"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’,
ma leggetela e fatela leggere"

Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
Evangelo come mi è stato rivelato
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Domenica 27 gennaio 2019, III Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 1,1-4.4,14-21.
Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi,
come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola,
così ho deciso anch'io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teòfilo,
perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto.
Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo e la sua fama si diffuse in tutta la regione.
Insegnava nelle loro sinagoghe e tutti ne facevano grandi lodi.
Si recò a Nazaret, dove era stato allevato; ed entrò, secondo il suo solito, di sabato nella sinagoga e si alzò a leggere.
Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia; apertolo trovò il passo dove era scritto:
Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l'unzione, e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi,
e predicare un anno di grazia del Signore.
Poi arrotolò il volume, lo consegnò all'inserviente e sedette. Gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui.
Allora cominciò a dire: «Oggi si è adempiuta questa Scrittura che voi avete udita con i vostri orecchi».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 1 Capitolo 18 pagina 109 - CD 1, traccia 18
Mi appare la casetta di Nazareth, e Maria è in essa. Maria giovinetta come quando l’Angelo di Dio le apparve. Il solo vedere mi fa l’anima piena del profumo verginale di quella dimora. Del profumo angelico che ancora permane nell’ambiente dove l’Angelo ha ventilato le sue ali d’oro. Del profumo divino che si è tutto concentrato su Maria per fare di Lei una Madre e che ora da Lei si effonde.
È sera, perché le ombre cominciano a invadere l’ambiente dove prima era scesa tanta luce di Cie­lo.
Maria, in ginocchio presso il suo lettuccio, prega con le braccia incrociate sul seno e col volto mol­to curvato verso terra. È ancora vestita come lo era al momento dell’Annuncio. Tutto è come allora.
Il ramo fiorito nel suo vaso, le suppellettili nello stesso ordine. Soltanto la rocca e il fuso sono ap­poggiati in un angolo, col suo pennacchio di stame l’una, col suo lucido filo avvolto intorno l’altro.
Maria cessa di pregare e si alza, col volto acceso come da una fiamma. La bocca sorride ma il pianto fa lucido il suo occhio azzurro. Prende il lume ad olio e con la pietra focaia lo accende. Guarda che tutto sia ordinato nella cameretta. Raddrizza la coperta del lettuccio, che si era spostata. Ag­giunge acqua nel vaso del ramo fiorito e lo porta fuori, nel fresco della notte. Poi rientra. Prende il ricamo piegato sul mobile a scansia e il lume acceso, ed esce chiudendo la porta.
Fa pochi passi nell’orticello, costeggiando la casa, e poi entra nella stanzetta dove ho visto avve­nire l’addio di Gesù a Maria. La riconosco, benché manchi ora di qualche suppellettile che vi era allo­ra. Maria scompare, portando seco il lume, in un altro piccolo ambiente presso a questo, ed io resto lì con l’unica compagnia del suo lavoro posato sull’angolo del tavolo. Odo il passo leggero di Maria andare e venire, l’odo smuovere dell’acqua come chi lava qualche cosa, poi rompere dei rametti, ca­pisco che è legna spezzata dal suono che fa. Sento che accende il fuoco.
Poi torna. Esce nel giardinetto. Rientra con delle mele e delle verdure. Posa le mele sul tavolo, in un vassoio di metallo inciso, mi pare rame bulinato. Torna in cucina (certo di là è la cucina). Ora la fiamma del focolare si proietta gioconda dalla porta aperta sin qua dentro e fa una danza d’ombre sulle pareti.
Passa qualche tempo e Maria torna con un pane piccolo e bruno e una ciotola di latte caldo. Si siede e bagna delle fettine di pane nel latte. Mangia quieta e adagio. Poi, lasciando metà tazza di lat­te, entra di nuovo in cucina e torna con le verdure, sulle quali versa dell’olio, e le mangia col pane. Si disseta col latte. Poi prende una mela e la mangia. Una cena da bambina.
Maria mangia e pensa, e sorride ad un interno pensiero. Alza e gira gli occhi sulle pareti e pare che comunichi loro un suo segreto. Ogni tanto però si fa seria, quasi mesta. Ma poi il sorriso torna.
Si ode bussare alla porta. Maria si alza e apre. Entra Giuseppe. Si salutano. Poi Giuseppe siede su uno sgabello di fronte a Maria, al di là del tavolo.
Giuseppe è un bell’uomo nella pienezza dell’età. Avrà un trentacinque anni al massimo. I suoi ca­pelli castano scuri e la sua barba, pure castana scura, gli incorniciano un viso regolare con due dolci occhi di un castano quasi nero. Ha fronte spaziosa e liscia, naso sottile, lievemente arcuato, guance piuttosto tonde di un bruno non olivastro, ma anzi rosato ai pomelli. Non è molto alto. Ma è robusto e ben fatto.
Prima di sedere si è levato il mantello, che (è il primo che vedo fatto così) è a ruota intera, ferma­to alla gola da un gancio o simile, ed ha il cappuccio. È di color marrone chiaro e pare di una stoffa impermeabile di lana grezza. Sembra un mantello da montanaro, adatto a far riparo alle intemperie.
Anche prima di sedere offre a Maria due uova e una pigna d’uva, un poco vizza ma ben conserva­ta. E sorride dicendo: «Me l’hanno portata da Cana. Le uova me le ha date il Centurione per un lavo­ro che ho fatto ad un suo carro. Si era rotto in una ruota e il loro operaio è malato. Sono fresche. Le ha prese nel suo pollaio. Bévile. Ti faranno bene».
«Domani, Giuseppe. Ora ho mangiato».
«Ma l’uva la puoi prendere. È buona. Dolce come il miele. L’ho portata piano per non sciuparla. Mangiala. Ce ne ho ancora. Te la porterò domani in un canestrello. Questa sera non potevo, perché vengo direttamente da casa del Centurione».
«Allora non hai ancora cenato».
«No. Ma non importa».
Maria si alza subito e va in cucina, e torna con dell’altro latte e delle ulive e formaggio. «Non ho altro», dice. «Prendi un uovo».
Giuseppe non vuole. Le uova sono per Maria. Mangia con gusto il suo pane e formaggio e beve il latte ancor tiepido. Poi accetta una mela. La cena è finita.
Maria prende il suo ricamo, dopo aver sbarazzato la tavola dalle stoviglie, e Giuseppe l’aiuta e re­sta in cucina anche quando Lei torna di qua. Lo sento smuovere riponendo tutto a posto. Riattizza il fuoco, perché la sera è fresca. Quando torna, Maria lo ringrazia.
Parlano fra loro. Giuseppe racconta come ha passato la giornata. Parla dei suoi nipotini. Si inte­ressa del lavoro di Maria e dei suoi fiori. Promette di portarle dei fiori tanto belli che il Centurione gli ha promessi. «Sono fiori che noi non abbiamo. Li hanno portati da Roma. Mi ha promesso le pianti­ne. Ora, quando la luna è propizia, te li pianto. Hanno bei colori e un odore molto buono. Li ho visti l’estate scorsa, perché fioriscono d’estate. Ti profumeranno tutta la casa. Poi poterò le piante a luna buona. È tempo».
Maria sorride e ringrazia. Un silenzio. Giuseppe guarda la testa bionda di Maria curva sul suo ri­camo. Uno sguardo di amore angelico. Certo, se un angelo amasse una donna d’amore di sposo, la guarderebbe così.
Maria, come chi prenda una decisione, posa in grembo il ricamo e dice: «Giuseppe, anche io ho qualche cosa da dirti. Non ho mai nulla, perché tu sai come vivo ritirata. Ma oggi ho una notizia. Ho avuto notizia che la parente nostra Elisabetta, moglie di Zaccaria, sta per avere un figlio…».
Giuseppe sgrana gli occhi e dice: «A quell’età?».
«A quell’età», risponde sorridendo Maria. «Tutto può il Signore. Ed ora ha voluto dare questa gioia alla parente nostra».
«Come lo sai? È sicura la notizia?».
«È venuto un messaggero. Ed è uno che non può mentire. Vorrei andare da Elisabetta, per servir­la e dirle che giubilo con lei. Se tu lo permetti…».
«Maria, tu sei la mia donna ed io il tuo servo. Tutto quanto fai è ben fatto. Quando vorresti parti­re?».
«Al più presto. Ma starò via dei mesi».
«Ed io conterò i giorni aspettandoti. Va’ tranquilla. Alla casa e al tuo orticello penserò io. Troverai i tuoi fiori belli come se tu li avessi curati. Soltanto… aspetta. Devo andare prima della Pasqua a Geru­salemme per acquistare degli oggetti per il mio lavoro. Se attendi qualche giorno ti accompagno sin là. Non oltre, perché devo tornare sollecito. Ma fin là possiamo andare insieme. Sono più quieto se non ti so sola per le strade. Al ritorno, me lo farai sapere, ti verrò incontro».
«Sei tanto buono, Giuseppe. Il Signore ti compensi con le sue benedizioni e tenga lontano da te il dolore. Lo prego sempre per questo».
I due casti sposi si sorridono angelicamente. Il silenzio si ristabilisce per qualche tempo.
Poi Giuseppe si alza. Si rimette il mantello, alza il cappuccio sul capo. Saluta Maria, che si è pure alzata, ed esce.
Maria lo guarda uscire, con un sospiro come di pena. Poi alza gli occhi al cielo. Prega certo. Chiu­de la porta con cura. Piega il ricamo. Va in cucina. Spegne o copre il fuoco. Guarda che tutto sia a posto. Prende il lume ed esce chiudendo la porta. Fa riparo con la mano alla fiammella che trema al vento freddino della notte. Entra nella sua stanza e prega ancora.
La visione cessa così.



Dice Maria:
«Figlia cara, quando, cessata l’estasi che mi aveva fatta piena di inesprimibile gioia, io tornai ai sensi della Terra, il primo pensiero che, pungente come spina di rose, mi punse il cuore fasciato nelle rose del Divino Amore, a me Sposo da qualche istante, fu il pensiero di Giuseppe.
Io l’amavo, ormai, questo mio santo e previdente custode. Da quando il volere di Dio, attraver­so la parola del suo Sacerdote, mi aveva voluta sposata a Giuseppe, io avevo potuto conoscere ed apprezzare la santità di questo Giusto. Congiunta a lui, avevo sentito cessare il mio smarrimento d’orfana, né avevo più rimpianto il perduto asilo del Tempio. Egli era dolce come il padre perduto. Presso a lui mi sentivo sicura come presso il Sacerdote. Ogni titubanza era caduta, non solo caduta. Ma anche dimenticata, tanto si era allontanata dal mio cuore di vergine, perché avevo capito che non avevo da titubare, da temere di nulla rispetto a Giuseppe. Più sicura di un bambino nelle braccia della mamma, era la mia verginità affidata a Giuseppe.
Ora come dirgli che ero Madre? Cercavo le parole per dargli l’annuncio. Difficile ricerca. Ché non volevo lodarmi del dono di Dio, e non potevo in nessuna maniera giustificare la mia maternità senza dire: “Il Signore mi ha amata fra tutte le donne e di me, sua serva, ha fatto la sua Sposa”. Ingan­narlo, celandogli il mio stato, non volevo neppure.
Ma, mentre pregavo, lo Spirito di cui ero piena mi aveva detto: “Taci. Affida a Me il compito di giustificarti presso lo sposo”. Quando? Come? Non l’avevo chiesto. Mi ero sempre affidata a Dio co­me un fiore si affida all’onda che lo porta. Mai l’eterno mi aveva fatto rimanere senza il suo aiuto. La sua mano mi aveva sorretta, protetta, guidata fin qui. Lo avrebbe fatto anche ora.
Figlia mia, come è bella e confortevole la fede nel nostro eterno, buono Iddio! Ci raccoglie nelle sue braccia come una cuna, ci porta come una barca nel luminoso porto del Bene, ci scalda il cuore, ci consola, ci nutre, ci dà riposo e letizia, ci dà luce e guida. Tutto è la fiducia in Dio, e Dio tutto dà a chi ha fiducia in Lui. Dà Se stesso.
Quella sera portai la mia fiducia di creatura alla perfezione. Ora lo potevo fare, poiché Dio era in me. Prima avevo avuto la fiducia di povera creatura quale ero. Sempre un nulla, anche se la Tanto Amata da esser la Senza Macchia. Ma ora avevo la fiducia divina, perché Dio era mio: mio Sposo, mio Figlio! Oh! gioia! Esser Una con Dio. Non per mia gloria, ma per amarlo in un’unione totale, ma per potergli dire: “Tu, Tu solo che sei in me, opera con la tua divina perfezione in tutte le cose che io faccio”.
Se Egli non mi avesse detto: “Taci!”, avrei forse osato, col volto contro il suolo, dire a Giuseppe: “Lo Spirito mi ha penetrata ed in me è il Germe di Dio”; ed egli mi avrebbe creduto, perché mi sti­mava e perché, come tutti coloro che non mentono mai, non poteva credere che altri mentisse. Sì, pur di non addolorarlo in futuro, avrei vinto la ritrosia di darmi tal lode. Ma ubbidii al divino coman­do.
E per dei mesi, da quel momento, ho sentito la prima ferita insanguinarmi il cuore. Il primo dolore della mia sorte di Corredentrice. L’ho offerto e sofferto per riparare e per dare a voi una norma di vi­ta in momenti analoghi di sofferenza per una necessità di silenzio, per un evento che vi pone in luce cattiva presso chi vi ama.
Date a Dio la tutela del vostro buon nome e dei vostri interessi affettivi. Meritate con una vita santa la tutela di Dio, e poi andate sicuri. Anche tutto il mondo vi fosse contro, Egli vi difenderà presso chi vi ama e farà emergere la verità.
Riposa ora, figlia. E sii sempre più figlia mia».
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 20 gennaio 2019, II Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 2,1-11.
Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c'era la madre di Gesù.
Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli.
Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: «Non hanno più vino».
E Gesù rispose: «Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora».
La madre dice ai servi: «Fate quello che vi dirà».
Vi erano là sei giare di pietra per la purificazione dei Giudei, contenenti ciascuna due o tre barili.
E Gesù disse loro: «Riempite d'acqua le giare»; e le riempirono fino all'orlo.
Disse loro di nuovo: «Ora attingete e portatene al maestro di tavola». Ed essi gliene portarono.
E come ebbe assaggiato l'acqua diventata vino, il maestro di tavola, che non sapeva di dove venisse (ma lo sapevano i servi che avevano attinto l'acqua), chiamò lo sposo e gli disse: «Tutti servono da principio il vino buono e, quando sono un po' brilli, quello meno buono; tu invece hai conservato fino ad ora il vino buono».
Così Gesù diede inizio ai suoi miracoli in Cana di Galilea, manifestò la sua gloria e i suoi discepoli credettero in lui.
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 1 Capitolo 52 pagina 325 - CD 1, traccia 52
Vedo una casa. Una caratteristica casa orientale — un cubo bianco, più largo che alto, con rade aperture — sormontata da una terrazza che fa da tetto, recinta da un muretto alto circa un metro e ombreggiata da una pergola di vite, che si arrampica fin là e stende i suoi rami su oltre metà di questa assolata terrazza. Una scala esterna sale lungo la facciata sino all’altezza di una porta, che si apre a metà altezza della facciata. Sotto ci sono, al terreno, delle porte basse e rade, non più di due per lato, che mettono in stanze basse e scure. La casa sorge in mezzo ad una specie di aia, più spiazzo erbo­so che aia, che ha al centro un pozzo. Vi sono delle piante di fico e di melo. La casa guarda verso la strada, ma non è sulla strada. È un poco in dentro, e un viottolo fra l’erba l’unisce alla via che sembra una via maestra.
Si direbbe che la casa è alla periferia di Cana: casa di proprietari contadini, i quali vivono in mez­zo al loro poderetto. La campagna si stende oltre la casa con le sue lontananze verdi e placide. Vi è un bel sole e un azzurro tersissimo di cielo. In principio non vedo altro. La casa è sola.
Poi vedo due donne, con lunghe vesti e un manto che fa anche da velo, avanzarsi sulla via e da questa sul sentiero. Una è più anziana, sui cinquant’anni, e veste di scuro, un color bigio-marrone come di lana naturale. L’altra è vestita più in chiaro, una veste di un giallo pallido e manto azzurro, e sembra avere un trentacinque anni. È molto bella, snella, e ha un portamento pieno di dignità, per quanto sia tutta gentilezza e umiltà. Quando è più vicina, noto il color pallido del volto, gli occhi az­zurri e i capelli biondi che appaiono sotto il velo sulla fronte. Riconosco Maria Ss. Chi sia l’altra, che è bruna e più anziana, non so. Parlano fra loro e la Madonna sorride. Quando sono prossime alla casa, qualcuno, certamente messo a guardia degli arrivi, dà l’avviso, ed incontro alle due vengono uomini e donne tutti vestiti a festa, i quali fanno molte feste alle due e specie a Maria Ss.
L’ora pare mattutina, direi verso le nove, forse prima, perché la campagna ha ancora quell’aspet­to fresco delle prime ore del giorno, nella rugiada che fa più verde l’erba e nell’aria non ancora offu­scata da polvere. La stagione mi pare primaverile, perché i prati sono con erba non arsa dall’estate e i campi hanno il grano ancor giovane e senza spiga, tutto verde. Le foglie del fico e del melo sono verdi e ancora tenere, e così quelle della vite. Ma non vedo fiori sul melo e non vedo frutta né sul melo, né sul fico, né sulla vite. Segno che il melo ha già fiorito, ma da poco, e i frutticini non si vedo­no ancora.
Maria, molto festeggiata e fiancheggiata da un anziano che pare il padrone di casa, sale la scala esterna ed entra in un’ampia sala che pare tenere tutta o buona parte del piano sopraelevato.
Mi pare di capire che gli ambienti al terreno sono le vere e proprie stanze di abitazione, le dispen­se, i ripostigli e le cantine, e questa sia l’ambiente riservato a usi speciali, come feste eccezionali, o a lavori che richiedano molto spazio, o anche a distensione di derrate agricole. Nelle feste lo svuota­no da ogni impiccio e lo ornano, come è oggi, di rami verdi, di stuoie, di tavole imbandite. Al centro ve ne è una molto ricca, con sopra già delle anfore e piatti colmi di frutta. Lungo la parete di destra, rispetto a me che guardo, un’altra tavola imbandita, ma meno riccamente. Lungo quella di sinistra, una specie di lunga credenza, con sopra piatti con formaggi e altri cibi che mi paiono focacce coperte di miele e dolciumi. In terra, sempre presso questa parete, altre anfore e tre grossi vasi in forma di brocca di rame (su per giù). Le chiamerei giare.
Maria ascolta benignamente quanto tutti le dicono, poi con bontà si leva il manto ed aiuta a finire i preparativi della mensa. La vedo andare e venire aggiustando i letti-sedili, raddrizzando le ghirlan­de di fiori, dando migliore aspetto alle fruttiere, osservando che nelle lampade vi sia l’olio. Sorride e parla pochissimo e a voce molto bassa. Ascolta invece molto e con tanta pazienza.
Un grande rumore di strumenti musicali (poco armonici in verità) si ode sulla via. Tutti, meno Maria, corrono fuori. Vedo entrare la sposa, tutta agghindata e felice, circondata dai parenti e dagli amici, a fianco dello sposo che le è corso incontro per primo.
E qui la visione ha un mutamento. Vedo, invece della casa, un paese. Non so se sia Cana o altra borgata vicina. E vedo Gesù con Giovanni ed un altro che mi pare Giuda Taddeo, ma potrei, su que­sto secondo, sbagliare. Per Giovanni non sbaglio. Gesù è vestito di bianco ed ha un manto azzurro cupo. Sentendo il rumore degli strumenti, il compagno di Gesù chiede qualcosa ad un popolano e riferisce a Gesù.
«Andiamo a far felice mia Madre», dice allora Gesù sorridendo. E si incammina attraverso ai cam­pi, coi due compagni, alla volta della casa. Mi sono dimenticata di dire che ho l’impressione che Ma­ria sia o parente o molto amica dei parenti dello sposo, perché si vede che è in confidenza.
Quando Gesù arriva, il solito, messo di sentinella, avvisa gli altri. Il padrone di casa, insieme al fi­glio sposo ed a Maria, scende incontro a Gesù e lo saluta rispettosamente. Saluta anche gli altri due, e lo sposo fa lo stesso.
Ma quello che mi piace è il saluto pieno di amore e di rispetto di Maria al Figlio e viceversa. Non espansioni, ma uno sguardo tale accompagna la parola di saluto: «La pace è con te» e un tale sor­riso che vale cento abbracci e cento baci. Il bacio tremola sulle labbra di Maria, ma non viene dato. Soltanto Ella pone la sua mano bianca e piccina sulla spalla di Gesù e gli sfiora un ricciolo della sua lunga capigliatura. Una carezza da innamorata pudica.
Gesù sale a fianco della Madre e seguito dai discepoli e dai padroni, ed entra nella sala del con­vito, dove le donne si dànno da fare ad aggiungere sedili e stoviglie per i tre ospiti, inaspettati, mi sembra. Direi che era incerta la venuta di Gesù e assolutamente impreveduta quella dei suoi compa­gni.
Odo distintamente la voce piena, virile, dolcissima del Maestro dire, nel porre piede nella sala: «La pace sia in questa casa e la benedizione di Dio su voi tutti». Saluto cumulativo a tutti i presenti e pieno di maestà.
Gesù domina col suo aspetto e con la sua statura tutti quanti. È l’ospite, e fortuito, ma pare il re del convito, più dello sposo, più del padrone di casa. Per quanto sia umile e condiscendente, è colui che si impone.
Gesù prende posto alla tavola di centro con lo sposo, la sposa, i parenti degli sposi e gli amici più influenti. I due discepoli, per rispetto al Maestro, vengono fatti sedere alla stessa tavola.
Gesù ha le spalle voltate alla parete dove sono le giare e le credenze. Non le vede perciò, e non vede neppure l’affaccendarsi del maggiordomo intorno ai piatti di arrosti, che vengono portati da una porticina che si apre presso le credenze.
Osservo una cosa. Meno le rispettive madri degli sposi e meno Maria, nessuna donna siede a quel tavolo. Tutte le donne sono, e fanno baccano per cento, all’altra tavola contro la parete, e vengono servite dopo che sono stati serviti gli sposi e gli ospiti di riguardo. Gesù è presso il padrone di casa ed ha di fronte Maria, la quale siede a fianco della sposa.
Il convito comincia. E le assicuro che l’appetito non manca e neanche la sete. Quelli che lasciano poco il segno sono Gesù e sua Madre, la quale, anche, parla pochissimo. Gesù parla un poco di più. Ma, per quanto sia parco, non è, nel suo scarso parlare, né accigliato né sdegnoso. È un uomo cor­tese ma non ciarliero. Interrogato risponde, se gli parlano si interessa, espone il suo parere, ma poi si raccoglie in Sé come uno abituato a meditare. Sorride, non ride mai. E, se sente qualche scherzo troppo avventato, mostra di non udire. Maria si ciba della contemplazione del suo Gesù, e così Gio­vanni, che è verso il fondo della tavola e pende dalle labbra del suo Maestro.
Maria si accorge che i servi parlottano col maggiordomo e che questo è impacciato, e capisce cosa c’è di spiacevole. «Fi glio», dice piano, richiamando l’attenzione di Gesù con quella parola. «Figlio, non hanno più vino».
«Donna, che vi è più fra Me e te?». Gesù, nel dirle questa frase, sorride ancor più dolcemente, e sorride Maria, come due che sanno una verità che è loro gioioso segreto, ignorata da tutti gli altri.


Gesù mi spiega il significato della frase.
«Quel “più”, che molti traduttori omettono, è la chiave della frase e la spiega nel suo vero signifi­cato.
Ero il Figlio soggetto alla Madre sino al momento in cui la volontà del Padre mio mi indicò esser venuta l’ora di essere il Maestro. Dal momento che la mia missione ebbe inizio, non ero più il Figlio soggetto alla Madre, ma il Servo di Dio. Rotti i legami morali verso la mia Genitrice. Essi si erano mutati in altri più alti, si erano rifugiati tutti nello spirito. Quello chiamava sempre “Mamma” Maria, la mia Santa. L’amore non conobbe soste, né intiepidimento, anzi non fu mai tanto perfetto come quando, separato da Lei come per una seconda figliazione, Ella mi dette al mondo per il mondo, co­me Messia, come Evangelizzatore. La sua terza sublime mistica maternità fu quando, nello strazio del Golgota, mi partorì alla Croce facendo di Me il Redentore del mondo.
“Che vi è più fra Me e te?”. Prima ero tuo, unicamente tuo. Tu mi comandavi, Io ti ubbidivo. Ti ero “soggetto”. Ora sono della mia missione.
Non l’ho forse detto? “Chi, messa la mano all’aratro, si volge indietro a salutare chi resta, non è adatto al Regno di Dio”. Io avevo posto la mano all’aratro per aprire col vomere non le glebe, ma i cuori, e seminarvi la parola di Dio. Avrei levato quella mano solo quando me l’avrebbero strappata di là per inchiodarmela alla croce ed aprire con il mio torturante chiodo il cuore del Padre mio, facendo­ne uscire il perdono per l’umanità.
Quel “più”, dimenticato dai più, voleva dire questo: “Tutto mi sei stata, o Madre, finché fui unica­mente il Gesù di Maria di Nazareth, e tutto mi sei nel mio spirito; ma, da quando sono il Messia atte­so, sono del Padre mio. Attendi un poco ancora e, finita la missione, sarò da capo tutto tuo; mi riavrai ancora sulle braccia come quand’ero bambino, e nessuno te lo contenderà più, questo tuo Figlio, considerato un obbrobrio dell’umanità, che te ne getterà la spoglia per coprire te pure dell’obbrobrio d’esser madre di un reo. E poi mi avrai di nuovo, trionfante, e poi mi avrai per sempre, trionfante tu pure in Cielo. Ma ora sono di tutti questi uomini. E sono del Padre che mi ha mandato ad essi”.
Ecco quel che vuol dire quel piccolo e così denso di significato “più”».
Maria ordina ai servi: «Fate quello che Egli vi dirà». Maria ha letto negli occhi sorridenti del Figlio l’assenso, velato dal gran de insegnamento a tutti i “vocati”. E ai servi: «Empite d’acqua le idrie», ordina Gesù.
Vedo i servi empire le giare di acqua portata dal pozzo (odo stridere la carrucola che porta su e giù il secchio gocciolante). Vedo il maggiordomo mescersi un poco di quel liquido con occhi di stupo­re, assaggiarlo con atti di ancor più vivo stupore, gustarlo e parlare al padrone di casa e allo sposo (erano vicini).
Maria guarda ancora il Figlio e sorride; poi, raccolto un sorriso di Lui, china il capo arrossendo lie­vemente. È beata.
Nella sala passa un sussurrio, le teste si volgono tutte verso Gesù e Maria, c’è chi si alza per ve­dere meglio, chi va alle giare. Un silenzio, e poi un coro di lodi a Gesù.
Ma Egli si alza e dice una parola: «Ringraziate Maria», e poi si sottrae al convito. I discepoli lo seguono. Sulla soglia ripete: «La pace sia a questa casa e la benedizione di Dio su voi», e aggiunge: «Madre, ti saluto».
La visione cessa.
Gesù mi istruisce così:
«Quando dissi ai discepoli: “Andiamo a far felice mia Madre”, avevo dato alla frase un senso più alto di quello che pareva. Non la felicità di vedermi, ma di essere Lei l’iniziatrice della mia attività di miracolo e la prima benefattrice dell’umanità. Ricordatevelo sempre. Il mio primo miracolo è avve­nuto per Maria. Il primo. Simbolo che è Maria la chiave del miracolo. Io non ricuso nulla alla Madre mia, e per sua preghiera anticipo anche il tempo della Grazia. Io conosco mia Madre, la seconda in bontà dopo Dio. So che farvi grazia è farla felice, poiché è la Tutta Amore. Ecco perché dissi, Io che sapevo: “Andiamo a farla felice”.
Inoltre ho voluto rendere manifesta la sua potenza al mondo insieme alla mia. Destinata ad es­sere a Me congiunta nella carne — poiché fummo una carne: Io in Lei, Lei intorno a Me, come petali di giglio intorno al pistillo odoroso e colmo di vita — congiunta a Me nel dolore, poiché fummo sulla croce Io con la carne e Lei col suo spirito, così come il giglio odora e colla corolla e coll’essenza tratta da essa, era giusto fosse congiunta a Me nella potenza che si mostra al mondo.
Dico a voi ciò che dissi a quei convitati: “Ringraziate Maria. È per Lei che avete avuto il Padrone del miracolo e che avete le mie grazie, e specie quelle di perdono”.
Riposa in pace. Noi siamo con te».
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 13 gennaio 2019, Battesimo del Signore, festa

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 3,15-16.21-22.
Poiché il popolo era in attesa e tutti si domandavano in cuor loro, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo,
Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.
Quando tutto il popolo fu battezzato e mentre Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì
e scese su di lui lo Spirito Santo in apparenza corporea, come di colomba, e vi fu una voce dal cielo: «Tu sei il mio figlio prediletto, in te mi sono compiaciuto».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 1 Capitolo 45 pagina 281 - CD 1, traccia 45
Vedo una pianura spopolata di paesi e di vegetazione. Non ci sono campi coltivati, e ben poche e rare sono le piante riunite qua e là a ciuffi, come vegetali famiglie, dove il suolo è nelle profondità meno arso che non sia in genere. Faccia conto che questo terreno arsiccio e incolto sia alla mia de­stra, avendo io il nord alle spalle, e si prolunghi verso quello che è a sud rispetto a me.
A sinistra invece vedo un fiume di sponde molto basse, che scorre lentamente esso pure da nord a sud. Dal moto lentissimo dell’acqua comprendo che non vi devono essere dislivelli nel suo letto e che questo fiume scorre in una pianura talmente piatta da costituire una depressione. Vi è un moto appena sufficiente acciò l’acqua non stagni in palude. (L’acqua è poco fonda, tanto che si vede il fon­dale. Giudico non più di un metro, al massimo un metro e mezzo. Largo come è l’Arno verso S. Mi­niato-Empoli: direi un venti metri. Ma io non ho occhio esatto nel calcolare). Pure è d’un azzurro lie­vemente verde verso le sponde, dove per l’umidore del suolo è una fascia di verde folta e rallegrante l’occhio, che rimane stanco dallo squallore petroso e arenoso di quanto gli si stende avanti.
Quella voce intima, che le ho spiegato di udire e che mi indica ciò che devo notare e sapere, mi avverte che io vedo la valle del Giordano. La chiamo valle, perché si dice così per indicare il posto dove scorre un fiume, ma qui è improprio il chiamarla così, perché una valle presuppone dei monti, ed io qui di monti non ne vedo vicini. Ma insomma sono presso il Giordano, e lo spazio desolato che osservo alla mia destra è il deserto di Giuda. Se dire deserto per dire luogo dove non sono case e lavori dell’uomo è giusto, non lo è secondo il concetto che noi abbiamo del deserto. Qui non le arene ondulate del deserto come lo concepiamo noi, ma solo terra nuda, sparsa di pietre e detriti, come sono i terreni alluvionali dopo una piena. In lontananza, delle colline.
Pure, presso il Giordano, vi è una grande pace, un che di speciale, di superiore al comune, come è quello che si nota sulle sponde del Trasimeno. È un luogo che pare ricordarsi di voli d’angeli e di voci celesti. Non so dire bene ciò che provo. Ma mi sento in un posto che parla allo spirito.
Mentre osservo queste cose, vedo che la scena si popola di gente lungo la riva destra (rispetto a me) del Giordano. Vi sono molti uomini vestiti in maniere diverse. Alcuni paiono popolani, altri dei ricchi, non mancano alcuni che paiono farisei per la veste ornata di frange e galloni.
In mezzo ad essi, in piedi su un masso, un uomo che, per quanto è la prima volta che lo vedo, riconosco subito per il Battista. Parla alla folla, e le assicuro che non è una predica dolce. Gesù ha chiamato Giacomo e Giovanni «i figli del tuono». Ma allora come chiamare questo veemente oratore? Giovanni Battista merita il nome di fulmine, valanga, terremoto, tanto è impetuoso e severo nel suo parlare e nel suo gestire.
Parla annunciando il Messia ed esortando a preparare i cuori alla sua venuta estirpando da essi gli ingombri e raddrizzando i pensieri. Ma è un parlare vorticoso e rude. Il Precursore non ha la mano leggera di Gesù sulle piaghe dei cuori. È un medico che denuda e fruga e taglia senza pietà.
Mentre lo ascolto — e non ripeto le parole perché sono quelle riportate dagli evangelisti, ma am­plificate in irruenza — vedo avanzarsi lungo una stradicciuola, che è ai bordi della linea erbosa e ombrosa che costeggia il Giordano, il mio Gesù. (Questa rustica via, più sentiero che via, sembra disegnato dalle carovane e dalle persone che per anni e secoli l’hanno percorso per giungere ad un punto dove, essendo il fondale del fiume più alto, è facile il guado. Il sentiero continua dall’altro lato del fiume e si perde fra il verde dell’altra sponda).
Gesù è solo. Cammina lentamente, venendo avanti, alle spalle di Giovanni. Si avvicina senza ru­more e ascolta intanto la voce tuonante del Penitente del deserto, come se anche Gesù fosse uno dei tanti che venivano a Giovanni per farsi battezzare e per prepararsi ad esser mondi per la venuta del Messia. Nulla distingue Gesù dagli altri. Sembra un popolano nella veste, un signore nel tratto e nel­la bellezza, ma nessun segno divino lo distingue dalla folla.
Però si direbbe che Giovanni senta una emanazione di spiritualità speciale. Si volge e individua subito la fonte di quel l’emanazione. Scende con impeto dal masso che gli faceva da pulpito e va svel­tamente verso Gesù, che si è fermato qualche metro lontano dal gruppo appoggiandosi al fusto di un albero.
Gesù e Giovanni si fissano un momento. Gesù col suo sguardo azzurro tanto dolce. Giovanni col suo occhio severo, nerissimo, pieno di lampi. I due, visti vicino, sono l’antitesi l’uno dell’altro. Alti tut­ti e due — è l’unica somiglianza — sono diversissimi per tutto il resto. Gesù biondo e dai lunghi capelli ravviati, dal volto d’un bianco avoriato, dagli occhi azzurri, dall’abito semplice ma maestoso. Giovanni irsuto, nero di capelli che ricadono lisci sulle spalle, lisci e disuguali in lunghezza, nero nella barba rada che gli copre quasi tutto il volto non impedendo col suo velo di permettere di notare le guance scavate dal digiuno, nero negli occhi febbrili, scuro nella pelle abbronzata dal sole e dalle intemperie e per la folta peluria che lo copre, seminudo nella sua veste di pelo di cammello, tenuta alla vita da una cinghia di pelle e che gli copre il torso scendendo appena sotto i fianchi magri e lasciando scoper­te le coste a destra, le coste sulle quali è, unico strato di tessuti, la pelle conciata dall’aria. Sembrano un selvaggio e un angelo visti vicini.
Giovanni, dopo averlo scrutato col suo occhio penetrante, esclama: «Ecco l’Agnello di Dio. Come è che a me viene il mio Signore?».
Gesù risponde placido: «Per compiere il rito di penitenza».
«Mai, mio Signore. Io sono che devo venire a Te per essere santificato, e Tu vieni a me?».
E Gesù, mettendogli una mano sul capo, perché Giovanni s’era curvato davanti a Gesù, risponde: «Lascia che si faccia come voglio, perché si compia ogni giustizia e il tuo rito divenga inizio ad un più alto mistero e sia annunciato agli uomini che la Vittima è nel mondo».
Giovanni lo guarda con occhio che una lacrima fa dolce e lo precede verso la riva, dove Gesù si leva il manto, la veste e la tunica, rimanendo con una specie di corti calzoncini, per poi scendere nell’acqua dove è già Giovanni, che lo battezza versandogli sul capo l’acqua del fiume, presa con una specie di tazza, che il Battista tiene sospesa alla cintola e che mi pare una conchiglia o una mezza zucca essiccata e svuotata.
Gesù è proprio l’Agnello. Agnello nel candore della carne, nella modestia del tratto, nella mitezza dello sguardo.
Mentre Gesù risale la riva e, dopo essersi vestito, si raccoglie in preghiera, Giovanni lo addita alle turbe, testimoniando d’averlo conosciuto per il segno che lo Spirito di Dio gli aveva indicato quale indicazione infallibile del Redentore.
Ma io sono polarizzata nel guardare Gesù che prega, e non mi resta presente che questa figura di luce contro il verde della sponda.

4 febbraio 1944.
Dice Gesù:
«Giovanni non aveva bisogno del segno per se stesso. Il suo spirito, presantificato sin dal ventre di sua madre, era possessore di quella vista di intelligenza soprannaturale che sarebbe stata di tutti gli uomini senza la colpa di Adamo.
Se l’uomo fosse rimasto in grazia, in innocenza, in fedeltà col suo Creatore, avrebbe visto Dio at­traverso le apparenze esterne. Nella Genesi è detto che il Signore Iddio parlava familiarmente con l’uomo innocente e che l’uomo non tramortiva a quella voce, non si ingannava nel discernerla. Così era la sorte dell’uomo: vedere e capire Iddio, proprio come un figlio fa col genitore. Poi è venuta la colpa, e l’uomo non ha più osato guardare Dio, non ha più saputo vedere e comprendere Iddio. E sempre meno lo sa.
Ma Giovanni, il mio cugino Giovanni, era stato mondato dalla colpa quando la Piena di Grazia s’era curvata amorosa ad abbracciare la già sterile ed allora feconda Elisabetta. Il fanciullino nel suo seno era balzato di giubilo, sentendo cadere la scaglia della colpa dalla sua anima come crosta che cade da una piaga che guarisce. Lo Spirito Santo, che aveva fatto di Maria la Madre del Salvatore, iniziò la sua opera di salvazione, attraverso Maria, vivo Ciborio della Salvezza incarnata, su questo nascituro, destinato ad esser a Me unito non tanto per il sangue quanto per la missione, che fece di noi come le labbra che formano la parola. Giovanni le labbra, Io la Parola. Egli il Precursore nell’Evangelo e nella sorte di martirio. Io, Colui che perfeziona della mia divina perfezione l’Evangelo iniziato da Giovanni ed il martirio per la difesa della Legge di Dio.
Giovanni non aveva bisogno di nessun segno. Ma alla ottusità degli altri il segno era necessario. Su cosa avrebbe fondato Giovanni la sua asserzione, se non su una prova innegabile che gli occhi dei tardi e le orecchie dei pesanti avessero percepita?
Io pure non avevo bisogno di battesimo. Ma la sapienza del Signore aveva giudicato esser quello l’attimo e il modo dell’incontro. E, traendo Giovanni dal suo speco nel deserto e Me dalla mia casa, ci unì in quell’ora per aprire su Me i Cieli e farne scendere Se stesso, Colomba divina, su Colui che avrebbe battezzato gli uomini con tal Colomba, e farne scendere l’annuncio, ancor più potente di quello angelico perché del Padre mio: “Ecco il mio Figlio diletto col quale mi sono compiaciuto”. Per­ché gli uomini non avessero scuse o dubbi nel seguirmi e nel non seguirmi.
Le manifestazioni del Cristo sono state molte. La prima, dopo la Nascita, fu quella dei Magi, la se­conda nel Tempio, la terza sulle rive del Giordano. Poi vennero le infinite altre che ti farò conoscere, poiché i miei miracoli sono manifestazioni della mia natura divina, sino alle ultime della Risurrezione e Ascensione al Cielo.
La mia patria fu piena delle mie manifestazioni. Come seme gettato ai quattro punti cardinali, esse avvennero in ogni strato e luogo della vita: ai pastori, ai potenti, ai dotti, agli increduli, ai pec­catori, ai sacerdoti, ai dominatori, ai bambini, ai soldati, agli ebrei, ai gentili. Anche ora esse si ripe­tono. Ma, come allora, il mondo non le accoglie. Anzi non accoglie le attuali e dimentica le passate. Ebbene, Io non desisto. Io mi ripeto per salvarvi, per portarvi alla fede in Me.
Sai, Maria, quello che fai? Quello che faccio, anzi, nel mostrarti il Vangelo? Un tentativo più forte di portare gli uomini a Me. Tu lo hai desiderato con preghiere ardenti. Non mi limito più alla parola. Li stanca e li stacca. È una colpa, ma è così. Ricorro alla visione, e del mio Vangelo, e la spiego per renderla più chiara e attraente.
A te do il conforto del vedere. A tutti do il modo di desiderare di conoscermi. E, se ancora non servirà e come crudeli bambini getteranno il dono senza capirne il valore, a te resterà il mio dono e ad essi il mio sdegno. Potrò una volta ancora fare l’antico rimprovero: “Abbiamo sonato e non avete ballato; abbiamo intonato lamenti e non avete pianto”.
Ma non importa. Lasciamo che essi, gli inconvertibili, accumulino sul loro capo i carboni ardenti, e volgiamoci alle pecorelle che cercano di conoscere il Pastore. Io son Quello, e tu sei la verga che le conduci a Me».
Come vede, mi sono affrettata a mettere quei particolari che, per la loro piccolezza, mi erano sfuggiti e che lei ha desiderato di avere. […].
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 6 gennaio 2019, Epifania del Signore, solennità

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 2,1-12.
Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme e domandavano:
«Dov'è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo».
All'udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme.
Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s'informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia.
Gli risposero:
«A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta:
E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il più piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele».
Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme esortandoli:
«Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l'avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch'io venga ad adorarlo».
Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino.
Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia.
Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra.
Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un'altra strada fecero ritorno al loro paese.
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 1 Capitolo 34 pagina 199 - CD 1, traccia 34

28 febbraio 1944.
Ill mio interno ammonitore mi dice:
«Chiama queste contemplazioni, che avrai e che ti dirò, "i Vangeli della Fede", perché a te e agli altri verranno ad illustrare la potenza della fede e dei suoi frutti e a confermarvi nella fede in Dio».
Vedo Betlemme piccola e bianca, raccolta come una chiocciata sotto al lume delle stelle. Due vie principali la tagliano a croce, l'una venendo da oltre il paese, ed è la via maestra che poi prosegue oltre il paese, l'altra andando da un'estremità all'altra dello stesso, ma non oltre. Altre viuzze lo segmentano, questo piccolo paese, senza la più piccola norma di piano stradale come noi lo concepiamo, ma anzi adattandosi al suolo che è a dislivelli ed alle case sorte qua e là, secondo i capricci del suolo e del loro costruttore. Volte quali a destra e quali a manca, chi messa per spigolo, rispetto alla via che le costeggia, obbligano questa ad essere come un nastro che si sgomitola sinuosamente e non un rettilineo che va da qua a là senza deviare. Ogni tanto una piazzetta, sia per un mercato, sia per una fontana, sia perché, costruito qui e là senza regola, è rimasto uno scampolo di suolo sghimbescio su cui non è possibile costruire più nulla. Nel punto dove mi pare di sostare particolarmente è proprio una di queste piazzette irregolari. Dovrebbe essere quadrata o quanto meno rettangolare. Invece è venuta un trapezio tanto strano da parere un triangolo acuto smusso nel vertice. Nel lato più lungo - la base del triangolo - vi è un fabbricato largo e basso. Il più largo del paese. Di fuori è un muraglione liscio e nudo, sul quale si aprono appena due portoni, ora ben serrati. Dentro invece, nel suo largo quadrato, si aprono molte finestre al primo piano, mentre sotto vi sono porticati che cingono cortili sparsi di paglia e detriti, con delle vasche per abbeverare cavalli e altri animali. Alle rustiche colonne dei portici sono anelli per tenere legate le bestie, e su un lato vi è una vasta tettoia per ricoverare mandrie e cavalcature. Comprendo che è l'albergo di Betlemme. Sugli altri due lati uguali sono case e casette, quali precedute e quali no da un poco d'orto, perché fra esse vi è quella che è con la facciata sulla piazza, e quella col retro della casa sulla piazza. Sull'altro lato più stretto, fronteggiante il caravanserraglio, un 'unica casetta dalla scaletta esterna che entra a metà facciata nelle camere del piano abitato. Sono tutte chiuse perché è notte. Non vi è nessuno per le vie, data l'ora. 3Vedo aumentare la luce notturna piovente dal cielo pieno di stelle, così belle nel cielo orientale, così vive e grandi che paiono vicine e che sia facile raggiungerle e toccare quei fiori splendenti nel velluto del firmamento. Alzo lo sguardo per comprendere la fonte di questo aumento di luce. Una stella, di insolita grandezza che la fa parere una piccola luna, si avanza nel cielo di Betlemme. E le altre paiono eclissarsi e farle largo come ancelle al passare della regina, tanto il suo splendore le soverchia e annulla. Dal globo, che pare un enorme zaffiro pallido, acceso internamente da un sole, parte una scia nella quale, al predominante colore dello zaffiro chiaro, si fondono i biondi dei topazi, i verdi degli smeraldi, gli opalescenti degli opali, i sanguigni bagliori dei rubini e i dolci scintillii delle ametiste. Tutte le pietre preziose della terra sono in quella scia, che spazza il cielo con un moto veloce e ondulante come fosse viva. Ma il colore che predomina è quello piovente dal globo della stella: il paradisiaco colore di pallido zaffiro che scende a fare di argento azzurro le case, le vie, il suolo di Betlemme, culla del Salvatore. Non è più la povera città, per noi meno di un paese rurale. E' una fantastica città di fiaba in cui tutto è d'argento. E l'acqua delle fonti e delle vasche è di liquido diamante. Con un più vivo raggiare di splendori la stella si ferma sulla piccola casa che è sul lato più stretto della piazzetta. Né i suoi abitanti, né i betlemiti la vedono, perché dormono nelle chiuse case, ma essa accelera i suoi palpiti di luce, e la sua coda vibra e ondeggia più forte tracciando quasi dei semicerchi nel cielo, che si accende tutto per questa rete d'astri che essa trascina, per questa rete piena di preziosi che splendono tingendo dei più vaghi colori le altre stelle, quasi a comunicare loro una parola di gioia. La casetta è tutta bagnata da questo fuoco liquido di gemme. Il tetto della breve terrazza, la scaletta di pietra scura, la piccola porta, tutto è come un blocco di puro argento sparso di polvere di diamanti e perle. Nessuna reggia della terra ha mai avuto od avrà una scala simile a questa, fatta per ricevere il passo degli angeli, fatta per esser usata dalla Madre che è Madre di Dio. I suoi piccoli piedi di Vergine Immacolata possono posarsi su quel candido splendore, i suoi piccoli piedi destinati a posarsi sui gradini del trono di Dio.
Ma la Vergine non sa. Essa veglia presso la cuna del Figlio e prega. Nell'anima ha splendori che superano gli splendori di cui la stella decora le cose. Dalla via maestra si avanza una cavalcata. Cavalli bardati ed altri condotti a mano, dromedari e cammelli cavalcati o portanti il loro carico. Il suono degli zoccoli fa un rumore di acqua che frusci e schiaffeggi le pietre di un torrente. Giunti sulla piazza, tutti si fermano. La cavalcata, sotto il raggio della stella, è fantastica di splendore. I finimenti delle ricchissime cavalcature, gli abiti dei loro cavalcatori, i volti, i bagagli, tutto splende unendo e ravvivando il suo splendore di metallo, di cuoio, di seta, di gemma, di pelame, al brillio stellare. E gli occhi raggiano e ridono le bocche, perché un altro splendore si è acceso nei cuori, quello di una gioia soprannaturale. Mentre i servi si avviano verso il caravanserraglio con gli animali, tre della carovana smontano dalle rispettive cavalcature, che un servo subito conduce altrove, e a piedi vanno verso la casa. E si prostrano, fronte a terra, a baciare la polvere. Sono tre potenti. Lo dicono le vesti ricchissime. Uno, di pelle molto scura, sceso da un cammello, si avvolge tutto in uno sciamma di candida seta splendente, stretto alla fronte ed alla vita da un cerchio prezioso, da cui pende un pugnale o una spada dall'elsa tempestata di gemme. Gli altri, scesi da due splendidi cavalli, sono vestiti l'uno di una stoffa rigata, bellissima, in cui predomina il color giallo, fatto quest'abito come un lungo domino ornato di cappuccio e di cordone, che paiono un sol lavoro di filigrana d'oro tanto sono trapunti di ricami in oro. Il terzo ha una camicia setosa, che sbuffa da larghe e lunghe brache strette al piede, e si avvolge in uno scialle finissimo, che pare un giardino fiorito tanto sono vivi i fiori che lo decorano tutto. In testa ha un turbante trattenuto da una catenella tutta a castoni di diamanti. Dopo avere venerato la casa dove è il Salvatore, si rialzano e vanno al caravanserraglio, dove i servi hanno bussato e fatto aprire.
E qui cessa la visione. Che riprende, tre ore dopo, con la scena dell'adorazione dei Magi a Gesù.
E' giorno, ora. Un bel sole splende nel cielo pomeridiano. Un servo dei tre traversa la piazza e sale la scaletta della piccola casa. Entra. Esce. Torna all'albergo. Escono i tre Savi, seguiti ognuno dal proprio servo. Traversano la piazza. I rari passanti si volgono a guardare i pomposi personaggi che passano molto lentamente, con solennità. Fra l'entrata del servo e quella dei tre è passato un buon quarto d'ora, che ha dato modo agli abitanti della casetta di prepararsi a ricevere gli ospiti. Questi sono ancor più riccamente vestiti della sera avanti. Le sete splendono, le gemme brillano, un gran pennacchio di penne preziose, sparse di scaglie ancor più preziose, tremola e sfavilla sul capo di colui che ha il turbante. I servi portano l'uno un cofano tutto intarsiato, le cui rinforzature metalliche sono in oro bulinato; il secondo un lavoratissimo calice, coperto da un ancor più lavorato coperchio tutto d'oro; il terzo una specie di anfora larga e bassa, pure in oro, e tappata da una chiusura fatta a piramide, che al vertice porta un brillante. Devono essere pesanti, perché i servi li portano con fatica, specie quello del cofano.
I tre montano la scala ed entrano. Entrano in una stanza che va dalla strada al dietro della casa. Si vede l'orticello posteriore da una finestra aperta al sole. Delle porte si aprono nelle due altre pareti, e da queste sbirciano coloro che sono i proprietari: un uomo, una donna e tre o quattro fra giovinetti e bimbi.
Maria è seduta col Bambino in grembo ed ha vicino Giuseppe in piedi. Però si alza Ella pure e si inchina quando vede entrare i tre Magi. E' tutta vestita di bianco. Così bella nella sua semplice veste candida che la copre dalla radice del collo ai piedi, dalle spalle ai polsi sottili, così bella nella testina coronata di trecce bionde, nel viso che l'emozione fa più vivamente roseo, negli occhi che sorridono con dolcezza, nella bocca che s'apre al saluto: «Dio sia con voi», che i tre si arrestano un istante colpiti. Poi procedono e le si prostrano ai piedi. E la pregano di sedere.
Essi no, non siedono, per quanto Ella li preghi di farlo. Essi restano in ginocchio, rilassati sui calcagni. Dietro a loro, pure in ginocchio, sono i tre servi. Essi sono subito dopo il limitare. Hanno posato davanti a loro i tre oggetti che portavano, e attendono. I tre Savi contemplano il Bambino, che mi pare possa avere dai nove mesi ad un anno, tanto è vispo e robusto. Egli sta seduto in grembo alla Mamma, e sorride e cinguetta con una vocina di uccellino. E' vestito tutto di bianco come la Mamma, con sandaletti ai piedini minuscoli. Una vestina molto semplice: una tunichella da cui escono i bei piedini irrequieti, le manine grassottelle che vorrebbero afferrare tutto, e soprattutto la bellissima faccina nella quale splendono gli occhi azzurro cupi, e la bocca fa le fossette ai lati ridendo e scoprendo i primi dentini minuti. I ricciolini sembrano una polvere d'oro tanto sono splendenti e vaporosi. Il più vecchio dei Savi parla per tutti. Spiega a Maria che essi hanno visto, una notte del passato dicembre, accendersi una nuova stella nel cielo, di inusitato splendore. Mai le carte del cielo avevano portato quell'astro e parlato di esso. Il suo nome non era conosciuto, perché essa non aveva nome. Nata allora dal seno di Dio, essa era fiorita per dire agli uomini una verità benedetta, un segreto di Dio. Ma gli uomini non le avevano fatto caso, perché avevano l'anima confitta nel fango. Non alzavano lo sguardo a Dio e non sapevano leggere le parole che Egli traccia, ne sia in eterno benedetto, con astri di fuoco sulla volta dei cieli. Essi l'avevano vista e si erano sforzati a capirne la voce. Perdendo contenti il poco sonno che concedevano alle loro membra, dimenticando il cibo, s'erano sprofondati nello studio dello zodiaco. E le congiunzioni degli astri, il tempo, la stagione, il calcolo delle ore passate e delle combinazioni astronomiche avevano a loro detto il nome e il segreto della stella. Il suo nome: «Messia». Il suo segreto: «Essere il Messia venuto al mondo». E si erano partiti per adorarlo. Ognuno all'insaputa dell'altro. Per monti e deserti, per valli e fiumi, viaggiando la notte, erano venuti verso la Palestina, perché la stella andava in tal senso. Per ognuno, da tre punti diversi della terra, andava in tal senso. E si erano trovati poi oltre il Mar Morto. Il volere di Dio li aveva riuniti là, ed insieme avevano proceduto, intendendosi, nonostante ognuno parlasse la sua lingua, e intendendo e potendo parlare la lingua del Paese per un miracolo dell'Eterno. E insieme erano andati a Gerusalemme, poiché il Messia doveva essere il Re di Gerusalemme, il Re dei giudei. Ma la stella si era celata, sul cielo di quella città, ed essi avevano sentito frangersi di dolore il loro cuore e si erano esaminati per sapere se avevano demeritato di Dio. Ma avendoli rassicurati la coscienza, si erano rivolti a re Erode per chiedergli in quale reggia era il nato Re dei giudei che essi erano venuti ad adorare. E il re, convocati i principi dei sacerdoti e gli scribi, aveva chiesto dove poteva nascere il Messia. Ed essi avevano risposto: «A Betlemme di Giuda». Ed essi erano venuti verso Betlemme e la stella era riapparsa ai loro occhi, lasciata la Città santa, e la sera avanti aveva aumentato gli splendori - il cielo era tutto un incendio - e poi si era fermata, adunando tutta la luce delle altre stelle nel suo raggio, sopra questa casa. Ed essi avevano compreso esser lì il Nato divino. Ed ora lo adoravano, offrendo i loro poveri doni e più che altro offrendo il loro cuore, che mai avrebbe cessato di benedire Iddio della grazia concessa e di amare il suo Nato, di cui vedevano la santa Umanità. Dopo sarebbero tornati a riferire al re Erode, perché egli desiderava adorarlo esso pure. «Ecco intanto l'oro come a re si conviene possedere, ecco l'incenso come a Dio si conviene, ed ecco, o Madre, ecco la mirra, poiché il tuo Nato è Uomo oltre che Dio, e della carne e della vita umana conoscerà l'amarezza e la legge inevitabile del morire. Il nostro amore vorrebbe non dirle, queste parole, e pensarlo eterno anche con la carne come eterno è lo Spirito suo. Ma, o Donna, se le nostre carte, e più le nostre anime, non errano, Egli è, il Figlio tuo, il Salvatore, il Cristo di Dio, e perciò dovrà, per salvare la terra, levare su Sé il male della terra, di cui uno dei castighi è la morte. Questa resina è per quell'ora. Perché le carni, che son sante, non conoscano putredine di corruzione e conservino integrità sino alla loro risurrezione. E per questo nostro dono Egli di noi si ricordi, e salvi i suoi servi dando loro il suo Regno». Per intanto, per esserne santificati, Ella, la Madre, dia il suo Pargolo «al nostro amore. Che baciando i suoi piedi scenda in noi benedizione celeste». Maria, che ha superato lo sgomento suscitato dalle parole del Sapiente e ha celato la tristezza della funebre evocazione sotto un sorriso, offre il Bambino. Lo pone sulle braccia del più vecchio, che lo bacia e ne è accarezzato, poi lo passa agli altri due. Gesù sorride e scherza colle catenelle e le frange dei tre, e guarda curiosamente lo scrigno aperto pieno di una cosa gialla che luccica, e ride vedendo che il sole fa un arcobaleno battendo sul brillante del coperchio della mirra. Poi i tre rendono a Maria il Bambino e si alzano. Si alza anche Maria. Si inchinano a vicenda, dopo che il più giovane ha dato un ordine al servo, che esce. I tre parlano ancora un poco. Non sanno decidersi a staccarsi da quella casa. Lacrime di emozione sono negli occhi. Infine si dirigono all'uscita, accompagnati da Maria e Giuseppe. Il Bambino ha voluto scendere e dare la manina al più vecchio dei tre, e cammina così, tenuto per mano da Maria e dal Savio, che si curvano per tenerlo per mano. Gesù ha il passetto ancora incerto dell'infante e ride picchiando i piedini sulla striscia che il sole fa sul pavimento. Giunti alla soglia - non si deve dimenticare che la stanza era lunga quanto la casa - i tre si accomiatano inginocchiandosi ancora una volta e baciando i piedini di Gesù. Maria, curva sul Piccino, gli prende la manina e la guida, facendole fare un gesto di benedizione sul capo di ogni singolo Mago. E' già un seguo di croce tracciato dalle ditine di Gesù, guidate da Maria. Poi i tre scendono la scala. La carovana è già li pronta che attende. Le borchie dei cavalli splendono al sole del tramonto. La gente si è affollata sulla piazzetta a vedere l'insolito spettacolo Gesù ride battendo le manine. La Mamma lo ha sollevato e appoggiato al largo parapetto che limita il pianerottolo e lo tiene con un braccio contro il suo petto perché non caschi. Giuseppe è sceso con i tre e regge ad ognuno la staffa mentre salgono sui cavalli e sul cammello. Ora servi e padroni sono tutti a cavallo. L'ordine di marcia viene dato. I tre si curvano fin sul collo della cavalcatura in un ultimo saluto. Giuseppe si inchina, Maria pure e torna a guidare la manina di Gesù in un gesto di addio e di benedizione.


Dice Gesù:
«Ed ora? Che dirvi ora, o anime che sentite morire la fede? Quei Savi d'oriente non avevano nulla che li assicurasse della verità. Nulla di soprannaturale. Solo il calcolo astronomico e la loro riflessione che una vita integra faceva perfetta. Eppure hanno avuto fede. Fede in tutto: fede nella scienza, fede nella coscienza, fede nella bontà divina. Per la scienza hanno creduto al segno della stella nuova, che non poteva che esser "quella", attesa da secoli dall'umanità: il Messia. Per la coscienza hanno avuto fede nella voce della stessa che, ricevendo "voci" celesti, diceva loro: "E' quella stella che segna l'avvento del Messia". Per la bontà hanno avuto fede che Dio non li avrebbe ingannati e, poiché la loro intenzione era retta, li avrebbe aiutati in ogni modo per giungere allo scopo. E sono riusciti. Essi soli, fra tanti studiosi dei segni, hanno compreso quel segno, perché essi soli avevano nell'anima l'ansia di conoscere le parole di Dio con un fine retto, che aveva a principale pensiero quello di dare subito a Dio lode ed onore. Non cercavano un utile proprio. Anzi vanno incontro a fatiche e spese, e nulla chiedono di compenso che sia umano. Chiedono soltanto che Dio si loro si ricordi e li salvi per l'eternità. Come non hanno nessun pensiero di futuro compenso umano, così non hanno, quando decidono il viaggio, nessuna umana preoccupazione. Voi vi sareste messi mille cavilli: "Come farò a fare tanto viaggio in paesi e fra popoli di lingua diversa? Mi crederanno o mi imprigioneranno come spia? Che aiuto mi daranno nel passare deserti e fiumi e monti? E il caldo? E il vento degli altipiani? E le febbri stagnanti lungo le zone paludose? E le fiumane gonfiate dalle piogge? E il cibo diverso? E il diverso linguaggio? E... e... e". Così ragionate voi. Essi non ragionano così. Dicono con sincera e santa audacia: "Tu, o Dio, ci leggi nel cuore e vedi che fine perseguiamo. Nelle tue mani ci affidiamo. Concedici la gioia sovrumana di adorare la tua Seconda Persona fatta Carne per la salute del mondo". Basta. E si mettono in cammino dalle Indie lontane. (Gesù mi dice poi che per Indie vuol dire l'Asia meridionale, dove ora è Turchestan, Afganistan e Persia). Dalle catene mongoliche sulle quali spaziano unicamente le aquile e gli avvoltoi e Dio parla col rombo dei venti e dei torrenti e scrive parole di mistero sulle pagine sterminate dei nevai. Dalle terre in cui nasce il Nilo e procede, vena verde azzurra, incontro all'azzurro cuore del Mediterraneo, né picchi, né selve, né arene, oceani asciutti e più pericolosi di quelli marini, fermano il loro andare. E la stella brilla sulle loro notti, negando loro di dormire. Quando si cerca Dio, le abitudini animali devono cedere alle impazienze e alle necessità sopraumane. La stella li prende da settentrione, da oriente e da meridione, e per un miracolo di Dio procede per tutti e tre verso un punto, come, per un altro miracolo, li riunisce dopo tante miglia in quel punto, e per un altro dà loro, anticipando la sapienza pentecostale, il dono di intendersi e di farsi intendere così come è nel Paradiso, dove si parla un'unica lingua, quella di Dio. Un unico momento di sgomento li assale quando la stella scompare e, umili perché sono realmente grandi, non pensano che sia per la malvagità altrui che ciò avviene, non meritando i corrotti di Gerusalemme di vedere la stella di Dio. Ma pensano di avere demeritato di Dio loro stessi, e si esaminano con tremore e contrizione già pronta a chiedere perdono. Ma la loro coscienza li rassicura. Anime use alla meditazione, hanno una coscienza sensibilissima, affinata da una attenzione costante, da una introspezione acuta, che ha fatto del loro interno uno specchio su cui si riflettono le più piccole larve degli avvenimenti giornalieri. Ne hanno fatto una maestra, una voce che avverte e grida al più piccolo, non dico errore, ma sguardo all'errore, a ciò che è umano, al compiacimento di ciò che è io. Perciò, quando essi si pongono di fronte a questa maestra, a questo specchio severo e nitido, sanno che esso non mentirà. Ora li rassicura ed essi riprendono Iena. "Oh! dolce cosa sentire che nulla è in noi di contrario a Dio! Sentire che Egli guarda con compiacenza l'animo del figlio fedele e lo benedice. Da questo sentire viene aumento di fede e fiducia, e speranza, e fortezza, e pazienza. Ora è tempesta. Ma passerà, poiché Dio mi ama e sa che lo amo, e non mancherà di aiutarmi ancora". Così parlano coloro che hanno la pace che viene da una coscienza retta, che è regina di ogni loro azione. Ho detto che erano "umili perché erano realmente grandi". Nella vostra vita, invece, che avviene? Che uno, non perché è grande, ma perché è più prepotente, e si fa potente per la sua prepotenza e per la vostra idolatria sciocca, non è mai umile. Ci sono dei disgraziati che, solo per essere maggiordomi di un prepotente, uscieri di un ufficio, funzionari in una frazione, servi insomma di chi li ha fatti tali, si danno delle pose da semidei. E fanno pietà!... Essi, i tre Savi, erano realmente grandi. Per virtù soprannaturali per prima cosa, per scienza per seconda cosa, per ricchezza per ultima cosa. Ma si sentono un nulla, polvere sulla polvere della terra, rispetto al Dio altissimo, che crea i mondi con un suo sorriso e li sparge come chicchi di grano per saziare gli occhi degli angeli coi monili delle stelle. Ma si sentono nulla rispetto al Dio altissimo, che ha creato il pianeta su cui vivono e lo ha fatto variato mettendo, Scultore infinito d'opere sconfinate, qua, con una ditata del suo pollice, una corona di dolci colline, e là un'ossatura di gioghi e di picchi, simili a vertebre della terra, di questo corpo smisurato a cui sono vene i fiumi, bacini i laghi, cuori gli oceani, veste le foreste, veli le nubi, decorazioni i ghiacciai di cristallo, gemme le turchesi e gli smeraldi, gli opali e i berilli di tutte le acque che cantano, con le selve e i venti, il grande coro di laude al loro Signore. Ma si sentono nulla nella loro sapienza rispetto al Dio altissimo, da cui la loro sapienza viene e che ha dato loro occhi più potenti di quelle due pupille per cui vedono le cose: occhi dell'anima, che sanno leggere nelle cose la parola non scritta da mano umana, ma incisa dal pensiero di Dio Ma si sentono nulla nella loro ricchezza: atomo rispetto alla ricchezza del Possessore dell'universo, che sparge metalli e gemme negli astri e pianeti e soprannaturali dovizie, inesauste dovizie, nel cuore di chi l'ama. E, giunti davanti ad una povera casa, nella più meschina delle città di Giuda, essi non crollano il capo dicendo: "Impossibile", ma curvano la schiena, le ginocchia, e specie il cuore, e adorano. Là, dietro quel povero muro, è Dio. Quel Dio che essi hanno sempre invocato, non osando mai, neppur lontanamente, sperare di averlo a vedere. Ma invocato per il bene di tutta l'umanità, per il "loro" bene eterno. Oh! questo solo si auguravano. Di poterlo vedere, conoscere, possedere nella vita che non conosce più albe e tramonti! Egli è là, dietro quel povero muro. Chissà se il suo cuore di Bambino, che è pur sempre il cuore di un Dio, non sente questi tre cuori che, proni nella polvere della via, squillano: "Santo, Santo, Santo. Benedetto il Signore Iddio nostro. Gloria a Lui nei Cieli altissimi e pace ai suoi servi. Gloria, gloria, gloria e benedizione"? Essi se lo chiedono con tremore di amore. E per tutta la notte e la seguente mattina preparano con la preghiera più viva lo spirito alla comunione con il Dio-Bambino. Non vanno a questo altare, che è un grembo verginale portante l'Ostia divina, come voi vi andate con l'anima piena di sollecitudini umane. Essi dimenticano sonno e cibo e, se prendono le vesti più belle, non è per sfoggio umano ma per fare onore al Re dei re. Nelle regge dei sovrani i dignitari entrano con le vesti più belle. E non dovrebbero essi andare da questo Re con le loro vesti di festa? E quale festa più grande di questa per loro? Oh! nelle loro terre lontane, più e più volte si sono dovuti ornare per degli uomini pari a loro. Per far loro festa e onore. Giusto dunque umiliare ai piedi del Re supremo porpore e gioielli, sete e preziose piume. Mettergli ai piedi, ai dolci piccoli piedi, le fibre della terra, le gemme della terra, le piume della terra, i metalli della terra - sono ancora opera sua - perché esse pure, queste cose della terra, adorino il loro Creatore. E sarebbero felici se la Creaturina ordinasse loro di stendersi al suolo e fare un vivo tappeto ai suoi passetti di Bambino, e li calpestasse, Egli che ha lasciato le stelle per loro, polvere, polvere, polvere. Umili e generosi. E ubbidienti alle "voci" dell'Alto. Esse comandano di portare doni al Re neonato. Ed essi portano doni. Non dicono: "Egli è ricco e non ne ha bisogno. E' Dio e non conoscerà la morte". Ubbidiscono. E sono coloro che per primi sovvengono la povertà del Salvatore. Come provvido quell'oro per chi domani sarà fuggiasco! Come significativa quella resina a chi presto sarà ucciso! Come pio quell'incenso a chi dovrà sentire il lezzo delle lussurie umane ribollenti intorno alla sua purezza infinita! Umili, generosi, ubbidienti e rispettosi l'uno dell'altro. Le virtù generano sempre altre virtù. Dalle virtù volte a Dio, ecco le virtù volte al prossimo. Rispetto, che è poi carità. Al più vecchio è deferito di parlare per tutti, di ricevere per primo il bacio del Salvatore, di sorreggerlo per la manina. Gli altri potranno vederlo ancora. Ma egli no. E' vecchio, e prossimo è il suo giorno di ritorno a Dio. Lo vedrà, questo Cristo, dopo la sua straziante morte e lo seguirà, nella scia dei salvati, nel ritorno al Cielo. Ma non lo vedrà più su questa terra. E allora per suo viatico gli rimanga il tepore della piccola mano, che si affida alla sua già rugosa. Nessuna invidia negli altri. Ma anzi un aumento di venerazione per il vecchio sapiente. Ha meritato certo più di loro e per più lungo tempo. Il Dio-Infante lo sa. Ancora non parla, la Parola del Padre, ma il suo atto è parola. E sia benedetta la sua innocente parola, che designa costui come il suo prediletto. Ma, o figli, vi sono altri due insegnamenti da questa visione. Il contegno di Giuseppe che sa stare al "suo" posto. Presente come custode e tutore della Purezza e della Santità. Ma non usurpatore dei diritti di queste. E' Maria col suo Gesù che riceve omaggi e parole. Giuseppe ne giubila per Lei e non si accora d'esser figura secondaria. Giuseppe è un giusto, è il Giusto. Ed è giusto sempre. Anche in quest'ora. I fumi della festa non gli salgono al capo. Resta umile e giusto. E' felice di quei doni. Non per sé. Ma perché pensa che con essi potrà fare più comoda la vita alla Sposa e al dolce Bambino. Non vi è avidità in Giuseppe. Egli è un lavoratore e continuerà a lavorare. Ma che "Loro" i suoi due amori, abbiano agio e conforto. Né lui né i Magi sanno che quei doni serviranno ad una fuga e ad una vita d'esilio, nelle quali le sostanze dileguano come nube percossa dai venti, e ad un ritorno in patria dopo aver tutto perduto, clienti e suppellettili, e salvate solo le mura della casa, protetta da Dio perché là Egli si è congiunto alla Vergine e si è fatto Carne. Giuseppe è umile, egli, custode di Dio e della Madre di Dio e Sposa dell'Altissimo, sino a reggere la staffa a questi vassalli di Dio. E' un povero legnaiuolo, perché la prepotenza umana ha spogliato gli eredi di Davide dei loro averi regali. Ma è sempre stirpe di re ed ha tratti di re. Anche per lui va detto: Era umile perché era realmente grande. Ultimo, soave, indicatore insegnamento. E' Maria che prende la mano di Gesù, che non sa ancora benedire, e la guida nel gesto santo. E' sempre Maria che prende la mano di Gesù e la guida. Anche ora. Ora Gesù sa benedire. Ma delle volte la sua mano trafitta cade stanca e sfiduciata, perché sa che è inutile benedire. Voi distruggete la mia benedizione. Cade anche sdegnata, perché voi mi maledite. E allora è Maria che leva lo sdegno a questa mano col baciarla. Oh! il bacio di mia Madre! Chi resiste a quel bacio? E poi prende con le sue dita sottili, ma così amorosamente imperiose, il mio polso e mi forza a benedire. Non posso respingere mia Madre. Ma bisogna andare da Lei per farla Avvocata vostra. Essa è la mia Regina prima d'esser la vostra, ed il suo amore per voi ha indulgenze che neppure il mio conosce. Ed Essa, anche senza parole ma con le perle del suo pianto e col ricordo della mia Croce, il cui segno mi fa tracciare nell'aria, perora la vostra causa e mi ammonisce: Sei il Salvatore. "Salva". Ecco, figli, il "vangelo della fede" nell'apparizione della scena dei Magi. Meditate e imitate. Per il vostro bene».
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/