. Meglio degli altri lo capisco. Loro (e accenna con la mano gli apostoli che vengono dietro) dicono tanti paroloni, fanno tanti progetti... per dopo. Io dico: “Farò il pastore. Come per le pecorine, per gli uomini. E sarà sufficiente”. La Mamma mia e tua mi ha detto ieri un così bel punto dei profeti… e mi ha detto: “Proprio così è il nostro Gesù”. E io nel cuore ho detto: “E io pure sarò proprio così”. Poi ho detto alla Mamma nostra: “Per ora sono agnello, poi sarò pastore. Invece ora Gesù è Pastore e poi è anche Agnello. Ma tu sei sempre l’Agnella, solo l’Agnella nostra, bianca, bella, cara, dalle parole più dolci del latte. È per questo che Gesù è tanto Agnello: perché è nato da te, Agnellina del Signore”».
Gesù si china e lo bacia, con slancio. Poi chiede: «Tu dunque vuoi proprio essere sacerdote?».
«Certo, mio Signore! Per questo cerco di farmi buono e di sapere tanto. Vado sempre da Giovanni di Endor. Mi tratta sempre da uomo e con tanta bontà. Voglio essere un pastore delle pecore sviate e non sviate, e medico-pastore delle ferite e fratturate, come dice il Profeta, Oh! che bello!» e il bambino fa un salto, battendo le mani.
«Cosa ha questo capinero da essere tanto felice?» chiede Pietro venendo avanti.
«Vede la sua via. Nettamente. Sino alla fine. Ed Io consacro questa sua visione col mio “sì”».
13Si fermano davanti ad un’alta casa che, se non erro, è verso il sobborgo di Ofel, ma in luogo più signorile.
«Qui ci fermiamo?».
«Questa è la casa che Lazzaro mi ha offerta per il banchetto di letizia. Qui già vi è Maria».
«Perché non è venuta con noi? Per paura degli scherni?».
«Oh! no! Io solo gliel’ho ordinato».
«Perché, Signore?».
«Perché il Tempio è più suscettibile di una sposa gravida. Finché posso, e non per viltà, non voglio urtarlo».
«Non ti servirà a niente, Maestro. Io, se fossi Tu, non solo lo urterei. Ma lo butterei giù dal Moria con tutti quelli che ci sono dentro».
«Sei un peccatore, Simone. Occorre pregare per i propri simili, non ucciderli».
«Io sono peccatore. Ma Tu no... e… dovresti farlo».
«Ci sarà chi lo fa. E dopo che la misura del peccato sarà raggiunta».
«Quale misura?».
«Una misura che empierà tutto il Tempio, traboccando per Gerusalemme. Non puoi capire… Oh! Marta! Apri dunque al Pellegrino la tua casa!».
Marta si fa riconoscere e aprire. Entrano tutti in un lungo atrio che finisce in un cortile selciato, avente quattro alberi ai quattro angoli. Una vasta scala si apre sopra al terreno, e dalle finestre aperte si vede tutta la città nei suoi sali-scendi. Arguisco perciò che la casa sia sulle pendici meridionali, o sud orientali, della città. La sala è apparecchiata per molti, molti ospiti. Tavole e tavole sono messe le une parallele alle altre. Un centinaio di persone può comodamente prendervi ristoro.
Accorre Maria Maddalena, che era altrove, intenta alle dispense, e si prostra davanti a Gesù. E viene Lazzaro con un sorriso beato sul volto malaticcio. Entrano man mano gli ospiti, un poco impacciati taluni, più sicuri gli altri. Ma la gentilezza delle donne li fa tutti presto a loro agio.
14Il sacerdote Giovanni conduce a Gesù i due presi nel Tempio. «Maestro, il mio buon amico Gionata e il mio giovane amico Zaccaria. Sono veri israeliti senza malizia e senz’astio».
«La pace a voi. Sono lieto di avervi. Il rito deve essere osservato anche in queste dolci consuetudini. È bello che la Fede antica dia la mano di amica alla nuova Fede venuta dal suo stesso ceppo. Sedete al mio fianco mentre viene l’ora del pasto».
Parla il patriarcale Gionata, mentre il giovine levita guarda qua e là curioso, stupito, e forse anche intimidito. Penso che si voglia dare un contegno spigliato, ma in realtà sia come un pesce fuor d’acqua. Per fortuna Stefano viene in suo soccorso e gli porta, uno dopo l’altro, gli apostoli e i discepoli principali.
Il vecchio sacerdote, lisciandosi la barba di neve, dice: «Quando Giovanni venne a me, proprio a me, suo maestro, a mostrarmi la sua guarigione, io ebbi voglia di conoscerti. Ma, Maestro, io quasi più non esco dal mio recinto. Vecchio sono… Speravo vederti però prima di morire. E Jeovè mi ha esaudito. Lode sia a Lui! Oggi ti ho sentito al Tempio. Tu superi Hillele, il vecchio, il saggio. Io non voglio, anzi io non posso dubitare che Tu sia ciò che il mio cuore attende. Ma sai cosa è avere bevuto per quasi ottanta anni la fede d’Israele quale è divenuta in secoli di… lavorazione umana? Si è fatta sangue nostro. E io sono così vecchio! Sentire Te è come sentire l’acqua che esce da una fresca sorgente. Oh! sì! Un’acqua vergine! Ma io... ma io sono saturo dell’acqua stanca che viene da tanto lontano!… che si è appesantita di tante cose. Come farò per levarmi questa saturazione è gustare di Te?».
«Credermi e amarmi. Non necessita altro per il giusto Gionata».
«Ma presto io morirò! Farò in tempo a credere tutto quello che dici? Non riuscirò più neppure a seguire tutte le tue parole, o a conoscerle dalla bocca altrui. E allora?».
«Le imparerai in Cielo. Non muore alla Sapienza che il dannato. Mentre chi muore in grazia di Dio attinge la Vita e vive nella Sapienza. Cosa credi tu che Io sia?».
«Non puoi essere che l’Atteso che ha precorso il figlio del mio amico Zaccaria. Lo hai conosciuto?».
«Mi era parente».
«Allora Tu sei parente del Battista?».
«Sì, sacerdote».
«Egli è morto… e non posso dire: “Infelice!”. Perché è morto fedele alla giustizia, dopo aver compiuto la sua missione, e perché… Oh! tempi atroci che viviamo! Non è meglio tornare ad Abramo?».
«Sì. Ma più atroci verranno, sacerdote».
«Tu dici? Roma, eh?».
«Non Roma sola. Israele colpevole ne sarà la causa prima».
«È vero. Dio ci colpisce. Lo meritiamo. Ma però anche Roma… 15Hai sentito parlare dei galilei uccisi da Pilato mentre consumavano un sacrificio? Il loro sangue si fuse con quello della vittima. Fin presso l’altare! Fin presso l’altare!».
«Ho sentito».
Tutti i galieli tumultuano per questo sopruso. Gridano: «È vero che egli era un falso Messia. Ma perché uccidere i suoi seguaci dopo aver già percosso lui? E perché in quell’ora? Erano più peccatori forse?».
Gesù impone pace e poi dice: «Vi chiedete se erano più peccatori quelli di tanti altri galilei e se è per questo che furono uccisi? No, che no lo erano. In verità vi dico che essi hanno pagato e che molti altri pagheranno se non vi convertite al Signore. Se non farete tutti penitenza, perirete tutti in ugual misura, in Galilea e altrove. Dio è sdegnato del suo popolo. Io ve lo dico. Non bisogna credere che i colpiti siano sempre i peggiori. Ognuno esamini se stesso, sé giudichi e non altro. Anche quei diciotto su cui cadde la torre di Siloe e li uccise non erano i più colpevoli in Gerusalemme. Io ve lo dico. Fate, fate penitenza se non volete essere stritolati come essi, e anche nello spirito. 16Vieni, sacerdote d’Israele. La mensa è pronta. Tocca a te, perché il sacerdote è sempre colui che va onorato per l’Idea che rappresenta e richiama, tocca a te, patriarca fra noi, tutti più giovani, offrire e benedire».
«No, Maestro! No! Non posso davanti a Te! Tu sei il Figlio di Dio!».
«Offri pure l’incenso davanti all’altare! E non credi forse che là è Dio?».
«Sì che lo credo! Con tutte le mie forze!».
«E allora? Se non tremi di offrire davanti alla Gloria Ss. dell’Altissimo, perché vuoi tremare davanti alla Misericordia che si è vestita di carne per portare anche a te la benedizione di Dio prima che venga a te la notte? Oh! che non sapete voi di Israele che, proprio perché l’uomo possa avvicinare Dio e non morirne, ho messo sulla mia Divinità insostenibile il velo della carne. Vieni e credi e sii felice. In te Io venero tutti i sacerdoti santi, da Aronne all’ultimo che sarà sacerdote d’Israele con giustizia, a te forse, perché in verità la santità sacerdotale langue fra noi come pianta senza soccorso».
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/