"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’,
ma leggetela e fatela leggere"

Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
Evangelo come mi è stato rivelato
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Domenica 5 Luglio 2015, XIV Domenica del Tempo Ordinario - Anno B -

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Marco 6,1-6.
In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i discepoli lo seguirono.
Venuto il sabato, incominciò a insegnare nella sinagoga. E molti ascoltandolo rimanevano stupiti e dicevano: «Donde gli vengono queste cose? E che sapienza è mai questa che gli è stata data? E questi prodigi compiuti dalle sue mani?
Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?». E si scandalizzavano di lui.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua».
E non vi potè operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì.
E si meravigliava della loro incredulità. Gesù andava attorno per i villaggi, insegnando.
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 4 Capitolo 246 pagina 122.
1Ancora la sinagoga di Nazaret, in giorno di sabato, però.
Gesù ha letto l’apologo contro Abimelec e termina con le parole: «esca la lui un fuoco e divori i cedri del Libano”». Poi rende al sinagogo il rotolo.
«Il resto non lo leggi? Bene sarebbe per far comprendere l’apologo» dice il sinagogo.
«Non occorre. Il tempo di Abimelec è molto lontano. Io applico al momento di ora l’apologo antico.
Udite, genti di Nazaret. Voi già sapete, per istruzione del vostro sinagogo, il quale fu istruito a suo tempo da un rabbi, e questo da un altro ancora, e così via da secoli, e sempre con lo stesso metodo e con le stesse conclusioni, le applicazioni dell’apologo contro Abimelec. Da Me sentirete un’altra applicazione. E vi prego, del resto, di saper usare della vostra intelligenza e non essere come corde appoggiate sulle carrucole del pozzo, che finché non sono logore vanno dalla carrucola all’acqua, dall’acqua alla carrucola senza mia poter cambiare. L’uomo non è un canapo obbligato, né un arnese meccanico. L’uomo è dotato di un cervello intelligente e lo deve saper usare di suo, a seconda dei bisogni e delle circostanze. Perché, se la lettera della parola è eterna, le circostanze cambiano. Miseri quei maestri che non sanno saper volere la fatica e la soddisfazione di estrarre volta per volta l’insegnamento nuovo, ossia lo spirito che le parole antiche e sapienti contengono sempre. Saranno simili a echi che non possono che ripetere, magari dieci e dieci volte, una sola parola, senza mettervene pur una di loro.

2Gli alberi, ossia l’umanità raffigurata nel bosco dove sono radunate tutte le specie di piante, di arbusti e di erbe, sentono il bisogno di essere condotti da uno che si aggravi di tutte le glorie ma anche, ed è peso ben maggiore, di tutti i gravami dell’autorità, dell’essere il responsabile della felicità o infelicità dei sudditi, il responsabile presso i sudditi, presso i popoli vicini e, ciò che è tremendo, presso Dio. Perché le corone o le preminenze sociali, quali che siano, sono date dagli uomini, è vero, ma permesse da Dio, senza la quale condiscendenza nessuna forza umana può imporsi. Cosa che spiega gli impensabili e improvvisi mutamenti di dinastie che parevano eterne, e di potenze che parevano intoccabili, e che, quando passarono la misura nell’essere punizioni ai popoli o prova dei popoli, furono rovesciate dagli stessi, per permesso di Dio, divenendo nulla, polvere, talora fango di bassa cloaca.
Ho detto: i popoli sentono il bisogno di eleggersi uno che si aggravi di tutte le responsabilità verso i sudditi, verso le nazioni vicine e verso Dio, ciò che è più tremendo di tutto. Perché, se il giudizio della storia è tremendo, e invano cercano interessi di popoli di mutarlo, perché eventi e popoli futuri lo renderanno alla sua prima tremenda verità, ancor peggio è il giudizio di Dio, il quale non subisce pressioni da chicchessia, e non è soggetto a mutamenti di umore e di giudizio, come troppo spesso gli uomini lo sono, e tanto meno è soggetto a errori di giudizio. Occorrerebbe perciò che gli eletti ad essere capi di popoli e creatori di storia agissero con la giustizia eroica propria dei santi, per non essere infamati nei secoli futuri e puniti da Dio nei secoli dei secoli.

3Ma torniamo all’apologo di Abimelec. Gli alberi dunque vollero eleggersi un re e andarono dall’ulivo. Ma questo, albero sacro e consacrato ad usi soprannaturali, per l’olio che arde davanti al Signore ed è parte preponderante nelle decime e nei sacrifizi, che presta il suo liquido a formare il balsamo santo per l’unzione dell’altare, dei sacerdoti e dei re, e scende con proprietà direi quasi taumaturgiche nei corpi o sui corpi malati, rispose: “Come posso io mancare alla mia vocazione santa e soprannaturale per avvilirmi in cose della terra?”
Oh! La dolce risposta dell’ulivo! Perché mai non è imparata e praticata da tutti coloro che Dio elegge a santa missione, almeno da quelli, dico almeno? Perché in verità andrebbe detta da ogni uomo in risposta alle suggestioni del demonio, dato che ogni uomo è re e figlio di Dio, dotato di un’anima che tale lo fa, regale, figlialmente divino, chiamato a destino soprannaturale. Ha un’anima che è un altare e una casa. L’altare di Dio, la casa dove il Padre dei Cieli scende a ricevere amore e riverenza dal figlio e suddito. Oggi uomo ha un’anima, ed ogni anima essendo altare fa dell’uomo che la contiene un sacerdote, custode dell’altare, ed è detto nel Levitico: “Il Sacerdote non si contamini”. L’uomo dunque avrebbe il dovere di rispondere alle tentazioni del demonio, del mondo e della carne: “Posso io cessare di essere spirituale per occuparmi di cose materiali e peccaminose?”.

4Gli alberi andarono allora dal fico, invitandolo a regnare su loro. Ma il fico rispose: “Come posso io rinunziare alla mia dolcezza ed ai miei soavissimi frutti per divenire vostro re?”.
Molti si volgono a colui che è dolce per averlo re. Non tanto per ammirazione della sua dolcezza quanto perché sperano che per essere molto dolce finisca col diventare un re da burla, dal quale si possa attendere ogni consenso e sul quale permettersi ogni licenza. Ma la dolcezza non è debolezza. È bontà. Giusta. Intelligente. Ferma. Non scambiate mai la dolcezza con la debolezza La prima è virtù, la seconda è difetto. E appunto essendo virtù comunica a chi la possiede una dirittura di coscienza che gli permette di resistere alle sollecitazioni e seduzioni umane, intese a piegarlo verso di oro interessi, che non sono gli interessi di Dio, rimanendo fedele al suo destino, ad ogni costo. Il dolce di spirito non ribatterà mai con asprezza le rampogne altrui, non respingerà mai con durezza chi lo reclama. Ma però, con perdoni e sorriso, dirà sempre: “Fratello, lasciami alla mia dolce sorte. Io sono qui per consolarti ed aiutarti, ma non posso divenire re, quale tu pensi, perché di un’unica regalità mi curo e preoccupo, per l’anima mia e per l’anima tua: di quella spirituale”.

5Gli alberi andarono dalla vite a chiederle di essere il loro re. Ma la vite rispose: “Come posso io rinunciare ad essere allegrezza e forza per venire a regnare su voi?”.
L’essere re, e per le responsabilità e per i rimorsi, perché più raro di diamante nero è il re che non pecca e non si crea rimorsi, porta sempre a cupezze di spirito. La potenza seduce finché splende come un faro da lontano, ma quando la si è raggiunta si vede che non è che un lume di lucciola e non di stella. E anche: la potenza non è che una forza legata dai mille canapi dei mille interessi che si agitano intorno ad un re. Interessi di cortigiani, interessi di alleati, interessi personali e di parentele. Quanti re giurano a se stessi, mentre l’olio li consacra: “Io sarò imparziale”, e poi non sanno esserlo? Come un albero potente che non si ribella al primo abbraccio dell’edera molle e sottile dicendo: “È tanto esile che non mi può nuocere” e anzi si compiace di esserne inghirlandato e di esserne il protettore che la sorregge nel suo salire, così sovente, potrei dire sempre, il re cede al primo abbraccio di un interesse cortigiano, alleato, personale o di parentela che a lui si volge, e si compiace di esserne il munifico protettore. “È tanto poca cosa!” dice anche se la coscienza gli grida: “Bada!”. E pensa non possa nuocergli né nel potere, né nel buon nome.
Anche l’albero crede così. Ma viene il giorno che, ramo dopo ramo, crescendo in robustezza e in lunghezza, crescendo nella voracità di suggere linfe del suolo e salire alla conquista di luce e di sole, l’edera abbraccia tutto l’albero potente, lo soverchia, lo soffoca, l’uccide. Ed era tanto esile! E lui era tanto forte! Anche per i re, è così. Un primo compromesso con la propria missione, una prima alzata di spalle alla voce della propria coscienza, perché le lodi sono dolci, perché l’aria di protettore ricercato piace, e viene il momento in cui il re non regna, ma regnano gli interessi altrui e lo imprigionano, lo imbavagliano fino a soffocarlo e lo sopprimono se, divenuti più forte di lui, vedono che egli non si affretta a morire. Anche l’uomo comune, sempre un re nello spirito, si perde se accetta regalità minori per superbia, per avidità. E perde la sua serenità spirituale che gli viene dall’unione con Dio. Perché il demonio, il mondo e la carne possono dare un illusorio potere e godere, ma a costo della allegrezza spirituale che viene dall’unione con Dio.
Allegrezza e forza dei poveri di spirito, ben meritate che l’uomo sappia dire: “E come posso accettare di divenire re nella parte inferiore se, venendo ad alleanza con voi, io perdo forza e allegrezza interna e il Cielo e la sua regalità vera?”. E possono anche dire, questi beati poveri di spirito che hanno solo la mira di possedere il Regno dei Cieli e sprezzano ogni altra ricchezza che quel regno non sia, e possono anche dire: “E come possiamo venire meno alla nostra missione, che è quella di maturare succhi fortificatori e di allegrezza per questa umanità sorella, che vive nell’arido deserto della animalità e che ha bisogno di essere dissetata per non morire, per essere nutrita di succhi vitali come un bimbo privo di nutrice? Noi siamo le nutrici dell’umanità che ha perduto il seno di Dio, che erra sterile e malata, che giungerebbe alla disperata morte, ai neri scetticismi, se non trovasse noi che, con l’allegra operosità dei liberi da ogni laccio terreno, li facessimo persuasi che vi è una Vita, una Gioia, una Libertà, una Pace. Non possiamo rinunciare a questa carità per un interesse meschino”.

6Gli alberi andarono allora dallo spino. Questo non li respinse. Ma impose patti severi: “Se mi volete per re, venite sotto di me. Ma se non lo volete fare, dopo avermi eletto, io farò di ogni spino tormento acceso e arderò tutti voi, anche i cedri del Libano”.
Ecco le regalità che il mondo accetta per vere! La prepotenza e la ferocia sono, per l’umanità corrotta, scambiate per vera regalità, mentre la mitezza e la bontà vengono prese per stoltezza e bassi sentimenti. L’uomo non si sottomette al Bene ma si sottomette al Male. Ne è sedotto. E conseguentemente ne è arso.
Questo è l’apologo di Abimelec.

7Ma Io ora ve ne propongo un altro. Non lontano e per fatti lontani. Ma vicino e presente.
Gli animali pensarono di eleggersi un re. Ed essendo astuti pensarono di eleggersi uno che non desse timore di essere forte o feroce. Scartarono dunque il leone e tutti i felini. Dissero di non volere le rostrate aquile né nessun altro uccello di rapina. Diffidarono del cavallo che con rapidità poteva raggiungerli e vedere le loro azioni; e ancor più diffidarono dell’asino di cui sapevano la pazienza ma anche le subite furie e i potenti zoccoli. Inorridirono di avere per re la scimmia perché troppo intelligente e vendicativa. Con la scusa che il serpente si era prestato a Satana per sedurre l’uomo, dissero di non volerlo a re nonostante i suoi vaghi colori e l’eleganza delle sue mosse. In realtà non lo vollero perché ne conoscevano il silenzioso incedere, il forte potere dei suoi muscoli, il tremendo agire del suo veleno. Darsi come re un toro o altro animale munito di aguzze corna? Ohibò! “Anche il diavolo le ha” dissero. Ma pensavano: “Se ci ribelliamo, un giorno esso ci stermina con le sue corna”.
Scansa e scansa, videro un agnelletto grasso e bianco saltabeccare allegro su un prato verde, dando musate alla tonda mammella materna. Non aveva corna, ma aveva occhi miti come un cielo d’aprile. Era mansueto e semplice. Di tutto era contento. E dell’acqua di un piccolo rio dove beveva tuffando il musetto rosato; e dei fioretti dai diversi sapori che appagano l’occhio e il palato; e dell’erba folta in cui era bello giacere quando era sazio; e delle nuvole che parevano altri agnellini che scorrazzassero su quei prati azzurri, lassù, e lo invitassero a giocare correndo sul prato come esse nel cielo; e, soprattutto, delle carezze della mamma che ancora gli permetteva qualche tiepida succhiata leccandogli intanto il vello bianco con la sua rosea lingua; e dell’ovile sicuro e riparato dai venti, della lettiera ben soffice e fragrante, nella quale era dolce dormire presso la madre. “È di facile accontentatura. È senza armi né veleno. È ingenuo. Facciamolo re”. E tale lo fecero. E se ne gloriavano perché era bello e buono, ammirato dai popoli vicini, amato dai sudditi per la sua paziente mansuetudine.

8Passò del tempo e l’agnello divenne montone e disse: “Ora è tempo che io realmente governi. Ora ho il pieno possesso della cognizione della mia missione. Il volere di Dio, che ha permesso che io fossi eletto re, mi ha poi formato a questa missione, dandomi capacità di regnare. È dunque giusto che io la eserciti in modo perfetto, anche per non trascurare i doni di Dio”.
E vedendo sudditi che facevano cose contrarie alla onestà dei costumi, o alla carità, alla dolcezza, alla lealtà, alla morigeratezza, all’ubbidienza, al rispetto, alla prudenza, e così via, alzò la voce per ammonire. I sudditi si risero del suo belato saggio e dolce che non spauriva come il ruggito dei felini, né come lo strido degli avvoltoi quando si calano rapidi sulla preda, né come il sibilo del serpente e neppure come l’abbaiata del cane che incute timore.
L’agnello divenuto montone non si limitò più a belare. Ma andò dai colpevoli per ricondurli al loro dovere. Ma il serpente gli sguisciò fra le zampe. L’aquila si elevò a volo lasciandolo in asso. I felini con una zampata lo scansarono minacciando: “Vedi che cosa c’è nella zampa felpata che per ora ti scansa soltanto? Artigli”. I cavalli, e tutti i corridori in genere, si dettero a giostrare al galoppo intorno a lui, deridendolo. E i forti elefanti o altri pachidermi, con un urto del muso, lo gettarono qua e là, mentre le scimmie, dall’alto degli alberi, lo bersagliarono di proiettili.
L’agnello divenuto montone si inquietò, infine, e disse: “Non volevo usare né le mie corna né la mia forza. Perché io pure ho una forza in questo collo, e sarà presa a modello per abbattere ostacoli di guerra. Non volevo usarla perché preferisco usare amore e persuasione. Ma posto che non vi piegate con queste armi, ecco che userò la forza, perché se voi mancate al vostro dovere verso me e Dio, io non voglio mancare al mio dovere verso Dio e voi. Qui sono stato messo per guidarvi alla Giustizia e al Bene, da voi e da Dio. E qui voglio che Giustizia e Bene, ossia Ordine regnino”. E punì con le corna, leggermente perché era buono, un testardo botolo che continuava a molestare i vicini, e poi, col collo fortissimo, sfondò la porta della tana dove un ingordo ed egoista porco aveva accumulato cibarie a scapito degli altri, e pure abbatté il cespuglio di liane eletto da due lussuriosi scimmiotti per i loro illeciti amori.

9“Questo re si è fatto troppo forte. Vuole realmente regnare lui. Vuole proprio che si viva da saggi. Ciò non ci va a genio. Bisogna detronizzarlo” decisero.
Ma un astuto scimmiotto consigliò: “Non facciamolo altro che con l’apparenza di un motivo giusto. Altrimenti faremo brutta figura presso i popoli e saremo invisi a Dio. Spiamo dunque ogni azione dell’agnello divenuto montone per poterlo accusare con una parvenza di giustizia”.
“Ci penso io” disse il serpente. “Ed io pure” disse la scimmia. Uno strisciando fra le erbe, l’altra stando sull’alto delle piante, non persero mai di vista l’agnello divenuto montone, e ogni sera, quando lui si ritirava per riposare dalle fatiche della missione, e per meditare sulle misure da adottare e le parole da usare per domare la ribellione e vincere i peccati dei sudditi, questi, meno qualche raro onesto e fedele, si riunivano per ascoltare il rapporto delle due spie e dei due traditori. Perché tali erano anche.
Il serpente diceva al suo re: “Ti seguo perché ti amo e se vedessi che sei assalito voglio potere difenderti”. La scimmia diceva al suo re: “Come ti ammiro! Ti voglio aiutare. Guarda, da qua io vedo che oltre quel prato si sta peccando. Corri!”; e poi diceva ai compagni: “Anche oggi ha preso parte al banchetto di alcuni peccatori. Ha finto di andare là per convertirli, ma poi, in realtà, è stato complice dei loro bagordi”. E il serpente riferiva: “È andato fino fuori dal suo popolo, avvicinando farfalle, mosconi e viscidi lumaconi. È un infedele. Commercia con stranieri immondi”.
Così parlavano alle spalle dell’innocente, credendo che costui ignorasse. Ma lo spirito del Signore, che lo aveva formato alla sua missione, lo illuminava anche sulle congiure dei sudditi. Avrebbe potuto fuggire sdegnato, maledicendoli. Ma l’agnello era dolce ed umile di cuore. Amava. Aveva il torto di amare. E aveva quello anche più grande di perseverare, amando e perdonando, nella sua missione, a costo della morte, per compiere la volontà di Dio. Oh! che torti questi presso gli uomini! Imperdonabili! E tanto lo erano che a lui procurarono condanna.
“Sia ucciso per essere liberati dalla sua oppressione”. E il serpente si incaricò di ucciderlo perché è sempre il serpente il traditore…

10Questo è l’altro apologo. A te capirlo, popolo di Nazaret! Io, per l’amore che a te mi lega, ti auguro di rimanere almeno al grado di popolo ostile, e non oltre. L’amor della terra in cui venni bambino, in cui crebbi amandovi e avendo amore, mi fa dire a voi tutti: “Non siete più ostili. Non fate che la storia dica: ‘Da Nazaret venne il suo traditore e i suoi giudici iniqui’ ”.
Addio. Siate retti nel giudicare e costanti nel volere. La prima cosa tutti voi, miei concittadini. La seconda quelli fra voi che non sono disturbati da pensieri disonesti. Io vado… La pace sia con voi».
E Gesù, fra un silenzio penoso, rotto solo da due o tre voci che lo approvano, esce, mesto, a capo chino, dalla sinagoga di Nazaret.

11È seguito dagli apostoli. In coda a tutti sono i figli d’Alfeo. E i loro occhi non sono certo gli occhi di un agnello mansueto… Guardano severamente la folla ostile, e Giuda Taddeo non esita a piantarsi ritto di fronte al fratello Simone e a dirgli: «Credevo di avere un fratello più onesto e di carattere più forte».
Simone china il capo e tace. Ma l’altro fratello, spalleggiato da altri di Nazaret, dice: «Vergognati di offendere il fratello maggiore!».
«No. Mi vergogno di voi. Tutti voi. Non matrigna. Ma matrigna depravata è questa Nazaret per il Messia. Però udite la mia profezia. Piangerete tante lacrime da alimentare una fonte, ma non serviranno a lavare dai libri della storia il nome vero di questa città e di voi. Sapete quale è? “Stoltezza”. Addio».
Giacomo aggiunge un saluto più ampio con augurare luce di sapienza. Ed escono insieme ad Alfeo di Sara e a due giovanotti che, se ben li ravviso, sono i due asinai che scortarono gli asinelli usati per andare incontro a Giovanna di Cusa morente.

12La folla, rimasta interdetta, mormora: «Ma da dove mai costui ha tanta sapienza?».
«E i miracoli donde li fa? Perché farli, li fa. Tutta la Palestina ne parla».
«Non è il figlio di Giuseppe il legnaiolo? Tutti lo abbiamo visto, al banco del fabbro di Nazaret, fare tavole e letti, e aggiustare ruote e serrature. Non è neppure andato a scuola, e solo sua Madre gli fu maestra».
«Uno scandalo anche questo che nostro padre ha criticato» dice Giuseppe d’Alfeo.
«Ma anche i tuoi fratelli finirono la scuola con Maria di Giuseppe».
«Eh! Mio padre fu debole presso la moglie…» risponde ancora Giuseppe.
«Anche il fratello di tuo padre, allora?».
«Anche».
«Ma è proprio il figlio del legnaiuolo?».
«E non lo vedi?».
«Oh! Tanti si assomigliano! Io penso che sia uno che si dice tale ma non lo è».
«E dove è allora Gesù di Giuseppe?»
«Ti pare che sua Madre non lo conosca?».
«Qui ci sono i suoi fratelli e le sue sorelle, e tutti lo dicono parente. Non è forse vero, voi due?».
I due anziani figli di Alfeo annuiscono.
«Allora è divenuto folle o indemoniato, perché ciò che dice non può venire da un operaio».
«Bisognerebbe non ascoltarlo. La sua pretesa dottrina è delirio o possessione»…

13…Gesù è fermo sulla piazza in attesa di Alfeo di Sara che parla con un uomo. E, mentre attende, uno degli asinai che era rimasto presso la porta della sinagoga gli riporta le calunnie dette nella stessa.
«Non te ne addolorare. Un profeta generalmente non è onorato dalla sua patria e dalla sua casa. L’uomo è tanto stolto che crede che per essere profeti occorre essere quasi esseri sua fuori della vita. E i concittadini e i famigliari più di tutti conoscono e ricordano l’umanità del loro concittadino e parente. Ma la verità trionferà sempre. Ed ora ti saluto. La pace sia con te».
«Grazie, Maestro, di avere guarito mia madre».
«Lo meritavi perché hai saputo credere. È inerte il mio potere qui, perché qui non c’è fede. Andiamo, amici. Domani all’alba partiremo».
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 28 Giunio 2015, XIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno B

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Marco 5,21-43.
In quel tempo, essendo passato di nuovo Gesù all'altra riva, gli si radunò attorno molta folla, ed egli stava lungo il mare.
Si recò da lui uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, vedutolo, gli si gettò ai piedi
e lo pregava con insistenza: «La mia figlioletta è agli estremi; vieni a imporle le mani perché sia guarita e viva».
Gesù andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Or una donna, che da dodici anni era affetta da emorragia
e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza nessun vantaggio, anzi peggiorando,
udito parlare di Gesù, venne tra la folla, alle sue spalle, e gli toccò il mantello. Diceva infatti:
«Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita».
E subito le si fermò il flusso di sangue, e sentì nel suo corpo che era stata guarita da quel male.
Ma subito Gesù, avvertita la potenza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi mi ha toccato il mantello?».
I discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che ti si stringe attorno e dici: Chi mi ha toccato?».
Egli intanto guardava intorno, per vedere colei che aveva fatto questo.
E la donna impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità.
Gesù rispose: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Và in pace e sii guarita dal tuo male».
Mentre ancora parlava, dalla casa del capo della sinagoga vennero a dirgli: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?».
Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, continua solo ad aver fede!».
E non permise a nessuno di seguirlo fuorchè a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava.
Entrato, disse loro: «Perché fate tanto strepito e piangete? La bambina non è morta, ma dorme».
Ed essi lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della fanciulla e quelli che erano con lui, ed entrò dove era la bambina.
Presa la mano della bambina, le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico, alzati!».
Subito la fanciulla si alzò e si mise a camminare; aveva dodici anni. Essi furono presi da grande stupore.
Gesù raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e ordinò di darle da mangiare.
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 4 Capitolo 230 pagina 20.
Apparsa mentre prego molto stanca e crucciata e perciò proprio nelle peggiori condizioni per pensare a simili cose di mio. Ma stanchezza fisica, mentale e cruccio si sono dileguati al primo apparire del mio Gesù, e scrivo.

Egli è per una strada assolata e polverosa che bordeggia le rive del lago. Si incammina verso il paese circondato da gran folla che l’attendeva di certo e che gli si pigia attorno nonostante che gli apostoli lavorino di braccia e di spalle per fargli largo e alzino la voce per indurre la folla a lasciare un poco di posto.
Ma Gesù non è inquieto per tanta confusione. Più alto di tutta la testa di chi lo circonda, guarda con un dolce sorriso la turba che gli si stringe intorno, risponde ai saluti, accarezza qualche bambino che riesce a insinuarsi fra la siepe degli adulti e giunge a venirgli vicino, posa la mano sul capo degli infanti che le madri sollevano oltre il capo dei presenti perché Egli li tocchi. E cammina intanto. Lentamente, pazientemente in mezzo a questo vocio, e a queste continue pressioni che infastidirebbero chiunque.

2Una voce d’uomo grida «Fate largo, fate largo». È una voce affannata e deve essere conosciuta da molti e rispettata come quella di persona influente, perché la folla si apre, con molta fatica tanto è pigiata, e lascia passare un uomo sulla cinquantina tutto coperto da un vestone lungo e sciolto e con una specie di fazzoletto bianco intorno al capo e ricadente con le falde lungo il viso e il collo.
Giunto davanti a Gesù, si prostra ai suoi piedi e dice: «Oh! Maestro, perché sei stato via tanto tempo? La mia bambina è tanto malata. Nessuno la può guarire. Tu solo sei la speranza mia e della madre. Vieni, Maestro. Ti attendevo con un’ansia infinita. Vieni, vieni subito. La mia unica creatura sta morendo...» e piange.
Gesù posa la mano sul capo dell’uomo piangente, sul capo curvo e scosso dai singhiozzi, e gli risponde: «Non piangere. Abbi fede. La tua bambina vivrà. Andiamo da lei. Alzati! Andiamo!». Queste due ultime parole hanno il tono d’imperio. Prima era il Consolatore. Ora è il Dominatore che parla.
Si rimettono in moto. Gesù ha al fianco il padre piangente e lo tiene per mano. Quando un singhiozzo più forte scuote il pover’uomo, vedo Gesù che lo guarda e gli stringe la mano. Non fa altro, ma quanta forza deve rifluire in un’anima quando si sente trattata così da Gesù!
Prima al posto del padre era Giacomo. Ma Gesù gli ha fatto cedere il posto al povero padre. Pietro è dell’altro lato. Giovanni è di fianco a Pietro e cerca con lo stesso di fare argine alla folla, come fa Giacomo e l’Iscariota dall’altro lato, dopo il padre piangente. Gli altri apostoli sono parte davanti e parte dietro a Gesù. Ma ci vuol altro! Specie i tre di dietro, fra cui vedo Matteo, non ce la fanno a tenere indietro la muraglia viva. Ma quando brontolano un po’ troppo e quasi quasi insultano la folla indiscreta, Gesù volge il capo e dice dolcemente: «Lasciate fare a questi miei piccoli!…».

3Ad un certo momento però si volge di scatto, lasciando anche andare la mano del padre, e si ferma. Si volge non solo col capo. Ma con tutto il corpo. Sembra anche più alto perché ha preso un atteggiamento da re. Col volto e lo sguardo fatto severo, inquisitore, scruta la folla. I suoi occhi hanno lampi, non di durezza ma di maestà.
«Chi mi ha toccato?» chiede. Nessuno risponde. «Chi mi ha toccato, ripeto» insiste Gesù.
«Maestro» rispondono i discepoli, «non vedi come la folla ti pigia da ogni lato? Tutti ti toccano, nonostante i nostri sforzi».
«Chi mi ha toccato per ottenere un miracolo, chiedo. Ho sentito potenza di miracolo uscire da Me perché un cuore l’invocava con fede. Chi è questo cuore?».
Gli occhi di Gesù si chinano due o tre volte, mentre parla, su una donnetta sulla quarantina, molto poveramente vestita e molto sciupata nel volto, la quale cerca di eclissarsi nella folla, di farsi inghiottire dalla calca. Quegli occhi le devono bruciare addosso. Comprende che non può sfuggire e torna avanti e gli si butta ai piedi, quasi col volto nella polvere, le mani protese che però non osano toccare Gesù.
«Perdono. Sono io. Ero malata. Dodici anni che ero malata! Sfuggita da tutti! Mio marito mi ha abbandonata. Ho speso tutto il mio avere per non essere considerata obbrobrio, per vivere come vivono tutti. Ma nessuno ha potuto guarirmi. Lo vedi, Maestro? Sono una vecchia anzi tempo. La forza è defluita da me col mio flusso inguaribile, e la mia pace con essa. M’han detto che Tu sei buono. Me l’ha detto uno che è stato guarito da Te della sua lebbra e che per essere stato tanti anni sfuggito da tutti non ha avuto schifo di me. Non ho osato dirlo prima. Perdono! Ho pensato che solo se ti avessi toccato sarei guarita. Ma non ti ho reso immondo. Ho appena sfiorato il lembo della tua veste là dove striscia al suolo, sulle lordure del suolo... Sono io pure lordura... Ma son guarita, che Tu sia benedetto! Nel momento che ti ho toccato la veste il mio male è cessato. Sono tornata come tutte. Non sarò più schivata da tutti. Mio marito, i miei figli, i parenti potranno stare con me, li potrò accarezzare. Sarò utile alla mia casa. Grazie, Gesù, Maestro buono. Che Tu sia benedetto in eterno!».
Gesù la guarda con bontà infinita. Le sorride. Le dice: «Va’ in pace, figlia. La tua fede ti ha salvata. Sii guarita per sempre. Sii buona e felice. Va’».

4Mentre parla ancora, sopraggiunge un uomo, direi un servo, il quale si rivolge al padre che è stato tutto quel tempo in una attesa rispettosa ma tormentosa come fosse sulla brace. «Tua figlia è morta. Inutile importunare più il Maestro. Il suo spirito l’ha lasciata e già le donne ne fanno i lamenti. La madre ti manda a dire ciò e ti prega di venire subito».
Il povero padre ha un gemito. Si porta le mani alla fronte e se la stringe comprimendosi gli occhi e curvandosi come fosse colpito.
Gesù, che pare non debba vedere e udire nulla, intento come è ad ascoltare e rispondere con la donna, si volge invece e pone la mano sulle spalle curve del povero padre. «Uomo, ti ho detto: abbi fede. Ti ripeto: abbi fede. Non temere. La tua bambina vivrà. Andiamo da lei». E si incammina tenendo stretto a Sé l’uomo annichilito.
La folla, davanti a quel dolore e alla grazia già avvenuta, si ferma intimorita, si divide, lascia camminare speditamente Gesù e i suoi, e poi segue come scia la Grazia che passa.
Si fanno così un cento metri circa, forse più - non sono calcolatrice - e si entra sempre più al centro del paese.

5Un affollamento di gente è davanti ad una casa di civile condizione e commenta a voce alta e stridula l’accaduto, rispondendo a più alti stridi che escono dalla porta spalancata. Sono stridi trillati, acuti, tenuti su una nota monocorde, e sembrano diretti da una voce più acuta che fa da a solo, e alla quale rispondono prima un gruppo di voci più esili, poi un altro di voci più piene. Un baccano da far morire anche chi sta bene.
Gesù ordina ai suoi di sostare davanti all’uscio e chiama con Sé Pietro, Giovanni e Giacomo. Entra con questi in casa tenendo sempre stretto per un braccio il padre piangente. Sembra voglia infondergli la certezza che Egli è lì per farlo felice, con quella stretta.
Le... piangenti (io le chiamerei: le urlatrici) nel vedere il capo di casa e il Maestro raddoppiano il gridio. Battono le mani, scuotono dei tamburelli, percuotono dei triangoli, e su questa... musica appoggiano i loro lamenti.
«Tacete» dice Gesù. «Non occorre piangere. La fanciulla non è morta, ma dorme».
Le donne gettano gridi più forti e alcune si rotolano per terra, si graffiano, si strappano i capelli (o meglio: ne fanno mostra) per mostrare che è proprio morta. I suonatori e gli amici scuotono il capo davanti all’illusione di Gesù. Loro la credono tale.
Ma Egli ripete un: «Tacete!» talmente energico che il baccano, se non cessa del tutto, diviene brusio. E passa oltre.

6Entra in una cameretta. Sul letto è stesa una fanciulla morta. Magra, pallidissima, ella giace già vestita e coi bruni capelli accomodati con cura. La madre piange presso quel lettino dal lato destro e bacia la cerea manina della morta.
Gesù... come è bello ora! Come poche volte l’ho visto! Gesù si accosta sollecito. Pare che scivoli sul pavimento, in volo, tanto si affretta a quel letticciuolo. I tre apostoli restano contro la porta che chiudono in faccia ai curiosi. Il padre si ferma ai piedi del letto.
Gesù va alla sinistra del lettuccio, tende la mano sinistra e prende con questa la manina abbandonata della morticina. La mano sinistra. Ho visto bene. È la mano sinistra tanto di Gesù che della bambina. Alza il braccio destro portando la mano aperta sino all’altezza della spalla e poi l’abbassa con l’atto di uno che giura o comanda. Dice: «Fanciulla, Io te lo dico. Alzati!».
Un attimo in cui tutti, meno Gesù e la morta, restano sospesi. Gli apostoli allungano il collo per vedere meglio. Il padre e la madre guardano con occhi straziati la loro creatura. Un attimo. Poi un sospiro alza il petto della morticina. Un lieve colore monta al visetto cereo e ne annulla le lividure di morte. Un sorriso si disegna sulle labbra pallide prima ancora che gli occhi si aprano, come la fanciulla facesse un bel sogno. Gesù le tiene sempre la mano nella sua mano. La bambina apre dolcemente gli occhi, li gira intorno come se si svegliasse allora. Vede per primo il volto di Gesù che la fissa coi suoi splendidi occhi e le sorride con bontà che incoraggia, e gli sorride.
«Alzati» ripete Gesù. E scosta con la sua mano gli apparati funebri che erano sparsi sul lettuccio e ai lati (fiori, veli, ecc. ecc.) e l’aiuta a scendere, le fa fare i primi passi tenendola sempre per mano.
«Datele da mangiare, ora» ordina. «Essa è guarita. Dio ve l’ha resa. Ringraziatelo. E non dite a nessuno ciò che è accaduto. Voi sapete che era avvenuto di lei. Avete creduto e avete meritato il miracolo. Gli altri non hanno avuto fede. Inutile cercare di persuaderli. A chi nega il miracolo Dio non si mostra. E tu, fanciulla, sii buana. Addio! La pace sia a questa casa». Ed esce rinchiudendo l’uscio dietro di Sè.
La visione cessa.

Le dirò che i due punti in cui essa mi ha particolarmente letificata sono stati quelli in cui Gesù cerca nella folla chi l’ha toccato e soprattutto quando, ritto presso la morticina, le prende la mano e le ordina di alzarsi. La pace, la sicurezza è entrata in me. Non è possibile che un Pietoso suo pari e un Potente non possa avere pietà di noi e vincere il Male che ci fa morire.
Gesù per ora non commenta, come non dice nulla su altre cose. Mi vede quasi morta e non giudica opportuno che io stia meglio questa sera. Sia fatto come Egli vuole. Sono felice abbastanza nell’avere in me la sua visione.


Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 21 Giugno 2015, XII Domenica del Tempo Ordinario - Anno B -

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Marco 4,35-41.
In quel medesimo giorno, verso sera, disse loro: «Passiamo all'altra riva». E lasciata la folla, lo presero con sé, così com'era, nella barca. C'erano anche altre barche con lui. Nel frattempo si sollevò una gran tempesta di vento e gettava le onde nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t'importa che moriamo?». Destatosi, sgridò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e vi fu grande bonaccia. Poi disse loro: «Perché siete così paurosi? Non avete ancora fede?». E furono presi da grande timore e si dicevano l'un l'altro: «Chi è dunque costui, al quale anche il vento e il mare obbediscono?».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 3 Capitolo 185 pagina 196.
[…].Ora che tutti dormono le narro la mia gioia. Ho “visto” il Vangelo di oggi.Noti che stamane, leggendolo, ho detto a me stessa: “Ecco un episodio evangelico che non vedrò mai perché poco si presta ad una visione”. Invece, quando meno vi pensavo, è proprio venuto ad empirmi di gioia. Ecco quanto vidi.

Una barca a vela, non eccessivamente grande ma neppure piccina, una barca da pesca, sulla quale potevano comodamente muoversi un cinque o sei persone, solca le acque di un bel lago color azzurro intenso. Gesù dorme a poppa. È vestito di bianco come al solito. Ha il capo reclinato sul braccio sinistro, e sotto al braccio e al capo ha messo il suo manto azzurro-grigio ripiegato a più doppi. È seduto, non sdraiato, sul fondo della barca, e appoggia la testa su quel pezzo di tavolato che sta nella parte estrema di poppa. Non so come la chiamano i marinai. Dorme placidamente. È stanco. È -placido.Pietro è al timone, Andrea si occupa delle vele, Giovanni e due altri che non so chi siano riordinano gomene e reti nel fondo della barca come avessero intenzione di prepararsi ad una pesca, forse nella notte. Direi che il giorno si avvia alla sera perché il sole già cala ad occidente. I discepoli hanno tutti rialzate le tuniche facendole rimborsare alla vita, per mezzo della cintura, per essere più liberi nei movimenti e nel passare qua e là nella barca scavalcando remi e sedili e ceste e reti senza che le vesti diano noia. Si sono tutti levati il manto.Vedo che il cielo si incupisce e il sole si nasconde dietro dei nuvoloni temporaleschi sbucati d’improvviso da dietro una punta di collina. Il vento li spinge velocemente verso il lago. Il vento per ora è alto e il lago è ancora quieto, solo si fa più cupo nella tinta e ha un corrugamento nella sua superficie. Non sono ancora onde, ma già si muovono le acque.Pietro e Andrea osservano cielo e lago e predispongono le manovre per accostare a riva. Ma il vento si abbatte sul lago e in pochi minuti tutto ribolle e schiuma. Onde che cozzano le une contro le altre, che urtano la navicella, la alzano, l’abbassano, la piegano in tutti i sensi, impediscono le manovre del timone come il vento quella della vela che viene abbassata.Gesù dorme. Né i passi e le voci concitate dei discepoli, né i fischi del vento e neppure gli schiaffi delle onde contro i fianchi e la prora lo svegliano. I suoi capelli ondeggiano al vento e qualche spruzzo d’acqua lo arriva. Ma Egli dorme. Giovanni, da prua, corre a poppa e lo copre col suo mantello che ha tratto da sotto un tavolato. Lo copre con delicato amore.La tempesta si fa sempre più brutta. Il lago è nero come vi si fosse versato dell’inchiostro, striato dalle spume delle onde. La barca inghiotte acqua e sempre più viene spinta al largo dal vento. I discepoli sudano nella manovra e nel buttare oltre bordo l’acqua che le onde rovesciano. Ma non serve nulla. Essi sguazzano ormai sino a metà gamba nell’acqua e la barca diviene sempre più pesante.Pietro perde la calma e la pazienza. Dà al fratello il timone e traballando va verso Gesù e lo scuote vigorosamente.Gesù si sveglia e alza il capo.“Salvaci, Maestro, noi periamo!”, gli grida Pietro (deve gridare per farsi udire).Gesù guarda il suo discepolo fissamente, guarda gli altri e poi guarda il lago. “Hai fede che Io vi possa salvare?”.“Presto, Maestro”, grida Pietro mentre una vera montagna d’acqua, partendo dal centro del lago, si dirige veloce sulla povera barca. Sembra una tromba d’acqua tanto è alta e spaventosa. I discepoli che la vedono venire si inginocchiano e si aggrappano dove e come possono, sicuri che è la fine.Gesù si alza. In piedi su quel tavolato di prora. Figura bianca sul livido della bufera. Stende le braccia verso il maroso e dice al vento: “Fermati e taci”, e all’acqua: “Quietati. Lo voglio”.E il cavallone si dissolve in schiuma che cade senza nuocere con un ultimo ruggito che si spegne in mormorio, come il vento in un ultimo fischio che si muta in sospiro. E sul lago pacificato -torna il sereno del cielo, e la speranza e la fede nel cuore dei discepoli.La maestà di Gesù non la posso descrivere. Bisogna vederla per comprenderla. Ed io me la gusto nel mio interno perché m’è tuttora presente, e penso a quanto era placido il sonno di Gesù e quanto era potente il suo imperio sui venti e sulle onde.Gesù dice poi:“Non ti commento il Vangelo nel senso con cui tutti lo commentano. Ti illustro l’antefatto del brano evangelico.Perché Io dormivo? Non sapevo forse che la burrasca stava per venire? Sì, Io lo sapevo. Io solo lo sapevo. E allora perché dormivo?Gli apostoli erano uomini, Maria. Animati da buona volontà, ma ancora tanto “uomini”. L’uomo si crede sempre capace di tutto. Quando poi è realmente capace in una cosa, è pieno di sussiego e di attaccamento per la sua “capacità”.Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni erano dei buoni pescatori e perciò si credevano insuperabili nelle manovre marinare. Io per loro ero un grande “rabbi”, ma un nulla come marinaio. Perciò mi giudicavano incapace di aiutarli e, quando salivano in barca per traversare il mare di Galilea, mi pregavano di stare seduto perché non ero capace di altro. Anche il loro affetto era causa di questo, perché non volevano impormi fatiche materiali. Ma l’attaccamento alla loro capacità superava anche l’affetto.Io non mi impongo che in casi eccezionali, Maria. Generalmente vi lascio liberi e attendo. Quel giorno, stanco e pregato di riposare, ossia di lasciarli fare, loro che erano tanto pratici, mi misi a dormire.Nel mio sonno era anche mescolata la constatazione del come l’uomo è “uomo” e vuol fare da sé senza sentire che Dio non chiede che di aiutarlo. Vedevo in quei “sordi spirituali”, in quei “ciechi spirituali”, tutti i sordi e ciechi dello spirito, che per secoli e secoli si sarebbero rovinati per “volere fare da sé” avendo Me curvo sui loro bisogni in attesa di essere chiamato in aiuto.Quando Pietro gridò: “Salvaci!”, la mia amarezza cadde come sasso lasciato andare.Io non sono “uomo”, sono il Dio-Uomo. Non agisco come voi agite. Voi, quando uno ha respinto il vostro consiglio o aiuto e lo vedete negli impicci, se anche non siete tanto cattivi da goderne, lo siete sempre tanto da rimanere sdegnosamente, indifferentemente a guardarlo senza commuovervi al suo grido di aiuto. Col vostro contegno gli significate: “Quando ti volevo aiutare non mi hai voluto? Ora fa’ da te”. Ma Io sono Gesù. Sono Salvatore. E salvo, Maria. Salvo sempre non appena mi si invoca.I poveri uomini potrebbero obbiettare: “E allora perché permetti alle tempeste singole o collettive di formarsi?”.Se Io con la mia potenza distruggessi il Male, quale che sia, voi giungereste a credervi autori del Bene, che in realtà sarebbe mio dono, e non vi ricordereste mai più di Me. Mai più.Avete bisogno, poveri figli, del dolore per ricordarvi che avete un Padre. Come il figliol prodigo che si ricordò di averlo quando ebbe fame. Le sventure servono a farvi persuasi del vostro nulla, della vostra insipienza, causa di tanti errori, e della vostra cattiveria, causa di tanti lutti e dolori, delle vostre colpe, causa di punizione che da voi vi date, e della mia esistenza, della mia potenza, della mia bontà.Ecco quel che vi dice il Vangelo di oggi. Il “vostro” vangelo dell’ora presente, poveri figli. Chiamatemi. Gesù non dorme che perché è angosciato di vedersi disamato da voi. Chiamatemi e verrò”.[…].
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 14 Giugno 2015, XI Domenica del Tempo Ordinario - Anno B

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Marco 4,26-34. 
In quel tempo, Gesù diceva alla folla: «Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra;
dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa.
Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga.
Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura».
Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo?
Esso è come un granellino di senapa che, quando viene seminato per terra, è il più piccolo di tutti semi che sono sulla terra;
ma appena seminato cresce e diviene più grande di tutti gli ortaggi e fa rami tanto grandi che gli uccelli del cielo possono ripararsi alla sua ombra».
Con molte parabole di questo genere annunziava loro la parola secondo quello che potevano intendere.
Senza parabole non parlava loro; ma in privato, ai suoi discepoli, spiegava ogni cosa.
Traduzione liturgica della Bibbia 
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 3 Capitolo 184 pagina 187. 
Il miracolo deve essere avvenuto da poco, perché gli apostoli ne parlano e anche dei cittadini commentano, additandosi il Maestro che se ne va, diritto e severo, verso la periferia della città, verso la parte dei poveri.
Si ferma ad una casuccia da cui esce saltellando un bambino seguito dalla madre. “Donna, mi lasci entrare nel tuo orto e sostare un poco finché il sole perda il suo calore?”.
“Entra, Signore. Anche in cucina se vuoi. Ti porterò acqua e ristoro”.
“Non ti affaticare. Mi basta rimanere in questo orto quieto”.
Ma la donna vuole offrire acqua temperata da non so che, e poi gironzola per l’orto come vogliosa di parlare e non osa. Si occupa delle sue verdure, ma è una finta. In realtà si occupa del Maestro e le dà noia il bambino che coi suoi strilli, quando acciuffa una farfalla o un altro insetto, le impedisce di sentire ciò che Gesù dice. Se ne inquieta e lascia andare uno schiaffetto al bambino, il quale… strilla più forte.
Gesù — che stava rispondendo allo Zelote, che gli aveva chiesto: “Credi che Maria ne sia scossa?”, con queste parole: “Più che non vi appaia…” — si volge e chiama a Sé il bambino, che accorre a finire il suo pianto sui ginocchi di Gesù.
La donna chiama: “Beniamino! Vieni qui. Non disturbare”.
Ma Gesù dice: “Lascialo, lascialo. Starà buono e ti lascerà quieta”; poi al bambino: “Non piangere. Non ti ha fatto male la mamma. Solo ti ha fatto ubbidire, anzi, ti voleva fare ubbidire. Perché strillavi mentre lei voleva silenzio? Forse si sente male e i tuoi gridi le danno noia”.
Il bambino, svelto svelto, con quella insuperabile schiettezza dei bambini che è la disperazione dei grandi, dice: “No. Non si sente male. Ma voleva sentire quello che Tu dicevi… Me lo ha detto. Ma io, che volevo venire da Te, facevo chiasso apposta perché Tu mi guardassi”.
Ridono tutti e la donna si fa di fiamma.
“Non arrossire, donna. Vieni qui. Mi volevi sentire parlare? Perché?”.
“Perché sei il Messia. Non puoi essere che Tu il Messia, col miracolo che hai fatto… E mi piaceva sentirti. Io non vado mai fuori di Magdala perché ho… un marito difficile e cinque bambini. Il più piccolo ha quattro mesi… e Tu qui non vieni mai”.
“Sono venuto, e nella tua casa. Lo vedi”.
“Per questo volevo sentirti”.
“Dove è tuo marito?”.
“Sul mare, Signore. Se non si pesca non si mangia. Io non ho che questo orticello. Può bastare a sette persone? Eppure Zaccheo vorrebbe che sì…”.
“Sii paziente, donna. Tutti hanno la loro croce”.
“Eh! no! Le spudorate non hanno che il godere. Hai visto l’opera delle spudorate! Godono e fanno soffrire. Loro non si spezzano le reni nel figliare e nel lavorare. Non si fanno venire le vesciche con la zappa o si spellano le mani con i bucati. Loro sono belle, fresche. Per loro non c’è la condanna di Eva. Sono la condanna nostra, anzi, perché… gli uomini… Tu mi capisci”.
“Ti capisco. Ma sappi che hanno anche loro la loro tremenda croce. La più tremenda. Quella che non si vede. Quella della coscienza che le rimprovera, del mondo che le schernisce, del loro sangue che le ripudia, di Dio che le maledice. Non sono felici, credi. Non si spezzano le reni nel generare e nel lavorare, non si fanno venire piaghe alle mani nel faticare. Ma si sentono spezzate lo stesso, e con vergogna. Ma il loro cuore è tutto una piaga. Non invidiare il loro aspetto, la loro freschezza, la loro apparente serenità. È un velo steso su una rovina che morde e non dà pace. Non invidiare il loro sonno, tu, madre onesta che sogni i tuoi innocenti… Esse hanno l’incubo sul loro guanciale. E domani, nel giorno che saranno all’agonia o alla vecchiaia, il rimorso e il terrore”.
“È vero… Perdona… Mi lasci stare qui?”.
“Rimani. Racconteremo una bella parabola a Beniamino, e quelli che non sono bambini l’applicheranno a loro stessi ed a Maria di Magdala. Udite.
In voi è il dubbio sulla conversione di Maria al bene. Nessun segno in lei dà un indice verso questo passo. Sfrontata e impudente ella, conscia del suo grado e del suo potere, ha osato sfidare la gente e venire persino sulla soglia della casa dove si piange per causa sua. Al rimprovero di Pietro risponde con una risata. Al mio sguardo che l’invita con l’irrigidirsi superba. Voi forse avreste voluto, chi per amore verso Lazzaro, chi per amore verso di Me, che Io le parlassi direttamente, a lungo, soggiogandola col mio potere, mostrando la mia forza di Messia Salvatore. No. Non occorre tanto. L’ho detto per un’altra peccatrice molti mesi or sono. Le anime devono farsi da sé. Io passo, getto il seme. Nel segreto il seme lavora. L’anima va rispettata in questo suo lavoro. Se il primo seme non attecchisce se ne semina un altro, un altro… ritirandosi solo quando si hanno prove sicure della inutilità del seminare. E si prega. La preghiera è come la rugiada sulle zolle: le tiene morbide e nutrite, e il seme può germogliare. Non fai così tu, donna, con le tue verdure?
Ora ascoltate la parabola del lavoro di Dio nei cuori per fondarvi il suo regno. Perché ogni cuore è un piccolo regno di Dio sulla Terra. Dopo, oltre la morte, tutti questi piccoli regni si agglomerano in uno solo, nello smisurato, santo, eterno Regno dei Cieli.
Il regno di Dio nei cuori è creato dal Seminatore divino. Egli viene al suo podere — l’uomo è di Dio, perciò ogni uomo è inizialmente suo — e vi sparge il suo seme. Poi se ne va ad altri poderi, ad altri cuori. Si succedono i giorni alle notti e le notti ai giorni. I giorni portano sole o piogge, in questo caso raggi d’amore divino e effusione della divina sapienza che parla allo spirito. Le notti portano stelle e silenzio riposante: nel nostro caso richiami luminosi di Dio e silenzio per lo spirito perché l’anima si raccolga e mediti.
Il seme, in questo succedersi di provvidenze inavvertibili e potenti, si gonfia, si fende, mette radici, si abbarbica, getta fuori le prime fogliette, cresce. Tutto questo senza che l’uomo lo aiuti. La terra produce spontaneamente l’erba dal seme, poi l’erba si fortifica e sorregge la spiga che sorge, poi la spiga si alza, si gonfia, si indurisce, si fa bionda, dura, perfetta nel suo granire. Quando è matura torna il seminatore e vi mette la falce, perché il tempo della perfezione è venuto per quel seme. Di più non potrebbe evolversi e per questo viene colto.
Nei cuori la mia parola fa lo stesso lavoro. Parlo dei cuori che accolgono il seme. Ma il lavoro è lento. Bisogna non sciupare tutto con l’intempestività. Come è faticoso al piccolo seme fendersi e conficcare le radici nella terra! Anche al duro e selvaggio cuore è penoso questo lavoro. Deve aprirsi, lasciarsi frugare, accogliere cose nuove, faticare a nutrirle, apparire diverso perché coperto di umili ed utili cose e non più dell’attraente, pomposo e inutile esuberante fiorire che lo copriva prima. Deve accontentarsi di lavorare con umiltà, senza attirare ammirazione, per l’utile dell’Idea divina. Deve spremere tutte le sue capacità per crescere e fare spiga. Si deve arroventare d’amore per divenire grano. E quando, dopo avere superato rispetti umani tanto, tanto, tanto penosi; dopo aver faticato, sofferto ed essersi affezionato alla sua nuova veste, ecco che se ne deve spogliare con un taglio crudele. Dare tutto per avere tutto. Rimanere spoglia per essere rivestito in Cielo della stola dei santi. La vita del peccatore che diventa santo è il più lungo, eroico, glorioso combattimento. Io ve lo dico.
Comprendete da quanto vi ho detto che è giusto che Io agisca verso Maria come agisco. Ho forse agito diverso con te, Matteo?”.
“No, mio Signore”.
“E, dimmi il vero, ti ha più persuaso la mia pazienza o le rampogne acerbe dei farisei?”.
“La tua pazienza, tanto che sono qui. I farisei, coi loro sprezzi e i loro anatemi, mi facevano sprezzante, e per sprezzo facevo ancor più male di quanto avevo fino allora fatto. Succede così. Ci si irrigidisce di più quando, essendo in peccato, ci si sente trattare da peccatori. Ma quando in luogo di un insulto ci viene una carezza, si resta sbalorditi; poi si piange… e quando si piange l’armatura del peccato si schiavarda e crolla. Si resta nudi davanti alla Bontà e la si supplica, col cuore, di investirci di Sé”.
“Hai detto bene. Beniamino, ti piace la storia? Sì? Bravo. E la mamma dove è?”.
Risponde Giacomo d’Alfeo: “È uscita al termine della parabola, andando di corsa per quella via”.
“Andrà al mare per vedere se viene lo sposo”, dice Tommaso.
“No. È andata dalla vecchia madre a prendere i fratellini. La mamma li porta là per potere lavorare”, dice il bambino appoggiato confidenzialmente ai ginocchi di Gesù.
“E tu stai qui, uomo? Devi essere un bell’aspide se ti tiene solo!”, osserva Bartolomeo.
“Io sono il più grande, e l’aiuto…”.
“A guadagnarsi il Paradiso, povera donna! Quanti anni hai?”, chiede Pietro.
“Fra tre anni sono figlio della Legge”, dice con superbia il monello.
“Sai leggere?”, domanda il Taddeo.
“Sì… ma vado adagio perché… perché il maestro mi mette fuori quasi tutti i giorni…”.
“L’ho detto io!”, dice Bartolomeo.
“Ma faccio così perché il maestro è vecchio e brutto e dice sempre le stesse cose che fanno dormire! Fosse come Lui (e accenna a Gesù) starei attento. Picchi, Tu, chi dorme o giuoca?”.
“Io non picchio nessuno. Ma dico ai miei scolari: “State attenti per vostro bene e per amore mio””, risponde Gesù.
“Ecco, così sì! Per amore sì. Non per paura”.
“Ma se tu diventi buono, il maestro ti vuole bene”.
“Tu vuoi bene solo a chi è buono? Poco fa hai detto che sei stato paziente con questo qui, che non era buono…”. La logica infantile è stringente.
“Io sono buono con tutti. Ma chi diventa buono è amato molto, molto da Me, e con quello sono tanto, tanto buono”.
Il bambino pensa… poi alza la testa e chiede a Matteo: “Tu come hai fatto a diventare buono?”.
“Gli ho voluto bene”.
Il bambino pensa ancora, e poi guarda i dodici e dice a Gesù: “Sono tutti buoni questi?”.
“Certamente che lo sono”.
“Ne sei sicuro? Delle volte io faccio il buono, ma è quando voglio fare un… malestro più grosso”.
La risata di tutti è fragorosa. Ride anche l’ometto in via di confessarsi. Ride anche Gesù, che se lo stringe al cuore e lo bacia.
Il bambino, ormai molto amico di tutti, vuole giocare e dice: “Ora ti dico io chi è buono”, e inizia la sua scelta. Guarda tutti e va dritto da Giovanni e Andrea, che sono vicini, e dice: “Tu e tu. Venite qui”. Poi sceglie i due Giacomi e li unisce ai due. Poi prende il Taddeo. Resta molto in pensiero davanti allo Zelote e a Bartolomeo e dice: “Siete vecchi, ma siete buoni”, e li unisce agli altri. Considera Pietro, che subisce l’esame facendo degli occhiacci per burla, e lo trova buono. Matteo anche lui passa e così Filippo. A Tommaso dice: “Tu ridi troppo. Io faccio sul serio. Non sai che il mio maestro dice che chi ride sempre sbaglia poi alla prova?”. Ma insomma anche Tommaso passa, con pochi voti, ma passa l’esame. Poi il bambino torna da Gesù.
“Ehi, monello! Ci sono anche io! Non sono una pianta. Sono giovane e bello. Perché non mi esamini?”, dice l’Iscariota.
“Perché non mi piaci. La mamma dice che quando una cosa non piace non la si tocca. Si lascia sulla tavola, che la prendano gli altri ai quali può piacere. E dice che, se uno offre una cosa che non piace, non si dice: “Non mi piace”. Ma si dice: “Grazie, non ho fame”. Io non ho fame di te”.
“Ma come? Guarda, se mi dici che sono buono ti do questa moneta”.
“Che me ne faccio? Cosa compero con una bugia? La mamma dice che i denari frutti di inganno diventano paglia. Una volta dalla madre vecchia mi sono fatto dare con una bugia un didramma per comperarmi le focacce col miele, e nella notte mi è diventato paglia. Lo avevo messo in quel buco lì, sotto la porta, per prenderlo al mattino, e ci ho trovato un mannello di paglia”.
“Ma perché non mi vedi buono? Che ho? Il piede fesso? Sono brutto?”.
“No. Ma mi fai paura”.
“Ma perché?”, chiede l’Iscariota avvicinandosi.
“Non so. Lasciami stare. Non mi toccare o ti graffio”.
“Che istrice! È folle”. Giuda ride male.
“Non folle. Tu sei cattivo”, e il bambino si rifugia in grembo a Gesù, che lo carezza senza parlare.
Gli apostoli scherzano sull’accaduto, poco lusinghiero per l’Iscariota.
Intanto ecco che torna la donna con una dozzina di persone e poi, ancora, ecco altre e altre. Saranno cinquanta circa. Tutta povera gente.
“Parleresti loro? Almeno un pochino. Questa è la madre di mio marito, questi i miei figli. E quell’uomo là è mio marito. Una parola, Signore”, supplica la donna.
“Per dirti grazie dell’ospitalità. Sì. La dico”.
La donna entra in casa dove la reclama il poppante e si siede sulla soglia dando il seno da succhiare.
“Udite. Qui sulle mie ginocchia ho un bambino che ha parlato molto saggiamente. Ha detto: “Tutte le cose ottenute con inganno divengono paglia”. La sua mamma gli ha insegnato questa verità. Non è favola. È verità eterna. Non riesce mai bene quanto si fa senza onestà. Perché la menzogna nelle parole, negli atti, nella religione, è sempre segno della alleanza con Satana, maestro di menzogna.
Non vogliate credere che le opere atte a conseguire il Regno dei Cieli siano opere fragorosamente vistose. Sono atti continui, comuni, ma fatti con un fine soprannaturale d’amore. L’amore è il seme della pianta che nascendo in voi cresce fino al Cielo, e alla cui ombra nascono tutte le altre virtù. Lo paragonerò ad un minuscolo granello di senape. Come è piccino! Uno dei più piccoli fra i semi che l’uomo sparge. Eppure guardate, quando è compita la pianta, quanto si fa forte e fronzuta e quanto frutto dà. Non il cento per cento, ma il cento per uno. Il più piccolo. Ma il più solerte nel lavorare. Quanto utile vi dona.
Così l’amore. Se voi chiuderete nel vostro seno un semino d’amore per il nostro santissimo Iddio e per il vostro prossimo e sulla guida dell’amore farete le vostre azioni, non mancherete a nessun precetto del Decalogo. Non mentirete a Dio con una falsa religione, di pratiche e non di spirito. Non mentirete al prossimo con una condotta di figli ingrati, di sposi adulteri o anche solo troppo esigenti, di ladri nei commerci, di mentitori nella vita, di violenti verso chi vi è nemico. Guardate in quest’ora calda quanti uccellini si rifugiano fra le ramaglie di quest’orto. Fra poco quel solco di senape, per ora ancora piccina, sarà un vero passeraio. Tutti gli uccelli verranno al sicuro e all’ombra di quelle piante così folte e comode, ed i piccoli degli uccelli impareranno a fare sicura l’ala proprio fra quel rameggiare che fa scala e rete per salire e per non cadere. Così l’amore, base del Regno di Dio.
Amate e sarete amati. Amate e vi compatirete. Amate e non sarete crudeli volendo più di quanto non sia lecito da chi vi è sottoposto. Amore e sincerità per ottenere la pace e la gloria dei Cieli. Altrimenti, come ha detto Beniamino, ogni vostra azione, fatta mentendo all’amore e alla verità, vi si muterà in paglia per il vostro letto infernale.
Io non vi dico altre cose. Vi dico solo: abbiate presente il grande precetto dell’amore e siate fedeli a Dio Verità ed alla verità in ogni parola, atto e sentimento, perché la verità è figlia di Dio. Una continua opera di perfezionamento di voi, così come il seme continuamente cresce fino alla sua perfezione. Un’opera silenziosa, umile, paziente. Siate certi che Dio vede le vostre lotte e vi premia più di un egoismo vinto, di una parola villana trattenuta, di un’esigenza non imposta, che non se, armati in battaglia, uccideste il nemico. Il Regno dei Cieli, di cui sarete possessori se vivrete da giusti, è costruito con le piccole cose di ogni giorno. Con la bontà, la morigeratezza, la pazienza, col contentarsi di ciò che si ha, con il compatimento reciproco, con l’amore, l’amore, l’amore.
Siate buoni. Vivete in pace gli uni con gli altri. Non mormorate. Non giudicate. Dio sarà allora con voi. Vi do la mia pace come benedizione e ringraziamento della fede che avete in Me”.
Poi Gesù si volge alla donna dicendo: “Dio benedica te in particolare, perché sei una santa moglie e una santa madre. Persevera nella virtù. Addio, Beniamino. Sii sempre più amante della verità e ubbidisci a tua madre. La benedizione a te e ai tuoi fratellini, e a te, madre”.
Un uomo si fa avanti. È confuso e balbetta: “Ma, ma… io sono commosso di quanto dici di mia moglie… Non sapevo…”.
“Non hai occhi e intelletto forse?”.
“Li ho”.
“Perché non li usi? Vuoi che te li snebbi?”.
“Lo hai già fatto, Signore. Ma le voglio bene, sai? È che… ci si abitua… e… e…”.
“E ci si crede lecito pretendere troppo perché l’altro è più buono di noi… Non lo fare più. Sei sempre in pericolo col tuo mestiere. Non temere delle burrasche se Dio è con te. Ma se con te è l’Ingiustizia, temi fortemente. Hai capito?”.
“Più che Tu non dica. Ma cercherò di ubbidirti… Non sapevo… Non sapevo…”, e guarda la moglie come la vedesse per la prima volta.
Gesù benedice ed esce sulla stradetta. Riprende il cammino verso la campagna.
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com

Domenica 7 Giugno 2015, Santissimo Corpo e Sangue di Cristo, solennità

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Marco 3,20-35.
In quel tempo, Gesù entrò in una casa e si radunò di nuovo attorno a lui molta folla, al punto che non potevano neppure prendere cibo.
Allora i suoi, sentito questo, uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: «E' fuori di sé».
Ma gli scribi, che erano discesi da Gerusalemme, dicevano: «Costui è posseduto da Beelzebùl e scaccia i demòni per mezzo del principe dei demòni».
Ma egli, chiamatili, diceva loro in parabole: «Come può satana scacciare satana?
Se un regno è diviso in se stesso, quel regno non può reggersi;
se una casa è divisa in se stessa, quella casa non può reggersi.
Alla stessa maniera, se satana si ribella contro se stesso ed è diviso, non può resistere, ma sta per finire.
Nessuno può entrare nella casa di un uomo forte e rapire le sue cose se prima non avrà legato l'uomo forte; allora ne saccheggerà la casa.
In verità vi dico: tutti i peccati saranno perdonati ai figli degli uomini e anche tutte le bestemmie che diranno;
ma chi avrà bestemmiato contro lo Spirito santo, non avrà perdono in eterno: sarà reo di colpa eterna».
Poiché dicevano: «E' posseduto da uno spirito immondo».
Giunsero sua madre e i suoi fratelli e, stando fuori, lo mandarono a chiamare.
Tutto attorno era seduta la folla e gli dissero: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano».
Ma egli rispose loro: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?».
Girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, disse: «Ecco mia madre e i miei fratelli!
Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 10 Capitolo 602 pagina 21.
1La stessa scena della passata visione. Gesù si accomiata dalla vedova, tenendo però già per mano il piccolo Giuseppe, e dice alla donna: «Non verrà nessuno prima del mio ritorno, a meno che non sia un gentile. Ma chiunque venga trattienilo fino a dopo domani dicendo che verrò senza fallo».
«Lo dirò, Maestro. E se vi saranno malati li ospiterò come Tu mi hai insegnato».
«Addio, allora, e la pace sia con voi. Vieni, Mannaen».
Da questo breve spunto comprendo che malati e infelici in genere lo hanno raggiunto a Corozim e che all’evangelizzazione del lavoro Gesù ha unito quella del miracolo. E se Corozim resta sempre indifferente è proprio segno che è terreno selvaggio e incoltivabile. Pure Gesù la traversa, salutando quelli che lo salutano, come nulla fosse, e poi riprendendo a parlare con Mannaen, che è incerto se ripartire per Macheronte o rimanere ancora una settimana…

2…Nella casa di Cafarnao intanto si preparano al sabato. Matteo, un poco zoppicante, riceve i compagni, li soccorre di acqua e di frutta fresche, chiedendo delle loro missioni.
Pietro arriccia il naso vedendo che già dei farisei bighellonano presso la casa: «Hanno voglia di avvelenarci il sabato. Quasi direi di andare incontro al Maestro e dirgli di andare a Betsaida lasciando costoro delusi».
«E credi che il Maestro, lo farebbe?» chiede suo fratello.
«E poi c’è nella stanza bassa quel povero infelice che aspetta» osserva Matteo.
«Si potrebbe portarlo con la barca a Betsaida, e io, o qualche altro, andare incontro al Maestro» dice Pietro.
«Quasi quasi…» dice Filippo che, avendo famiglia a Betsaida, ci andrebbe volentieri.
«Molto più che, vedete, vedete! Oggi la guardia è rinforzata con degli scribi. Andiamo senza perdere tempo. Voi, col malato, passate dall’orto, e via per il dietro della casa. Io porto la barca al “pozzo del fico” e Giacomo fa la stessa cosa. Simone Zelote e i fratelli di Gesù vanno incontro al Maestro».
«Io non vado via con l’indemoniato» proclama l’Iscariota.
«Perché? Hai paura che ti si attacchi il demonio?».
«Non m inquietare, Simone di Giona. Ho detto che io non vado e non vado».
«Va’ coi cugini incontro a Gesù».
«No».
«Auf! Vieni in barca!».
«No».
«Ma insomma che vuoi? Sei sempre quello degli ostacoli…».
«Voglio rimanere dove sono: qui. Non ho paura di nessuno e non scappo. E del resto il Maestro non vi sarebbe grato della trovata. E sarebbe un’altra predica di rimprovero, e io non voglio averla per colpa vostra. Voi andate. Io resterò a riferire…».
«No proprio! O tutti o nessuno!» urla Pietro.
«Allora nessuno, perché il Maestro è qui. Eccolo che si avanza» dice serio lo Zelote che guardava sulla via.
Pietro, malcontento, borbotta fra la barba. Ma va incontro a Gesù con gli altri.

3Dopo i primi saluti gli dicono di un indemoniato, cieco e muto, che attende coi parenti la sua venuta da molte ore.
Matteo spiega: «È come inerte. Si è gettato su dei sacchi vuoti e non si è più mosso. I parenti sperano in Te. Vieni a ristorarti e poi lo soccorrerai».
«No. Vado subito da lui. Dove è?».
«Nella stanza bassa presso al forno. L’ho messo lì con i parenti perché ci sono molti farisei, a anche scribi, che sembrano in agguato…».
«Sì, e sarebbe meglio non farli contenti» brontola Pietro.
«Giuda di Simone non c’è?» chiede Gesù.
«È rimasto in casa. Lui deve fare ciò che gli altri non fanno» brontola ancora Pietro.
Gesù lo guarda ma non lo rimprovera. Si affretta alla casa affidando il bambino proprio a Pietro, che se lo carezza tirando subito fuori dall’alta cintura un fischietto dicendo: «Uno a te e uno a mio figlio. Domani sera ti ci porto a vederlo. Me li sono fatti fare da un pastore al quale ho parlato di Gesù».
Gesù entra in casa, saluta Giuda che sembra tutto occupato ad ordinare le stoviglie, e poi tira dritto fino ad una specie di dispensa bassa e scura che è addossata al forno.
«Fate uscire il malato» ordina Gesù.
Un fariseo che non è di Cafarnao, ma che ha una mùtria peggiore ancora a quelle dei farisei locali, dice: «Non è un malato. È un indemoniato».
«È sempre una malattia dello spirito…».
«Ma lui ha legati gli occhi e la favella…».
«È sempre una malattia dello spirito, che estende alle membra e agli organi, la possessione. Se mi avessi lasciato terminare avresti saputo che volevo dire questo. Anche la febbre è nel sangue quando si è malati, ma dal sangue attacca poi questa o quella parte del corpo».
Il fariseo non sa che ribattere e tace.

4L’indemoniato è stato condotto di fronte a Gesù. Inerte. Ha detto bene Matteo. Molto impedito dal demonio.
La gente intanto si affolla. È incredibile come, specie nelle ore, dirò così, di svago, facesse presto un tempo ad accorrere gente dove c’era da vedere qualche cosa. Vi sono ora i notabili di Cafarnao, fra i quali i quattro farisei, vi è Giairo, e in un angolo, con la scusa di sorvegliare l’ordine, vi è il centurione romano, e con lui cittadini di altre città.
«In nome di Dio, lascia le pupille e la lingua di costui! Lo voglio! Libera di te questa creatura! Non ti è più lecito tenerla. Via!» grida Gesù tendendo le mani nel comando.
Il miracolo si inizia con un urlo di rabbia del demonio e finisce con un urlo di gioia del liberato che grida: «Figlio di Davide! Figlio di Davide! Santo e Re!».

5«Come fa costui a sapere chi è colui che lo ha guarito?» chiede uno scriba.
«Ma è tutta una commedia! Questa gente è pagata per fare ciò!» dice alzando le spalle un fariseo.
«Ma da chi, se è lecito chiedervelo?» interroga Giairo.
«Anche da te».
«E a che scopo?».
«Per rendere celebre Cafarnao».
«Non umiliare la tua intelligenza dicendo stoltezze e la tua lingua sporcandola di menzogne. Tu sai che ciò non è vero, e dovresti capire che dici una stoltezza. Ciò che qui avviene è avvenuto in molte parti d’Israele. Allora dovunque vi sarà chi paga? In verità io non sapevo che in Israele la plebe fosse molto ricca! Perché voi, e con voi i grandi tutti, non pagate certo per questo. Allora paga la plebe, che è l’unica che ami il Maestro».
«Tu sei sinagogo e lo ami. Là è Mannaen. E a Betania è Lazzaro di Teofilo. Questi non sono plebe».
«Ma sono essi, e sono io, onesti. E non truffiamo nessuno, in niente. E tanto meno nelle cose di fede. Non ce lo permettiamo noi, temendo Dio e avendo capito ciò che a Dio piace: l’onestà».
I farisei voltano le spalle a Giairo e attaccano i parenti del guarito: «Chi vi ha detto di venire qui?».
«Chi? Molti. Già guariti o parenti di guariti».
«Ma che vi hanno dato?».
«Dato? Le assicurazioni che Egli ce lo avrebbe guarito».
«Ma era proprio malato?».
«Oh! Menti subdole! Credete che sia finto tutto ciò? Andate a Gadara e chiedete, se non credete, della sventura della famiglia di Anna di Ismaele».
La gente di Cafarnao, sdegnata, tumultua, mentre dei galilei, venuti da presso Nazaret, dicono: «Eppure costui è figlio di Giuseppe legnaiuolo!».
I cittadini di Cafarnao, fedeli a Gesù, urlano: «No. È quello che Lui dice e che il guarito ha detto: “Figlio di Dio e figlio di Davide”».
«Ma non aumentate l’esaltazione del popolo con le vostre asserzioni!» dice sprezzante uno scriba.
«E che è allora, secondo voi?».
«Un Belzebù!».
«Uh! Lingue di vipere! Bestemmiatori! Posseduti voi! Ciechi di cuore! Rovina nostra. Anche la gioia del Messia vorreste levarci, eh!? Strozzini! Selci aride!» Un bel baccano!
Gesù, che si era ritirato in cucina per bere un poco d’acqua, si affaccia sulla soglia in tempo per sentire una volta ancora la trita e ritrita e stolta accusa farisaica: «Costui non è che un Belzebù, perché i demoni lo ubbidiscono. Il grande Belzebù suo padre lo aiuta, ed Egli caccia i demoni non con altro che con l’opera di Belzebù principe dei demoni».

6Gesù scende i due piccoli scalini della soglia e viene avanti, diritto, severo e calmo, fermandosi proprio di fronte al gruppo scribo-farisaico, e fissatili acutamente dice loro:
«Anche sulla terra noi vediamo che un regno diviso in partiti contrari fra di loro diviene debole all’interno e facile ad essere aggredito e devastato dagli stati vicini che lo rendono suo schiavo. Anche sulla terra vediamo che una città divisa in parti contrarie non ha più benessere, e così lo è di una famiglia i cui componenti siano divisi dall’astio fra di loro. Essa si sgretola, diviene un inutile sbocconcellamento che non serve a nessuno e che fa ridere i concittadini. La concordia, oltre che dovere, è furbizia. Perché mantiene indipendenti, forti e amorosi. Questo dovrebbero riflettere i patriotti, i cittadini, i familiari, quando per l’uzzolo di un utile singolo vengono tentati a separazioni e a sopraffazioni che sono sempre pericolose, essendo alterne nei partiti, essendo distruttrici negli affetti. E questa furbizia infatti esercitano coloro che sono i padroni del mondo. Osservate Roma nella sua innegabile potenza, a noi tanto penosa. Domina il mondo. Ma è unita in un unico parere, in una sola volontà: “dominare”. Anche fra di loro ci saranno certo contrasti, antipatie, ribellioni. Ma questo sta nel fondo. Alla superficie è un blocco solo, senza incrinature, senza turbamenti. Vogliono tutti la stessa cosa e riescono perché vogliono. E riusciranno finché vorranno la stessa cosa.
Guardate questo esempio umano di furbizia coesiva e pensate: se questi figli del secolo sono così, cosa non sarà Satana? Essi sono per noi dei satana. Ma la loro satanicità pagana è nulla rispetto alla satanicità perfetta di Satana e dei suoi demoni. Là, in quel regno eterno, senza secolo, senza fine, senza limite di astuzia e di cattiveria, là dove si gode di nuocere a Dio e agli uomini - ed è loro respiro il nuocere, loro doloroso godimento, unico, atroce - con perfezione maledetta, si è raggiunta la fusione degli spiriti, uniti in un solo volere: “nuocere”. Ora se, come voi volete sostenere per insinuare dubbi sul mio potere, Satana è colui che mi aiuta perché Io sono un Belzebù minore, non avviene che Satana è in discordia con se stesso e coi suoi demoni, se caccia questi dai suoi possessi? E se in discordia è, potrà mai durare il suo regno? No, che ciò non è. Satana è furbissimo e non si nuoce. Egli mira ad estendere non a ridurre il suo regno nei cuori. La sua vita è “rubare – nuocere – mentire – offendere – turbare”. Rubare anime a Dio e pace agli uomini. Nuocere alle creature del Padre dando dolore allo stesso. Mentire per traviare. Offendere per godere. Turbare perché egli è il Disordine. E non può mutare. È eterno nel suo essere e nei suoi metodi.

7Ma rispondete a questa domanda: se Io caccio i demoni in nome di Belzebù, in nome di chi li cacciano i vostri figli? Vorrete confessare allora che essi pure sono Belzebù? Ora, se voi lo dite, essi vi giudicheranno calunniatori. E se la loro santità sarà tale da non reagire all’accusa, vi giudicherete da voi stessi confessando che credete di avere molti demoni in Israele, e vi giudicherà Iddio in nome dei figli d’Israele accusati di essere demoni. Perciò, da qual che venga il giudizio, essi in fondo saranno i vostri giudici, là dove il giudizio non è subornato da pressioni umane.
Se poi, come è verità, Io caccio i demoni per lo Spirito di Dio, è dunque prova che è giunto a voi il Regno di Dio e il Re di questo Regno. Il quale Re ha un potere tale che nessuna forza contraria al suo Regno può resistere. Onde Io lego e costringo gli usurpatori dei figli del mio Regno ad uscire dai luoghi occupati ed a restituirmi la preda perché Io ne prenda possesso. Non fa forse così uno che voglia entrare in una casa abitata da un forte per levargli i beni, bene o male acquistati? Così fa. Entra, e lo lega. E dopo averlo fatto può spogliare la casa. Io lego l’angelo tenebroso che si è preso ciò che è mio, e gli levo il bene che mi ha rubato. E Io solo posso farlo, perché Io solo sono il Forte, il Padre del secolo futuro, il Principe della pace».

8«Spiegaci cosa vuoi dire dicendo: “Padre del secolo futuro”. Credi Tu di vivere fino al nuovo secolo e, più stoltamente ancora, pensi di creare il tempo, Tu, povero uomo? Il tempo è di Dio» chiede uno scriba.
«E tu, scriba, me lo chiedi? Non sai dunque che vi sarà un secolo che avrà inizio ma fine non avrà, e che sarà il mio? In esso Io trionferò radunando intorno a Me coloro che sono figli di esso, ed essi vivranno eterni come quel secolo che Io avrò creato, e già lo sto creando mettendo lo spirito in valore, sulla carne e sul mondo e sugli inferi che Io scaccio perché tutto Io posso. Per questo vi dico che chi non è con Me è contro di Me, e chi con Me non raccoglie disperde. Perché Io sono Colui che sono. E chi non crede questo, già profetizzato, pecca contro lo Spirito Santo, la cui parola fu detta dai Profeti e non è menzogna né errore, e va creduta senza resistenza.
Perché Io ve lo dico: tutto sarà perdonato agli uomini, ogni loro peccato e bestemmia. Perché Dio sa che l’uomo non è solo spirito ma è carne, e carne tentata che soggiace ad improvvise debolezze. Ma la bestemmia contro lo Spirito Santo non sarà perdonata. Chi avrà parlato contro il Figlio dell’uomo sarà ancora perdonato, perché la pesantezza della carne, che avvolge la mia Persona e avvolge l’uomo che contro Me parla, può ancora trarre in errore. Ma chi avrà parlato contro lo Spirito Santo non sarà perdonato né in questa né nella vita futura, perché la Verità è quella che è: netta, santa, innegabile, ed espressa allo spirito e in maniera che non induce ad errore. Altro che in coloro che volutamente vogliono l’errore. Negare la Verità detta dallo Spirito Santo è negare la Parola di Dio e l’Amore che quella parola ha dato per amore degli uomini. E il peccato contro l’Amore non è perdonato.

9Ma ognuno dà i frutti della sua pianta. Voi date i vostri, e frutti buoni non sono. Se voi date un albero buono perché sia messo nel verziere, esso darà buoni frutti; ma se date un albero cattivo, cattivo sarà il frutto che da esso sarà colto, e tutti diranno: “Questo albero non è buono”. Perché è dal frutto che si conosce l’albero. E voi credete di poter parlare bene, voi che siete cattivi? Perché la bocca parla di ciò che gli riempie il cuore. È dalla sovrabbondanza di ciò che abbiamo in noi che noi traiamo i nostri atti e i nostri discorsi. L’uomo buono trae dal suo buon tesoro cose buone; il malvagio dal suo cattivo tesoro leva le male cose. E parla e agisce secondo il suo intimo.
E in verità vi dico che l’ozio è colpa. Ma meglio è oziare che fare opere malvagie. E anche vi dico che è meglio tacere che parlare oziosamente e malvagiamente. Anche se il tacere è ozio, fatelo piuttosto che peccare con la lingua. Io vi assicuro che di ogni parola detta oziosamente agli uomini sarà chiesta la giustificazione nel giorno del Giudizio, e che per le parole dette saranno gli uomini giustificati, e dalle parole stesse saranno condannati. Attenti, perciò, voi che tante ne dite di più che oziose, perché sono non solo oziose ma operanti nel male e allo scopo di allontanare i cuori dalla Verità che vi parla».

10I farisei si consultano con gli scribi e poi tutti insieme, fingendo cortesia, chiedono: «Maestro, si crede meglio a quello che si vede. Dàcci dunque un segno perché noi si possa credere che Tu sei ciò che dici d’essere».
«Vedete che in voi è il peccato contro lo Spirito Santo, che per il Verbo incarnato mi ha indicato più volte? Verbo e Salvatore, venuto nel tempo segnato, preceduto e seguito dai segni profetizzati, operante ciò che lo Spirito dice».
Essi rispondono: «Allo Spirito crediamo, ma come possiamo credere a Te se non vediamo un segno coi nostri occhi?».
«Come potete credere allo Spirito le cui azioni sono spirituali, se non credete alle mie che sono sensibili ai vostri occhi? La mia vita ne è piena. Non basta ancora? No. Io stesso rispondo che no. Non basta ancora. A questa generazione adultera e malvagia, che cerca un segno, sarà dato un segno soltanto: quello del profeta Giona. Infatti, come Giona stette per tre giorni nel ventre della balena, così il Figlio dell’uomo starà tre giorni nelle viscere della terra. In verità vi dico che i Niniviti risorgeranno nel giorno del Giudizio come tutti gli uomini e insorgeranno contro questa generazione e la condanneranno. Perché essi fecero penitenza alla predicazione di Giona e voi no. E qui vi è Uno che è da più di Giona. E così risorgerà e insorgerà contro di voi la Regina del Mezzogiorno e vi condannerà, perché essa venne dagli ultimi confini della terra per udire la sapienza di Salomone. E vi è qui Uno da più di Salomone».

11«Perché dici che questa generazione è adultera e malvagia? Non lo sarà da più delle altre. In essa vi sono gli stessi santi che vi erano nelle altre. La compagine di Israele non è mutata. Tu ci offendi».
«Voi vi offendete da voi stessi nuocendovi nelle vostre anime, perché le allontanate dalla Verità, e dalla Salvezza perciò. Ma Io vi rispondo lo stesso. Questa generazione non è santa che nelle vesti e nell’esterno. Dentro, santa non è. Vi sono in Israele gli stessi nomi per significare le stesse cose. Ma non c’è la realtà delle cose. Vi sono gli stessi usi, vesti, riti. Ma manca lo spirito di essi. Siete adulteri perché avete respinto il soprannaturale maritaggio con la Legge divina e avete sposato, in seconda adultera unione, la legge di Satana. Non siete circoncisi che in un membro caduco. Il cuore non è più circonciso. E malvagi siete perché vi siete venduti al Maligno. Ho detto».
«Tu troppo ci offendi. Ma perché, se così è, Tu non liberi Israele dal demonio acciò diventi santo?».
«Ha Israele questa volontà? No. L’hanno quei poveri che vengono per essere liberati dal demonio perché lo sentono in loro come un peso e una vergogna. Voi questo non lo sentite. E inutilmente voi ne sareste liberati, perché non avendo volontà di esserlo, subito sareste ripresi ed in maniera ancora più forte. Perché quando uno spirito immondo è uscito da un uomo, vagola per luoghi aridi in cerca di una riposo e non lo trova. Luoghi aridi non materialmente, notate. Aridi perché gli sono ostili non accogliendolo, così come la terra arida è ostile al seme. Allora dice: “Tornerò alla casa mia da dove sono stato cacciato a forza e contro la sua volontà. E certo sono che mi accoglierà e mi darà riposo”. Infatti torna a colui che era suo, e molte volte lo trova disposto ad accoglierlo, perché in verità ve lo dico che l’uomo ha più nostalgia di Satana che di Dio, e se Satana non gli opprime le membra per nessun’altra possessione si lamenta. Va dunque e trova la casa vuota, spazzata, adorna, odorosa di purezza. Allora va a prendere altri sette demoni perché non vuole più perderla, e con questi sette spiriti peggiori di lui, entra in essa e vi si stabiliscono tutti. E questo secondo stato, di uno convertito una volta e che si pervertisce una seconda, è peggiore del primo. Perché il demonio ha la misura di quanto quell’uomo sia amante di Satana e ingrato a Dio, ed anche perché Dio non ritorna là dove si calpestano le sue grazie e, già esperti di una possessione, si riaprono le braccia ad una maggiore. La ricaduta nel satanismo è peggio di una ricaduta in etisia mortale già sanata una volta. Non è più passibile di miglioramento e guarigione. Così accadrà anche di questa generazione che, convertita dal Battista, ha rivoluto essere peccatrice perché è amante del Malvagio e non di Me».

12Un brusio, che non è né di approvazione né di protesta, scorre per la folla, che si pigia ormai tanto numerosa che anche la via ne è stipata, oltre l’orto e la terrazza. Vi è gente a cavalcioni del muretto, arrampicata sul fico dell’orto e sulle piante degli orti vicini, perché tutti vogliono sentire la disputa fra Gesù e i suoi nemici. Il brusio, come un’onda che dal largo giunge al lido, arriva di bocca in bocca fino agli apostoli che più sono vicino a Gesù, ossia Pietro, Giovanni, lo Zelote e i figli di Alfeo. Perché gli altri sono parte sulla terrazza e parte nella cucina. Meno Giuda Iscariota che è sulla via, fra la folla.
E Pietro, Giovanni, lo Zelote, i figli d’Alfeo lo raccolgono questo brusio e dicono a Gesù: «Maestro, c’è tua Madre e i tuoi fratelli. Sono là fuori, sulla via, e ti cercano perché ti vogliono parlare. Da’ ordine che la folla si allontani perché essi possano venire a Te, perché certo un gran motivo li ha portati fin qui a cercarti».
Gesù alza il capo e vede in fondo alla gente il viso angosciato di sua Madre che lotta per non piangere, mentre Giuseppe di Alfeo le parla concitatamente, e vede i segni di diniego di Lei, ripetuti, energici, nonostante l’insistenza di Giuseppe. Vede anche il viso imbarazzato di Simone, palesemente addolorato, disgustato… Ma non sorride e non ordina nulla. Lascia l’Afflitta nel suo dolore e i cugini là dove sono.
Abbassa gli occhi sulla folla e, rispondendo agli apostoli vicini, risponde anche a quelli lontani che tentano di far valere il sangue più del dovere. «Chi è mia Madre? Chi sono i miei fratelli?». Gira l’occhio, severo nel volto che impallidisce per questa violenza che si deve fare, per mettere il dovere al disopra dell’affetto e del sangue e per fare questa sconfessione del suo legame alla Madre per servire il Padre, e dice, accennando con un largo gesto la folla che si pigia intorno a Lui al lume rosso delle torce e alla luce argentea della luna quasi piena: «Ecco mia madre ed ecco i miei fratelli. Coloro che fanno la volontà di Dio sono i miei fratelli e sorelle, sono mia madre. Non ne ho altri. E i miei saranno tali se, per primi e con maggior perfezione di ogni altro, faranno la volontà di Dio fino al sacrificio totale di ogni altra volontà o voce di sangue e di affetto».
La folla ha un mormorio più forte, come se fosse un mare sconvolto da un subito vento.
Gli scribi iniziano la fuga dicendo: «È un demonio! Rinnega persino il suo sangue!».
I parenti avanzano dicendo: «È un folle! Tortura persino sua Madre!».
Gli apostoli dicono: «In verità che in questa parola c’è tutto l’eroismo!».
La folla dice: «Come ci ama!».

13A fatica Maria con Giuseppe e Simone fendono la folla. Lei tutta dolcezza, Giuseppe tutto furia, Simone tutto imbarazzo. Giungono presso Gesù.
E Giuseppe lo investe subito: «Sei folle! Offendi tutti. Non rispetti neppure tua Madre. Ma ora sono qui io e te lo impedirò. È vero che vai come lavorante qua e là? E allora, se vero è, perché non lavori nella tua bottega, sfamando tua Madre? Perché menti dicendo che il tuo lavoro è la predicazione, ozioso e ingrato che sei, se poi vai al lavoro prezzolato in casa estranea? Veramente mi sembri preso da un demonio che ti travia. Rispondi!».
Gesù si volta e prende per mano il bambino Giuseppe, se lo tira vicino e poi lo alza tenendolo per le ascelle e dice: «Il mio lavoro fu sfamare questo innocente e i suoi parenti e persuaderli che Dio è buono. È stato predicare a Corozim l’umiltà e la carità. E non a Corozim soltanto. Ma anche a te Giuseppe, fratello ingiusto. Ma Io ti perdono perché ti so morso da denti di serpe. E perdono anche a te, Simone incostante. Non ho nulla da perdonare né da farmi perdonare da mia Madre, perché Ella giudica con giustizia. Il mondo faccia ciò che vuole. Io faccio ciò che Dio vuole. E con la benedizione del Padre e della Madre mia sono felice più che se tutto il mondo mi acclamasse re secondo il mondo. Vieni, Madre. Non piangere. Essi non sanno ciò che fanno. Perdonali».
«Oh Figlio mio! Io so. Tu sai. Non c’è altro da dire...».
«Non c’è altro da dire fuorché alla gente, questo: “Andate in pace”».
E Gesù benedice la folla e poi, tenendo con la destra Maria, con la sinistra il bambino, si avvia alla scaletta e la sale per il primo.
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com