"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’,
ma leggetela e fatela leggere"

Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
Evangelo come mi è stato rivelato
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Domenica 2 ottobre 2016, XXVII Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 17,5-10.
Gli apostoli dissero al Signore:
«Aumenta la nostra fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà quando rientra dal campo: Vieni subito e mettiti a tavola?
Non gli dirà piuttosto: Preparami da mangiare, rimboccati la veste e servimi, finché io abbia mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai anche tu?
Si riterrà obbligato verso il suo servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 6 Capitolo 422 pagina 425.
1Il greto biancheggia infatti nella notte illune ma chiarissima di migliaia di stelle, di larghe, inverosimilmente larghe stelle di cielo d’Oriente. Non è il lume intenso come quello della luna, ma è già una fosforescenza dolce che permette, a chi ha l’occhio assuefatto al buio, di vedere dove cammina e ciò che lo circonda. Qui, alla destra dei viandanti che risalgono verso nord costeggiando il fiume, la mite luminosità stellare mostra il limite vegetale fatto di canneti, salici e poi alberi alti e, poiché è lume molto lieve, essi sembrano fare una muraglia compatta, continua, senza interruzione, senza possibilità di penetrazione, appena rotta là dove il letto di un ruscello o di un torrente, completamente disseccati, mette una riga bianca che si addentra verso oriente e scompare alla prima curva del minuscolo affluente ora asciutto. Alla sinistra, invece, i camminatori discernono il luccichio delle acque che scendono verso il mar Morto borbottando, sospirando, frusciando, quiete e serene. E fra la linea lucente delle acque d’indaco, nella notte, e la massa nero-opaca delle erbe, arbusti e alberi, la striscia chiara del greto, dove più larga, dove più stretta, talora interrotta da un minuscolo stagno, residuo della passata piena, ancora dotato di un poco d’acqua in via di riassorbimento e nel quale fanno ciuffo ancor verde le erbe che altrove sono disseccate nell’asciuttore del greto, certo ardente nelle ore di sole.
Gli apostoli sono costretti da questi piccoli stagni, oppure da grovigli di falaschi secchi ma pericolosi come lame al piede seminudo nei sandali, a separarsi ogni tanto per poi riunirsi in gruppo intorno al Maestro loro, che va col suo passo lungo, sempre maestoso, tacendo per lo più, con lo sguardo levato alle stelle più che curvato al suolo. Gli apostoli no, non tacciono. Parlano fra di loro, riepilogando gli avvenimenti della giornata, traendone conclusioni oppure prevedendone gli svolgimenti futuri. Qualche rara parola di Gesù, sovente detta per rispondere a una diretta domanda oppure per correggere qualche ragione storta o non caritativa, punteggia il chiacchiericcio dei dodici. E il cammino procede nella notte, ritmando il silenzio notturno di un elemento nuovo su quelle rive deserte: le voci umane e lo scalpiccio dei passi. E tacciono gli usignoli fra le fronde, stupiti che suoni discordi e aspri si mescolino, turbando, all’abituale rumore delle acque e delle brezze, soliti accompagnamenti ai loro a-soli virtuosi.
2Ma una domanda diretta, non concernente ciò che è stato ma ciò che deve avvenire, rompe con la violenza di una ribellione, oltre che col tono più acuto delle voci agitate da sdegno o da ira, la pace non solo della notte ma quella più intima dei cuori. Filippo domanda se e fra quanti giorni saranno alle loro case. Un latente bisogno di riposo, un non detto ma sottinteso desiderio di affetti famigliari è nella semplice domanda dell’apostolo già anzianotto, che è marito e padre oltre che apostolo, che ha degli interessi da curare…
Gesù sente tutto questo e si volge a guardare Filippo, si ferma per attenderlo, essendo Filippo un poco indietro con Matteo e Natanaele, e avutolo vicino lo cinge con un braccio dicendogli: «Presto, amico mio. Però chiedo alla tua bontà un altro piccolo sacrificio, sempre che* tu non ti voglia separare prima da Me…».
«Io? Separarmi? Mai!».
«E allora… ti allontano di ancor qualche tempo da Betsaida. Io voglio andare a Cesarea Marittima passando per la Samaria. Al ritorno andremo a Nazaret e resteranno con Me quelli che sono senza famiglia in Galilea. Poi, dopo qualche tempo, vi raggiungerò a Cafarnao… E là vi evangelizzerò per farvi più ancora capaci. Ma se tu credi che la tua presenza a Betsaida sia necessaria… va’ pure, Filippo. Ci ritroveremo là…».
«No, Maestro. È più necessario stare con Te! Ma sai… È dolce la casa… e le figlie… Penso che non le avrò molto con me in futuro… e vorrei godere un poco della loro casta dolcezza. Ma se devo scegliere fra loro e Te, scelgo Te… e per più motivi…» termina sospirando Filippo.
«E bene fai, amico. Perché Io ti sarò tolto prima delle figlie tue…».
«Oh! Maestro!…» dice con pena l’apostolo.
«Così è, Filippo» termina Gesù baciando sulla tempia l’apostolo.
3Giuda Iscariota, che ha borbottato fra i denti da quando Gesù ha nominato Cesarea, alza la voce come se vedere il bacio dato a Filippo gli facesse perdere il controllo delle sue azioni. E dice: «Quante cose inutili! Io non so proprio che necessità ci sia di andare a Cesarea!», e lo dice con un’irruenza piena di bile; pare voglia sottintendere: «e Tu che ci vai sei uno stolto».
«Non sei tu che devi giudicare delle necessità delle cose che facciamo, ma il Maestro» gli risponde Bartolomeo.
«Sì, eh? Quasi che Lui vedesse chiare le necessità naturali!».
«Ohè! Sei folle o sei sano? Sai di chi parli?» gli chiede Pietro scuotendolo per un braccio.
«Non sono folle. Sono l’unico che ho il cervello sano. E so ciò che mi dico».
«Belle cose che dici!», «Prega Dio che non te le calcoli!», «La modestia non ti è amica!», «Si direbbe che hai paura che ti si possa conoscere per quel che sei, andando a Cesarea» dicono insieme e rispettivamente Giacomo di Zebedeo, Simone Zelote, Tommaso e Giuda d’Alfeo.
L’Iscariota si rivolta verso quest’ultimo: «Non ho nulla da temere e voi non avete nulla da conoscere. Ma io sono stanco di vedere che si passa di errore in errore e ci si rovina. Urti coi sinedristi, dispute coi farisei. Ora ci mancano i romani…».
«Come? Ma se non sono due lune che tu eri esaltato di gioia, eri sicuro, eri, eri, eri… tutto eri perché avevi amica Claudia!» osserva ironico Bartolomeo che, essendo il più… intransigente, è quello che solo per ubbidienza al Maestro non si ribella a contatti con i romani.
Giuda resta per un momento ammutolito perché la logica della ironica domanda è evidente e, a meno di non apparire illogici, non si può smentire ciò che si era detto prima. Ma poi si riprende: «Non è per i romani che dico questo. Voglio dire per i romani come nemici. Esse, perché in fondo non sono che quattro donne romane, quattro, cinque, sei al massimo, esse ci hanno promesso aiuto e lo daranno. 4Ma è perché ciò aumenterà l’astio dei nemici suoi, e Lui non lo capisce e…».
«Il loro astio è completo, Giuda. E tu lo sai come Me e anche meglio di Me» dice calmo Gesù, calcando sul «meglio».
«Io? Io? Che vuoi dire? Chi sa le cose meglio di Te?».
«Or ora hai detto che tu solo conosci le necessità e il come usare in esse…» gli ribatte Gesù.
«Ma per le cose naturali, sì. Io dico che Tu conosci le cose spirituali meglio di tutti».
«Ciò è vero. Ma appunto ti dicevo che tu conosci meglio di Me le cose, brutte se vuoi, avvilenti se vuoi, naturali, quali l’astio dei miei nemici, quali i loro propositi…».
«Io non so nulla! Nulla so io. Lo giuro sulla mia anima, su mia madre, su Jeové…».
«Basta! È detto di non giurare» intima Gesù con una severità che pare indurirgli persino i tratti del volto in una perfezione di statua.
«Ebbene non giurerò. Ma mi sarà lecito dire, perché non sono uno schiavo, che non è necessario, che non è utile, che è anzi pericoloso andare a Cesarea, parlare con le romane…».
«E chi ti dice che ciò avverrà?» chiede Gesù.
«Chi? Ma tutto! Tu hai bisogno di sincerarti di una cosa. Tu sei sulle peste di una…», si ferma comprendendo che l’ira lo fa troppo parlare. 5Poi riprende: «Ed io ti dico che Tu dovresti pensare anche ai nostri interessi. Tu ci hai levato tutto. Casa, guadagni, affetti, tranquillità. Siamo dei perseguitati in causa tua e lo saremo anche dopo. Perché Tu, lo dici in tutti i modi, un bel momento te ne andrai. Ma noi restiamo. Ma noi resteremo rovinati, ma noi…».
«Tu non sarai perseguitato dopo che Io non sarò fra voi. Te lo dico Io, che sono la Verità. E ti dico che Io ho preso ciò che spontaneamente, insistentemente mi avete dato. Dunque non mi puoi accusare di avervi levato con prepotenza uno solo dei capelli che vi cadono quando li ravviate. Perché mi accusi?». Gesù è già meno severo, è adesso di una mestizia che vuoI ricondurre con dolcezza alla ragione, e credo che questa sua misericordia, così piena, così divina, sia freno agli altri che non l’avrebbero, no, per il colpevole.
Anche Giuda sente questo e, con uno di quei bruschi trapassi della sua anima presa da due forze contrarie, si getta a terra colpendosi al capo, al petto e urlando: «Perché sono un demonio. Un demonio io sono. Salvami, Maestro, come salvi tanti indemoniati, Salvami! Salvami!».
«Non sia inerte la tua volontà di esser salvato».
«C’è. Lo vedi. Io voglio essere salvato».
«Da Me. Pretendi che Io faccia tutto. Ma Io sono Dio e rispetto il tuo libero arbitrio. Ti darò le forze per giungere a “volere”. Ma volere non essere schiavo deve venire da te».
«Lo voglio! Lo voglio! Ma non andare a Cesarea! Non andare! 6Ascolta me come* hai ascoltato Giovanni quando volevi andare ad Acor. Abbiamo tutti gli stessi diritti. Ti serviamo tutti ugualmente. Tu hai l’obbligo di accontentarci per quello che facciamo… Trattami come Giovanni! Lo voglio! Che c’è di diverso fra me e lui?».
«L’animo c’è! Mio fratello non avrebbe mai parlato come tu parli. Mio fratello non…».
«Silenzio, Giacomo. Parlo Io. E a tutti. E tu alzati e procedi da uomo, quale Io ti tratto, non da schiavo gemente ai piedi del padrone. Sii uomo, posto che tanto ci tieni ad essere trattato come Giovanni, il quale, in verità, è da più di un uomo, perché è casto ed è saturo di Carità. Andiamo. È tardi. E all’alba voglio passare il fiume. A quell’ora rientrano i pescatori che hanno ritirato le nasse ed è facile trovare un traghetto. La luna nei suoi ultimi giorni alza sempre più il suo arco sottile. Possiamo, alla sua aumentata luce, andare più spediti.
7Udite. In verità vi dico che nessuno deve vantarsi di fare il proprio dovere ed esigere per questo, che è un obbligo, speciali favori.
Giuda ha ricordato che tutto mi avete dato. E mi ha detto che per questo Io ho il dovere di accontentarvi per quello che fate. Ma sentite un po’. Fra voi sono dei pescatori, dei possidenti di terra, più d’uno che ha un’officina, e lo Zelote che aveva un servo. Orbene. Quando i garzoni della barca, o gli uomini che come servi vi aiutavano nell’uliveto, vigneto, o fra i campi, o gli apprendisti dell’officina, o semplicemente il servo fedele che curava la casa e la mensa, finivano i loro lavori, voi vi mettevate forse a servirli? E così non è in tutte le case e le incombenze? Chi degli uomini, avendo un servo ad arare o a pascere, o un operaio nell’officina, gli dice quando finisce il lavoro: “Va’ subito a tavola”? Nessuno. Ma, sia che torni dai campi, come che abbia deposto gli arnesi del lavoro, ogni padrone dice: “Fammi da mangiare, ripulisciti, e con veste pulita e cinta servimi mentre io mangio e bevo. Dopo mangerai e berrai tu”. Né si può dire che ciò sia durezza di cuore. Perché il servo deve servire il padrone, né il padrone gli resta obbligato perché il servo ha fatto ciò che al mattino il padrone aveva ordinato. Perché, se è vero che il padrone ha il dovere di essere umano col proprio servo, così il servo ha il dovere di non essere infingardo e dilapidatore, ma di cooperare al benessere del padrone che lo veste e lo sfama. Sopportereste voi che i vostri garzoni di barca, i contadini, gli operai, il servo di casa, vi dicessero: “Servimi perché io ho lavorato”? Non credo.
Così anche voi, guardando ciò che avete fatto e che fate per Me - e, in futuro, guardando ciò che farete per continuare la mia opera e continuare a servire il Maestro vostro - dovete sempre dire, perché vedrete anche che avete sempre fatto
molto meno di quanto era giusto fare per essere a pari col molto avuto da Dio: “Siamo servi inutili, perché non abbiamo fatto che il nostro dovere”. Se così ragionerete, vedrete che non sentirete più pretese e malumori sorgere in voi, e agirete con giustizia».
Gesù tace. Tutti riflettono.
8Pietro urta col gomito Giovanni, che riflette tenendo gli occhi celesti fissi sulle acque che dal color indaco passano ad un argento azzurro per la luna che le tocca, e gli dice: «Chiedigli quando è che uno fa più che il suo dovere. Vorrei giungere a fare di più del mio dovere, io…».
«Io pure, Simone. Pensavo proprio a questo» gli risponde Giovanni col suo bel sorriso sulle labbra, e chiede forte: «Maestro, dimmi: l’uomo tuo servo non potrà mai fare più del suo dovere, per dirti con questo “più” che ti ama completamente?».
«Fanciullo, Dio ti ha dato tanto che, per giustizia, ogni tuo eroismo sarebbe sempre poco. Ma il Signore è così buono che misura ciò che gli date non con la sua misura infinita. Lo misura con la misura limitata della capacità umana. E quando vede che avete dato senza parsimonia, con una misura colma, traboccante, generosa, allora dice: “Questo mio servo mi ha dato più di quanto era suo dovere. Perciò Io gli darò la superabbondanza dei miei premi”».
«Oh! come sono contento! Io allora ti darò misura straripante per avere questa sovrabbondanza!» esclama Pietro.
«Sì. Tu me la darai. Voi me la darete. Tutti quelli che sono amanti della Verità, della Luce, me la daranno. E con Me saranno soprannaturalmente felici».
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 25 settembre 2016, XXVI Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 16,19-31.
C'era un uomo ricco, che vestiva di porpora e di bisso e tutti i giorni banchettava lautamente.
Un mendicante, di nome Lazzaro, giaceva alla sua porta, coperto di piaghe,
bramoso di sfamarsi di quello che cadeva dalla mensa del ricco. Perfino i cani venivano a leccare le sue piaghe.
Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli nel seno di Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto.
Stando nell'inferno tra i tormenti, levò gli occhi e vide di lontano Abramo e Lazzaro accanto a lui.
Allora gridando disse: Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e bagnarmi la lingua, perché questa fiamma mi tortura.
Ma Abramo rispose: Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti.
Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi.
E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre,
perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento.
Ma Abramo rispose: Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro.
E lui: No, padre Abramo, ma se qualcuno dai morti andrà da loro, si ravvederanno.
Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 3 Capitolo 191 pagina 231.
“Consegna a Michea tanto denaro che domani egli possa ricompensare quanto oggi si è fatto prestare dai contadini di questa zona”, dice Gesù a Giuda Iscariota, che generalmente amministra le… sostanze comuni.
E poi Gesù chiama Andrea e Giovanni e li manda in due punti in cui si può vedere la strada o le strade che vengono da Jezrael. Chiama poi Pietro e Simone e li manda incontro ai contadini di Doras con l’ordine di fermarli presso il confine fra le due proprietà.
Infine dice a Giacomo e Giuda: “Prendete le cibarie e venite”.
Li seguono i contadini di Giocana, donne, uomini e bambini, e gli uomini portano due piccole anfore, piccole per modo di dire, che devono essere colme di vino. Più che anfore sono giarre e conterranno su per giù quei dieci litri ognuna. (Prego sempre non prendere le mie misure per articolo di fede). Vanno là dove un folto vigneto, già tutto coperto di foglie novelle, indica la fine dei possessi di Giocana. Oltre vi è un largo fossato, mantenuto pieno d’acqua con chissà che fatica.
“Vedi? Giocana si è litigato con Doras per questo. Giocana diceva: “Colpa di tuo padre se tutto è rovina. Se non lo voleva adorare, almeno lo doveva temere e non provocare”. E Doras urlava, pareva un demonio: “Tu ti sei salvato le terre per questo fosso. Le bestie non l’hanno varcato…”. E Giocana diceva: “E allora come a te tanta rovina mentre prima i tuoi campi erano i più belli di Esdrelon? È il castigo di Dio, credilo. Avete passato la misura. Quest’acqua?… C’è sempre stata e non è essa che mi ha salvato”. E Doras urlava: “Questo prova che Gesù è un demonio”. “È un giusto”, urlava Giocana. E sono andati avanti per un pezzo, finché ebbero fiato, e dopo Giocana fece con grande spesa derivare acque dal torrente e scavare per cercare altre acque nel suolo e fare tutto un ordine di fossi a confine fra lui e il parente e li fece fare più fondi, e a noi disse quello che ti abbiamo detto ieri… In fondo lui è felice di quanto è accaduto. Era tanto invidioso di Doras… Ora spera poter comperare tutto, perché Doras finirà col vendere tutto per due spiccioli”.
Gesù ascolta con benignità tutte queste confidenze e intanto attende i poveri contadini di Doras, che non tardano a venire e che si prostrano al suolo non appena vedono Gesù al riparo di un albero.
“Pace a voi, amici. Venite. Oggi la sinagoga è qui ed Io sono il vostro sinagogo. Ma prima voglio essere il vostro padre di famiglia. Sedete in cerchio, che vi dia un cibo. Oggi avete lo Sposo, e facciamo convito di nozze”.
E Gesù scopre una cesta e ne trae pani che dà agli stupiti contadini di Doras, e dall’altra leva quelle cibarie che ha potuto trovare: formaggi, verdure che ha fatto cucinare e un piccolo caprettino o agnellino, cotto intero, che spartisce ai poveri disgraziati, poi versa il vino e fa circolare il rozzo calice perché tutti bevano.
“Ma perché? Ma perché? E loro?”, dicono quelli di Doras accennando a quelli di Giocana.
“Loro hanno già avuto”.
“Ma che spesa! Come hai potuto?”.
“Ci sono ancora dei buoni in Israele”, dice Gesù sorridendo.
“Ma oggi è sabato…”.
“Ringraziate quest’uomo”, dice Gesù accennando all’uomo di Endor. “È lui che ha procurato l’agnello. Il resto fu facile averlo”.
Quei poveretti divorano — è la parola — il cibo da tanto sconosciuto.
Vi è uno, piuttosto vecchio, che si stringe al fianco un fanciullo di un dieci anni circa; mangia e piange.
“Perché, padre, fai così?…”, chiede Gesù.
“Perché la tua bontà è troppa…”.
L’uomo di Endor dice con la sua voce gutturale: “È vero… e fa piangere. Ma il pianto è senza amaro…”.
“È senza amaro. È vero. E poi… io vorrei una cosa. È anche desiderio questo pianto”.
“Che vuoi, padre?”.
“Questo fanciullo lo vedi? È mio nipote. Mi è rimasto dopo la frana di questo inverno. Doras neppure sa che mi ha raggiunto, perché lo faccio vivere come una bestia selvatica nel bosco e solo al sabato lo vedo. Se me lo scopre, o lo caccia o lo mette al lavoro… e sarà peggio di un animale da soma questo tenero mio sangue… A Pasqua lo manderò con Michea a Gerusalemme per divenire figlio della Legge… e poi?… È il figlio di mia figlia…”.
“Lo daresti a Me, invece? Non piangere. Ho tanti amici che sono onesti, santi e senza figli. Lo alleveranno santamente, nella mia via…”.
“Oh! Signore! Da quando ho saputo di Te l’ho desiderato. E pregavo il santo Giona, lui che sa cosa è essere di questo padrone, di salvare il mio nipote da questa morte…”.
“Fanciullo, verresti con Me?”.
“Sì, mio Signore. E non ti darò dolore”.
“È detto”.
“Ma… a chi lo vuoi dare?”, chiede Pietro tirando Gesù per una manica. “A Lazzaro anche questo?”.
“No, Simone. Ma ce ne sono tanti senza figli…”.
“Ci sono anche io…”. Il viso di Pietro pare fino affilarsi nel desiderio.
“Simone, te l’ho detto. Tu devi essere il “padre” di tutti i figli che Io ti lascerò in eredità. Ma non devi avere la catena di nessun figlio tuo proprio. Non ti mortificare. Tu sei troppo necessario al Maestro perché il Maestro possa staccarti da Sé per un affetto. Sono esigente, Simone. Sono esigente più di uno sposo gelosissimo. Ti amo con ogni predilezione e ti voglio tutto per Me e di Me”.
“Va bene, Signore… Va bene… Sia fatto come Tu vuoi”. Il povero Pietro è eroico nel suo aderire a questa volontà di Gesù.
“Sarà il figlio della mia nascente Chiesa. Va bene? Di tutti e di nessuno. Sarà il “nostro” bambino. Ci seguirà quando lo permetteranno le distanze, o ci raggiungerà, e suoi tutori saranno i pastori, loro che amano nei bambini tutti il “loro” bambino Gesù. Vieni qui, fanciullo. Come ti chiami?”.
“Jabé di Giovanni, e son di Giuda”, dice sicuro il ragazzo.
“Sì. Siamo giudei noi”, conferma il vecchio. “Io lavoravo nelle terre di Doras in Giudea, e mia figlia si è sposata con un di quelle parti. Lavorava ai boschi presso Arimatea e -quest’in-ver-no…”.
“Ho visto la sventura”.
“Il fanciullo si è salvato perché quella notte era da un parente lontano… Veramente si è portato il nome, Signore! L’ho detto subito a mia figlia: “Perché? Non ricordi l’antico?”. Ma il marito volle chiamarlo così, e Jabé fu”.
“Il fanciullo invocherà il Signore e il Signore lo benedirà e dilaterà i suoi confini, e la mano del Signore è sulla sua mano, ed egli non sarà più oppresso dal male”. Questo gli concederà il Signore per consolare te, padre, gli spiriti dei morti, e confortare l’orfano.
Ed ora che abbiamo separato il bisogno del corpo da quello dell’anima con un atto di amore al fanciullo, ascoltate la parabola che ho pensata per voi.
Vi era un tempo un uomo molto ricco. Le vesti più belle erano le sue, e nei suoi abiti di porpora e di bisso si pavoneggiava nelle piazze e nella sua casa, riverito dai cittadini come il più potente del paese, e dagli amici che lo secondavano nella sua superbia per averne utile. Le sue sale erano aperte ogni giorno in splendidi banchetti in cui la folla degli invitati, tutti ricchi, e perciò non bisognosi, si pigiavano adulando il ricco Epulone. I suoi banchetti erano celebri per abbondanza di cibi e di vini -prelibati.
Ma nella stessa città vi era un mendico, un grande mendico. Grande nella sua miseria come l’altro era grande nella sua ricchezza. Ma sotto la crosta della miseria umana del mendico Lazzaro vi era celato un tesoro ancor più grande della miseria di Lazzaro e della ricchezza dell’Epulone. Ed era la santità vera di Lazzaro. Egli non aveva mai trasgredito alla Legge, neppure sotto la spinta del bisogno, e soprattutto aveva ubbidito al precetto dell’amore verso Dio e verso il prossimo.
Egli, come sempre fanno i poveri, si accostava alle porte dei ricchi per chiedere l’obolo e non morire di fame. E andava ogni sera alla porta dell’Epulone sperando averne almeno le briciole dei pomposi banchetti che avvenivano nelle ricchissime sale. Si sdraiava sulla via, presso la porta, e paziente attendeva. Ma se l’Epulone si accorgeva di lui lo faceva scacciare, perché quel corpo coperto di piaghe, denutrito, in vesti lacere, era una vista troppo triste per i suoi convitati. L’Epulone diceva così. In realtà era perché quella vista di miseria e di bontà era un rimprovero continuo per lui.
Più pietosi di lui erano i suoi cani, ben pasciuti, dai preziosi collari, che si accostavano al povero Lazzaro e gli leccavano le piaghe, mugolando di gioia per le sue carezze, e giungevano a portargli gli avanzi delle ricche mense, per cui Lazzaro sopravviveva alla denutrizione per merito degli animali, perché per mezzo dell’uomo sarebbe morto, non concedendogli l’uomo neppure di penetrare nella sala dopo il convito per raccogliere le briciole cadute dalle mense.
Un giorno Lazzaro morì. Nessuno se ne accorse sulla Terra, nessuno lo pianse. Anzi ne giubilò l’Epulone di non vedere quel giorno né poi quella miseria che egli chiamava “obbrobrio” sulla sua soglia. Ma in Cielo se ne accorsero gli angeli. E al suo ultimo anelito, nella sua tana fredda e spoglia, erano presenti le coorti celesti, che in un folgoreggiare di luci ne raccolsero l’anima portandola con canti di osanna nel seno di Abramo.
Passò qualche tempo e morì l’Epulone. Oh! che funerali fastosi! Tutta la città, che già sapeva della sua agonia e che si pigiava sulla piazza dove sorgeva la sua dimora per essere notata come amica del grande, per curiosità, per interesse presso gli eredi, si unì al cordoglio, e gli ululi salirono al cielo e con gli ululi del lutto le lodi bugiarde al “grande”, al “benefattore”, al “giusto” che era morto.
Può parola d’uomo mutare il giudizio di Dio? Può apologia umana cancellare quanto è scritto sul libro della Vita? No, non può. Ciò che è giudicato è giudicato, e ciò che è scritto è scritto. E, nonostante i funerali solenni, l’Epulone ebbe lo spirito sepolto nell’Inferno.
Allora, in quel carcere orrendo, bevendo e mangiando fuoco e tenebre, trovando odio e torture in ogni dove e in ogni attimo di quella eternità, alzò lo sguardo al Cielo. Al Cielo che aveva visto in un bagliore di folgore, in un atomo di minuto, e la cui non dicibile bellezza gli rimaneva presente ad essere tormento fra i tormenti atroci. E vide lassù Abramo. Lontano, ma fulgido, beato… e nel suo seno, fulgido e beato pure egli, era Lazzaro, il povero Lazzaro un tempo spregiato, repellente, misero, ed ora?… Ed ora bello della luce di Dio e della sua santità, ricco dell’amore di Dio, ammirato non dagli uomini ma dagli angeli di Dio.
Epulone gridò piangendo: “Padre Abramo, abbi pietà di me! Manda Lazzaro, poiché non posso sperare che tu stesso lo faccia, manda Lazzaro ad intingere la punta del suo dito nell’acqua e a posarla sulla mia lingua per rinfrescarla, perché io spasimo per questa fiamma che mi penetra di continuo e mi arde!”.
Abramo rispose: “Ricordati, figlio, che tu avesti tutti i beni in vita, mentre Lazzaro ebbe tutti i mali. E lui seppe del male fare un bene, mentre tu non sapesti dei tuoi beni fare nulla che male non fosse. Perciò è giusto che ora lui sia qui consolato e che tu soffra. Inoltre non è più possibile farlo. I santi sono sparsi sulla Terra perché gli uomini di loro se ne avvantaggino. Ma quando, nonostante ogni vicinanza, l’uomo resta quello che è — nel tuo caso, un demonio — è inutile poi ricorrere ai santi. Ora noi siamo separati. Le erbe sul campo sono mescolate. Ma una volta che sono falciate vengono separate dalle buone le malvagie. Così è di voi e di noi. Fummo insieme sulla Terra e ci cacciaste, ci tormentaste in tutti i modi, ci dimenticaste, contro l’amore. Ora siamo divisi. Tra voi e noi c’è un tale abisso che quelli che vogliono passare da qui a voi non possono, né voi, che lì siete, potete valicare l’abisso tremendo per venire a noi”.
Epulone piangendo più forte gridò: “Almeno, o padre santo, manda, io te ne prego, manda Lazzaro a casa di mio padre. Ho cinque fratelli. Non ho mai capito l’amore neppure fra parenti. Ma ora, ora comprendo cosa è di terribile essere non amati. E, poi che qui dove io sono è l’odio, ora ho capito, per quell’atomo di tempo che vide la mia anima Iddio, cosa è l’Amore. Non voglio che i miei fratelli soffrano le mie pene. Ho terrore per loro che fanno la mia stessa vita. Oh! manda Lazzaro ad avvertirli di dove io sono, e perché ci sono, e a dire loro che l’Inferno è, ed è atroce, e che chi non ama Dio e il prossimo all’Inferno viene. Mandalo! Che in tempo provvedano, e non abbiano a venire qui, in questo luogo di eterno tormento”.
Ma Abramo rispose: “I tuoi fratelli hanno Mosè ed i Profeti. Ascoltino quelli”.
E con gemito di anima torturata rispose l’Epulone: “Oh! padre Abramo! Farà loro più impressione un morto… Ascoltami! Abbi pietà!”.
Ma Abramo disse: “Se non hanno ascoltato Mosè ed i Profeti, non crederanno nemmeno ad uno che risusciti per un’ora dai morti per dire loro parole di Verità. E d’altronde non è giusto che un beato lasci il mio seno per andare a ricevere offese dai figli del Nemico. Il tempo delle ingiurie per esso è passato. Ora è nella pace e vi sta, per ordine di Dio che vede l’inutilità di un tentativo di conversione presso coloro che non credono neppure alla parola di Dio e non la mettono in pratica”.
Questa la parabola, il cui significato è così chiaro da non meritare neppure una spiegazione.
Qui veramente è vissuto conquistando la santità il Lazzaro novello, il mio Giona, la cui gloria presso Dio è palese nella protezione che dà a chi spera in Lui. A voi sì che Giona può venire, protettore e amico, e ci verrà se sarete sempre buoni.
Io vorrei, e dico a voi ciò che dissi a lui la scorsa primavera, Io vorrei potervi tutti aiutare, anche materialmente, ma non posso, ed è il mio dolore. Non posso che additarvi il Cielo. Non posso che insegnarvi la grande sapienza della rassegnazione promettendovi il Regno futuro. Non odiate mai, per nessuna ragione. L’Odio è forte nel mondo. Ma ha sempre un limite l’Odio. L’Amore non ha limite di potenza né di tempo. Amate perciò, per possederlo a difesa e conforto sulla Terra e a premio in Cielo. Meglio essere Lazzari che Epuloni, credetelo. Giungete a crederlo e sarete beati.
Non sentite nel castigo di questi campi una parola d’odio, anche se i fatti lo potevano giustificare. Non leggete male nel miracolo. Io sono l’Amore e non avrei colpito. Ma, visto che l’Amore non poteva piegare l’Epulone crudele, l’ho abbandonato alla Giustizia, ed essa ha fatto le vendette del martire Giona e dei suoi fratelli. Voi imparate questo dal miracolo. Che la Giustizia è sempre vigile anche se pare assente e che, essendo Dio Padrone di tutto il creato, si può servire, per l’applicazione di essa, dei minimi quali i bruchi e le formiche per mordere il cuore del crudele e dell’avido e farlo morire in un rigurgito di veleno che lo strozza.
Io vi benedico, ora. Ma per voi pregherò ogni nuova aurora. E tu, padre, non avere più affanno per l’agnello che mi affidi. Te lo riporterò ogni tanto perché tu possa giubilare vedendolo crescere in sapienza e bontà sulla via di Dio. Sarà il tuo agnello di questa tua povera Pasqua, il più gradito degli agnelli presentati all’altare di Geové. Jabé, saluta il vecchio padre e poi vieni al tuo Salvatore, al tuo Pastore buono. La pace sia con voi!”.
“Oh! Maestro! Maestro buono! Lasciarti!…”.
“Sì. È penoso. Ma non è bene che il sorvegliante qui vi trovi. Sono venuto apposta qui per evitarvi punizioni. Ubbidite per amore all’Amore che vi consiglia”.
I disgraziati si alzano con le lacrime agli occhi e vanno alla loro croce. Gesù li benedice ancora e poi, con la mano del fanciullo nella sua, e con l’uomo di Endor dall’altro lato, torna per la via già fatta alla casa di Michea, raggiunto da Andrea e da Giovanni che, finito il loro turno di guardia, si ricongiungono ai confratelli.
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 18 settembre 2016, XXV Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 16,1-13.
Diceva anche ai discepoli: «C'era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi.
Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore.
L'amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno.
So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua.
Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo:
Tu quanto devi al mio padrone? Quello rispose: Cento barili d'olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta.
Poi disse a un altro: Tu quanto devi? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta.
Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce.
Ebbene, io vi dico: Procuratevi amici con la disonesta ricchezza, perché, quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne.
Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto.
Se dunque non siete stati fedeli nella disonesta ricchezza, chi vi affiderà quella vera?
E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?
Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire a Dio e a mammona».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 6 Capitolo 381 pagina 149.
1Molta folla è in attesa del Maestro ed è sparsa per le pendici più basse di un monte piuttosto isolato, perché emergente da un intreccio di valli che lo circondano e dalle quali le sue pendici sorgono, meglio, balzano dirute, a picco quasi, in certi posti proprio a picco. Per giungere alla cima, un sentiero intagliato nella roccia calcarea graffia le coste del monte con una serpentina, che in certi posti ha per confine da un lato la parete diritta del monte, dall’altro il precipizio che scoscende. E lo scabro sentiero giallastro cupo, tendente quasi al rossastro, pare un nastro gettato fra il verde polveroso di bassi cespugli spinosi, tutti aculei; direi che le foglie sono gli aculei stessi che coprono le pietrose e aride pendici, infioccandosi qua e là di un fiore vivace viola-rosso, simile ad un pennacchio o ad un batuffolo di seta strappato alle vesti di qualche malcapitato, passato per quella prunaia. E questa veste tormentosa, fatta di punte spinose, di un verde glauco, triste come fosse sparso di impalpabile cenere, si propaga per strisce anche alle basi del monte e nella pianura fra il monte e altri monti, tanto a nord-ovest come a sud-est, alternandosi ai primi posti dove sia vera erba e veri arbusti che non siano tortura e inutilità.
La gente si è accampata su questi e attende paziente la venuta del Signore. Deve essere il giorno seguente al discorso agli apostoli, perché è fresca mattina e la rugiada non si è ancora evaporata su tutti gli steli. Specie in quelli più in ombra, ancora decora di sé spini e foglie, e tramuta in un fiocco diamantato i bizzarri fiori degli spinosi arbusti. L’ora della bellezza certo per il triste monte. Perché nelle altre ore, sotto il sole spietato o nelle notti lunari, deve avere l’orrido aspetto di un luogo di espiazione infernale.
All’est, una ricca e vasta città si vede nella pianura fertilissima. E non si vede altro da questa costa, bassa ancora, dove sono i pellegrini, ma dalla cima l’occhio deve godere di una vista impareggiabile sulle zone vicine. Io credo che, per l’altezza del monte, si dovrebbe spaziare sul mar Morto e le zone a oriente di esso, come pure fino alle catene della Samaria e a quelle che nascondono Gerusalemme. Ma io sulla vetta non ci sono stata, e perciò...
Gli apostoli circolano fra la folla cercando di tenerla quieta e ordinata, di mettere nei posti migliori i malati. Dei discepoli, forse quelli operanti nella zona e che avevano guidato presso i confini della Giudea i pellegrini vogliosi di sentire il Maestro, li aiutano a fare questo.

2L’apparizione di Gesù, bianco-vestito di lino ma ammantellato del rosso mantello per conciliare il caldo delle ore solari col fresco delle notti non ancora estive, è subitanea. Egli guarda, non visto, la gente che lo attende, e sorride. Pare provenire dal dietro (ovest) del monte, da una mezza altezza, e scende rapido per il sentieruolo difficile.
È un fanciullo che, non so se per seguire un volo di uccelli annidati fra i cespugli e alzatisi a volo spaventati da un sasso che rotola dall’alto, o per attrazione di sguardo, vede Gesù e grida balzando in piedi: «Il Signore!».
Tutti si volgono e vedono Gesù, ormai lontano un duecento metri al massimo. Fanno per correre a Lui, ma Egli, con il gesto delle braccia e la voce che giunge netta, forse per eco di monte, dice: «Rimanete dove siete». E sempre sorridendo scende fino a chi attende, fermandosi al punto più alto del pianoro. Di lì saluta: «La pace a voi tutti», e con un particolare sorriso ripete il saluto agli apostoli e discepoli che gli si sono stretti intorno.
Gesù è raggiante di bellezza. Col sole in fronte e la costa verdastra del monte alle spalle, pare una visione di sogno. Le ore passate in solitudine, qualche fatto a noi ignoto, forse uno straripare su Lui delle paterne carezze, non so che, accentuano la sua sempre perfetta bellezza, la fanno gloriosa e imponente, pacifica, serena, direi ilare, come di chi torna da un convegno d’amore e seco porta la letizia di esso in tutto l’aspetto, nel sorriso, negli sguardi. Qui la testimonianza di questo convegno d’amore, che è divino, traluce moltiplicata per cento e cento di quanto solitamente è visibile dopo un convegno di povero amore umano, e il Cristo ne sfolgoreggia. E soggioga i presenti che, ammirati, lo contemplano in silenzio, come intimiditi dall’intuizione di un mistero di riunione dell’Altissimo col suo Verbo... È un segreto, una segreta ora d’amore fra il Padre e il Figlio. Nessuno la conoscerà mai. Ma il Figlio ne conserva il segno, quasi che, dopo essere stato il Verbo del Padre quale è in Cielo, a mala pena potesse tornare ad essere il Figlio dell’uomo. L’infinità, la sublimità stenta a tornare «l’Uomo». La divinità trabocca, esplode, irraggia dall’umanità come olio soave da una creta porosa o luce di fornace da un velo di vetri opachi.
E Gesù china gli occhi raggianti, curva il volto beato, nasconde il prodigioso sorriso, curvandosi sui malati che carezza e guarisce e che guardano stupiti quel viso di sole e d’amore curvo sulla loro miseria per dare gioia. Ma poi si deve infine rialzare e deve mostrare alle turbe ciò che è il volto del Pacifico, del Santo, del Dio fatto Carne, tutt’ancora avvolto nella luminosità lasciata dall’estasi. Ripete: «La pace a voi». Persino la voce è più musicale del solito, infusa di note soavi e trionfali... Potente si spande sui muti ascoltatori, ricerca i cuori, li carezza, li scuote, li chiama ad amare.
Meno quel gruppo di farisei, aridi e scabri, spinosi e arcigni più del monte stesso, che stanno come statue di incomprensione e livore in un angolo; meno l’altro che, tutto bianco e appartato, ascolta da un ciglio, e che sento indicare come «esseni» da Bartolomeo e l’Iscariota - e Pietro brontola: «E così c’è un pollaio di sparvieri di più!» - gli altri ne sono tutti scossi.
«Oh! lasciali fare. Il Verbo è per tutti!» dice Gesù sorridendo al suo Pietro, alludendo agli esseni.

3Poi inizia a parlare.
«Bello sarebbe se l’uomo fosse perfetto come lo vuole il Padre dei Cieli. Perfetto in ogni suo pensiero, affetto, atto. Ma l’uomo non sa essere perfetto e usa male i doni di Dio, il quale ha dato all’uomo libertà di agire, comandando, però, le cose buone, consigliando le perfette, acciò l’uomo non potesse dire: “Io non sapevo”.
Come usa l’uomo della libertà che Dio gli ha data? Come potrebbe usarne un bambino nella gran parte dell’umanità, o come uno stolto, o anche come un delinquente, nelle altre parti. Ma poi viene la morte, e allora l’uomo è soggetto al Giudice che chiederà severo: “Come usasti e abusasti di ciò che ti avevo dato?”. Tremenda domanda! Come allora men che festuche di paglia appariranno i beni della Terra, per i quali così spesso l’uomo si fa peccatore! Povero di una miserabilità eterna, nudo di una veste che nulla può surrogare, starà avvilito e tremante davanti alla maestà del Signore, né troverà parola per giustificarsi. Perché sulla terra è facile giustificarsi, ingannando i poveri uomini. Ma in Cielo ciò non può accadere. Dio non si inganna. Mai. E Dio non scende a compromessi. Mai.
Come allora salvarsi? Come fare servire tutto a salvezza, anche ciò che è venuto dalla Corruzione che ha insegnato i metalli e le gemme come strumenti di ricchezza, che ha acceso smanie di potere e appetiti di carne? Non potrà allora l’uomo, che per povero che sia può sempre peccare desiderando smoderatamente oro, cariche e donne - e talora diviene ladro di queste cose per avere ciò che il ricco aveva - non potrà allora l’uomo, ricco o povero che sia, salvarsi mai? Sì che può. E come? Sfruttando le dovizie per il Bene, sfruttando la miseria per il Bene. Il povero che non invidia, non impreca e non attenta a ciò che è d’altri, ma di ciò che ha si contenta, sfrutta il suo umile stato per averne santità futura e, in verità, la maggioranza dei poveri sa fare questo. Meno lo sanno fare i ricchi, per i quali la ricchezza è un continuo tranello di Satana, della triplice concupiscenza.

4Ma udite una parabola e vedrete che anche i ricchi possono salvarsi pur essendo ricchi, o riparare ai loro errori passati coll’uso buono delle ricchezze anche se male acquistate. Perché Dio, il Buonissimo, lascia sempre molti mezzi ai suoi figli perché si salvino.
C’era dunque un ricco il quale aveva un fattore. Alcuni, nemici di questo perché invidiosi del buon posto che aveva, oppure molto amici del ricco e perciò premurosi del suo benessere, accusarono il fattore al suo padrone: “Egli dissipa i tuoi beni. Se ne appropria. Oppure trascura di farli fruttare. Sta’ attento! Difenditi!”.
Il ricco, udite le ripetute accuse, comandò al fattore di comparirgli davanti. E gli disse: “Di te mi è stato detto questo e quello. Come mai hai agito in tal modo? Dàmmi il rendiconto della tua amministrazione perché non ti permetto più di tenerla. Non posso fidarmi di te e non posso dare un esempio di ingiustizia e di supinità che indurrebbe i conservi ad agire come tu hai agito. Va’ e torna domani con tutte le scritture, che io le esamini per rendermi conto della posizione dei miei beni prima di darli ad un nuovo fattore”.
E licenziò il fattore, che se ne andò pensieroso dicendo fra sé: “E ora? Come farò ora che il padrone mi leva la fattoria? Economie non ne ho perché, persuaso come ero di farla franca, tanto usurpavo tanto godevo. Mettermi come contadino e sottoposto non mi va perché sono disusato al lavoro e appesantito dai bagordi. Chiedere l’elemosina mi va meno ancora. Troppo avvilimento! E che farò?”.
Pensa e pensa, trovò modo di uscire dalla penosa situazione. Disse: “Ho trovato! Con lo stesso mezzo come mi sono assicurato un bel vivere fino ad ora, d’ora in poi mi assicurerò amici che mi ospiteranno per riconoscenza quando non avrò più la fattoria. Chi benefica ha sempre amici. Andiamo dunque a beneficare per essere beneficato e andiamoci subito, prima che la notizia si sparga e sia troppo tardi”.
E andato dai diversi debitori del suo padrone disse al primo: “Quanto devi tu al mio padrone per la somma che ti prestò alla primavera di tre anni fa?”.
E l’interrogato rispose: “Cento barili d’olio per la somma e gli interessi”.
“Oh! poverino! Tu, così carico di prole, tu afflitto da malattie nei figli, dover dare tanto?! Ma non ti dette per un valore di trenta barili?”.
“Sì. Ma avevo bisogno subito e lui mi disse: ‘Te lo do. Ma a patto che tu mi dia quanto la somma ti frutta in tre anni’. Mi ha fruttato per un valore di cento barili. E li devo dare”.
“Ma è un’usura! No. No. Lui è ricco e tu sei appena fuori della fame. Lui è con poca famiglia e tu con tanta. Scrivi che ti ha fruttato per cinquanta barili e non ci pensare più. Io giurerò che ciò è vero. E tu avrai benessere”.
“Ma non mi tradirai? Se lo viene a sapere?”.
“Ti pare? Io sono il fattore, e ciò che giuro è sacro. Fa’ come ti dico e sii felice”.
L’uomo scrisse, consegnò e disse: “Te benedetto! Mio amico e salvatore! Come compensarti?”.
“Ma in nessun modo! Vuol dire che, se per te avessi a soffrire ed essere cacciato, tu mi accoglierai per riconoscenza”.
“Ma certo! Certo! Contaci pure”.
Il fattore andò da un altro debitore, tenendo su per giù lo stesso discorso. Costui doveva rendere cento staia di grano, perché per tre anni la secca aveva distrutto le sue biade e aveva dovuto chiederne al ricco per sfamare la famiglia.
“Ma non ci pensare a raddoppiare ciò che ti ha dato! Negare il grano! Esigerne il doppio da uno che ha fame e figli, mentre il suo tarla nei granai perché ce ne è in esuberanza! Scrivi ottanta staia”.
“Ma se si ricorda che me ne ha date venti e venti e poi dieci?”.
“Ma che vuoi che ricordi? Io te li ho dati e io non voglio ricordare. Fa’, fa’ così e mettiti a posto. Giustizia ci vuole fra poveri e ricchi! Io già, se ero io il padrone, volevo solo le cinquanta staia e forse condonavo anche quelle”.
“Tu sei buono. Fossero tutti come te! Ricordati che la mia casa ti è amica”.
Il fattore andò da altri, tenendo lo stesso metodo, professandosi pronto a soffrire per rimettere le cose a posto con giustizia. E offerte di aiuti e benedizioni piovvero su lui.

5Rassicurato sul domani, andò tranquillo dal padrone, il quale a sua volta aveva pedinato il fattore e scoperto il suo giuoco. Pure lo lodò dicendo: “La tua azione non è buona e per essa non ti lodo. Ma lodarti devo per la tua accortezza. In verità, in verità i figli del secolo sono più avveduti dei figli della luce”.
E ciò che disse il ricco Io pure vi dico: “La frode non è bella, e per essa Io non loderò mai nessuno. Ma vi esorto ad essere, almeno come figli del secolo, avveduti con i mezzi del secolo, per farli usare a monete per entrare nel regno della Luce”. Ossia con le ricchezze terrene, mezzi ingiusti nella ripartizione e usati per l’acquisto di un benessere transitorio che non ha valore nel Regno eterno, fatevene degli amici che vi aprano le porte di esso. Beneficate coi mezzi che avete, restituite quello che voi, o altri della vostra famiglia, hanno preso senza diritto, distaccatevi dall’affetto malato e colpevole per le ricchezze. E tutte queste cose saranno come amici che nell’ora della morte vi apriranno le porte eterne e vi riceveranno nelle dimore beate.
Come potete esigere che Dio vi dia i suoi beni paradisiaci se vede che non sapete fare buon uso neppure dei beni terrestri? Volete che, per un impossibile supposto, ammetta nella Gerusalemme celeste elementi dissipatori? No, mai. Lassù si vivrà con carità e con generosità e giustizia. Tutti per Uno e tutti per tutti. La comunione dei santi è società attiva e onesta, è santa società. E nessuno che abbia mostrato di essere ingiusto e infedele può entrarvi.
Non dite: “Ma lassù saremo fedeli e giusti perché lassù tutto avremo senza temenze di sorta”. No. Chi è infedele nel poco sarebbe infedele anche se il Tutto possedesse, e chi è ingiusto nel poco ingiusto è nel molto. Dio non affida le vere ricchezze a chi nella prova terrena mostra di non sapere usare delle ricchezze terrene. Come può Dio affidarvi un giorno in Cielo la missione di spiriti sostenitori dei fratelli sulla terra, quando avete mostrato che carpire e frodare, o conservare con avidità, è la vostra prerogativa? Vi negherà perciò il vostro tesoro, quello che per voi aveva conservato, dandolo a quelli che seppero essere avveduti sulla terra, usando anche ciò che è ingiusto e malsano in opere che giusto e sano lo fanno.
Nessun servo può servire due padroni. Perché o dell’uno o dell’altro sarà, o l’uno o l’altro odierà. I due padroni che l’uomo può scegliere sono Dio o Mammona. Ma se vuole essere del primo non può vestire le insegne, seguire le voci, usare i mezzi del secondo».

6Una voce si alza dal gruppo degli esseni: «L’uomo non è libero di scegliere. È costretto a seguire un destino. Né diciamo che sia distribuito senza saggezza. Anzi la Mente perfetta ha stabilito, a proprio disegno perfetto, il numero di coloro che saranno degni dei Cieli. Gli altri inutilmente si sforzano di divenirlo. Così è. Diverso non può essere. Come uno, uscendo di casa, può trovare la morte per una pietra che si stacca dal cornicione, mentre uno nel più fitto di una battaglia si può salvare dalla più piccola ferita, ugualmente colui che vuole salvarsi, ma così non è scritto, non farà che peccare anche senza saperlo, perché è segnata la sua dannazione».
«No, uomo. Così non è, e ricrediti. Pensando così tu fai grave ingiuria al Signore».
«Perché? Dimostramelo ed io mi ravvederò».
«Perché tu, dicendo questo, ammetti mentalmente che Dio è ingiusto verso le sue creature. Egli le ha create in ugual modo e con uno stesso amore. Egli è un Padre. Perfetto nella sua paternità come in ogni altra cosa. Come può allora fare distinzioni, e quando un uomo viene concepito maledirlo mentre è innocente embrione? Sin da quando è incapace di peccare?».
«Per avere una rivalsa all’offesa avuta dall’uomo».
«No. Non così si rivale Dio! Egli non si accontenterebbe di un misero sacrificio quale questo, e di un ingiusto, forzato sacrificio. La colpa a Dio può essere solo levata dal Dio fatto Uomo. Egli sarà l’Espiatore. Non questo o quell’uomo. Oh! fosse stato possibile che Io avessi a levare solo la colpa d’origine! Che nessun Caino avesse avuto la terra, nessun Lamec, nessun corrotto sodomita, nessun omicida, ladro, fornicatore, adultero, bestemmiatore, nessuno senza amore ai genitori, nessun spergiuro, e così via! Ma di ognuno di questi peccati non Dio, ma il peccatore è colpevole e autore. Dio ha lasciato libertà ai figli di scegliere il Bene o il Male».
«Non fece bene» urla uno scriba. «Ci ha tentati oltre misura. Sapendoci deboli, ignoranti, avvelenati, ci ha messi in tentazione. Ciò è imprudenza o malvagità. Tu che sei giusto devi convenire che dico una verità».
«Dici una menzogna per tentarmi. Dio ad Adamo ed Eva aveva dato tutti i consigli, e a che servì?».
«Fece male anche allora. Non doveva mettere l’albero, la tentazione, nel Giardino».
«E allora dove il merito dell’uomo?».
«Ne faceva senza. Viveva senza proprio merito e per unico merito di Dio».
«Essi ti vogliono tentare, Maestro. Lascia quei serpi e ascolta noi che viviamo in continenza e meditazione» grida di nuovo l’esseno.
«Sì, vi vivete. Ma malamente. Perché non vivervi santamente?».

7L’esseno non risponde a questa domanda, ma chiede: «Come mi hai detto ragione persuasiva sul libero arbitrio, ed io la mediterò senza malanimo sperando poterla accettare, or dimmi. Credi Tu realmente in una risurrezione della carne e in una vita degli spiriti completati da essa?».
«E vuoi che Dio ponga fine così alla vita dell’uomo?».
«Ma l’anima… Posto che il premio la fa beata, a che serve far risorgere la materia? Aumenterà ciò il gaudio dei santi?».
«Niente aumenterà il gaudio che un santo avrà quando possederà Iddio. Ossia una cosa sola lo aumenterà l’ultimo Giorno: quello di sapere che il peccato non è più. Ma non ti pare giusto che, come durante questo giorno carne e anima furono unite nella lotta per possedere il Cielo, nel Giorno eterno carne e anima siano unite per godere il premio? Non ne sei persuaso? E allora perché vivi in continenza e meditazione?».
«Per… per essere maggiormente uomo, signore sopra gli altri animali che ubbidiscono agli istinti senza freno, e per essere superiore alla maggior parte degli uomini che sono imbrattati di animalità anche se ostentano filatterie e fimbrie, e zizit, e larghe vesti, e si dicono “i separati”».
Anatema! I farisei, ricevuta in pieno la frecciata che fa mormorare di approvazione la folla, si contorcono e gridano come ossessi. «Egli ci insulta, Maestro! Tu sai la santità nostra. Difendici» urlano gesticolando.
Gesù risponde: «Anche egli sa la vostra ipocrisia. Le vesti non corrispondono alla santità. Meritate di esser lodati e potrò parlare. Ma a te, esseno, Io rispondo che troppo per poco ti sacrifichi. Perché? Per chi? Per quanto? Per una lode umana. Per un corpo mortale. Per un tempo rapido come volo di falco. Eleva il tuo sacrificio. Credi al Dio vero, alla beata risurrezione, alla volontà libera dell’uomo. Vivi da asceta. Ma per queste ragioni soprannaturali. E con la carne risorta godrai dell’eterna gioia».
«È tardi! Sono vecchio! Ho forse sciupato la mia vita stando in una setta d’errore… È finita!…».
«No. Mai finita per chi vuole il bene!

8Udite, o voi peccatori, o voi che siete negli errori, o voi, quale che sia il vostro passato. Pentitevi. Venite alla Misericordia. Vi apre le braccia. Vi indica la via. Io sono fonte pura, fonte vitale. Gettate le cose che vi hanno traviato fin qui. Venite nudi al lavacro. Rivestitevi di luce. Rinascete. Avete rubato come ladroni sulle vie, o signorilmente e astutamente nei commerci e nelle amministrazioni? Venite. Avete avuto vizi o passioni impure? Venite. Siete stati oppressori? Venite. Venite. Pentitevi. Venite all’amore e alla pa-ce. Oh! ma lasciate che l’amore di Dio possa riversarsi su di voi. Sollevatelo questo amore in ambascia per la vostra resistenza, paura, titubanza. Io ve ne prego in nome del Padre mio e vostro. Venite alla Vita e alla Verità, e avrete la vita eterna».
Un uomo dalla folla grida: «Io sono ricco e peccatore. Che devo fare per venire?».
«Rinuncia a tutto per amore di Dio e della tua anima».
I farisei mormorano e scherniscono Gesù come «venditore di illusioni e di eresie», come «peccatore che si finge santo», e lo ammoniscono che gli eretici sono sempre eretici, e tali sono gli esseni. Dicono che le conversioni subitanee non sono che esaltazioni momentanee e che l’impuro sarà sempre tale, il ladro ladro, l’omicida omicida, terminando col dire che solo loro, che vivono in santità perfetta, hanno diritto al Cielo e alla predicazione.

9«Era un giorno felice. Una semina di santità cadeva nei cuori. Il mio amore, nutrito dal bacio di Dio, dava ai semi vita. Il Figlio dell’uomo era beato di santificare... Voi mi avvelenate il giorno. Ma non importa. Io vi dico - e, se dolce non sarò, di voi è la colpa - Io vi dico che voi siete di quelli che si mostrano giusti, o tentano di farlo, al cospetto degli uomini, ma giusti non siete. Dio conosce i vostri cuori. Ciò che è grande al cospetto degli uomini è abominevole dinanzi all’immensità e perfezione di Dio. Voi citate la Legge antica. Perché allora non la vivete? Voi modificate a vostro pro la Legge, aggravandola di pesi che vi dànno utilità. Perché allora non lasciate che Io la modifichi a pro di questi piccoli, levando da essa tutti gli zizit e i telefin pesanti, inutili, dei precetti fatti da voi, tali e tanti che la Legge essenziale scompare sotto di essi e muore affogata? Io ho pietà di queste turbe, di queste anime che cercano il respiro nella Religione e trovano il nodo scorsoio. Che cercano l’amore e trovano il terrore…
No. Venite, o piccoli d’Israele. La Legge è amore! Dio è amore! Così Io dico agli intimoriti da voi. La Legge severa e i profeti minaccianti che mi hanno predetto, ma non sono riusciti a tenere indietro il peccato nonostante gli urli del loro profetare angoscioso, sono fino a Giovanni. Da Giovanni in poi viene il Regno di Dio, il Regno dell’amore. Ed Io dico agli umili: “Entratevi. È per voi”. Ed ognuno di quelli di buona volontà si sforza ad entrarvi. Ma per coloro che non vogliono curvare il capo, battersi il petto, dire: “Ho peccato”, non vi sarà il Regno. È detto: “Circoncidete il vostro cuore senza indurare più la vostra cervice”.
Questa terra vide il prodigio di Eliseo che fece dolci le acque amare col gettarvi dentro il sale. Ed Io non getto il sale della Sapienza nei vostri cuori? E allora perché siete inferiori ad acque e non mutate lo spirito vostro? Intridete nelle vostre formule il mio sale e avranno novello sapore, perché ridaranno alla Legge la primitiva forza. In voi, prima di tutti, i più bisognosi. Voi dite che Io muto la Legge? No. Non mentite. Io rendo alla Legge la sua primitiva forma da voi travisata. Perché è legge che durerà quanto la terra, e prima spariranno cielo e terra che uno solo dei suoi estremi o dei suoi consigli. E se voi la mutate, perché cosi vi piace, e sottilizzate cercando scappatoie alle vostre colpe, sappiate che ciò non giova. Non giova, o Samuele! Non giova, o Isaia! Sempre è detto: “Non fare adulterio”, e Io completo: “Chi rimanda una sposa per prenderne un’altra è adultero, e chi sposa una ripudiata dal marito è adultero, perché ciò che Dio ha unito solo la morte può dividere”.
Ma le parole dure sono per i peccatori impenitenti. Coloro che hanno peccato, ma si dolgono con desolazione per averlo fatto, sappiano, credano che Dio è Bontà,
e vengano a Colui che assolve, perdona e ammette alla Vita. Andate con questa certezza. Spargetela nei cuori. Predicate la misericordia che vi dà la pace benedicendovi nel nome del Signore».

10La gente sfolla lentamente, sia perché il sentiero è stretto, sia perché Gesù l’attrae. Ma sfolla...
Restano gli apostoli con Gesù e, parlando, s’incamminano. Cercano ombra camminando presso un piccolo boschetto di tamerici scapigliati. Ma dentro vi è un esseno. Quello che ha parlato con Gesù. Si sta spogliando delle vesti bianche.
Pietro, che è avanti a tutti, resta di stucco vedendo che l’uomo si riduce con le sole brache corte, e corre indietro dicendo: «Maestro! Un matto! Quello che parlava con Te, l’esseno. Si è messo nudo e piange e sospira. Non possiamo andar là».
Ma l’uomo, magro, barbuto, nudo affatto nel corpo, meno le corte brache e i sandali, già esce dal folto del boschetto e viene verso Gesù piangendo e battendosi il petto. Si prostra: «E io sono il miracolato nel cuore. Mi hai guarito lo spirito. Ubbidisco alla tua parola. Mi rivesto di luce lasciando ogni altro pensiero che mi fosse veste d’errore. Mi separo per meditare il Dio vero, per ottenere vita e risurrezione. Basta così? Indicami il nuovo nome e un luogo in cui vivere di Te e delle tue parole».
«È matto! Non sappiamo viverci noi che ne sentiamo tante! E lui... per un solo discorso...» dicono fra loro gli apostoli.
Ma l’uomo, che sente, dice: «E volete mettere termini a Dio? Egli mi ha infranto il cuore per darmi uno spirito libero. Signore!...» supplica tendendo le braccia a Gesù.
«Sì. Chiamati Elia e sii fuoco. Quel monte è pieno di caverne. Va’ in esso, e quando sentirai scuotere la terra per tremendo terremoto esci e cerca i servi del Signore per unirti a loro. Sarai rinato per essere servo tu pure. Va’».
L’uomo gli bacia i piedi, si alza e si avvia.
«Ma va così nudo?» chiedono sbalorditi.
«Dategli un mantello, un coltello, un’esca e un acciarino, e un pane. Camminerà oggi e domani, e poi, dove sostammo, si ritirerà in preghiera e il Padre provvederà al suo figlio».
Andrea e Giovanni partono di corsa e lo raggiungono mentre sta per scomparire dietro una svolta.
Tornano dicendo: «Li ha presi. Gli abbiamo anche indicato il luogo dove eravamo. Che preda impensata, Signore!».
«Dio anche sulle rocce fa fiorire i fiori. Anche nei deserti dei cuori fa sorgere spiriti di volontà per mio conforto. Ora andiamo verso Gerico. Sosteremo in qualche casa di campagna».
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 11 settembre 2016, XXIV Domenica del Tempo Ordinario

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 15,1-32.
Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo.
I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro».
Allora egli disse loro questa parabola:
«Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?
Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento,
va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta.
Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.
O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova?
E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta.
Così, vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.
Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze.
Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto.
Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci.
Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava.
Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te;
non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni.
Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio.
Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi.
Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa,
perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze;
chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò.
Il servo gli rispose: E' tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo.
Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo.
Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici.
Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso.
Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo;
ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 3 Capitolo 205 pagina 327.
1“Giovanni di Endor, vieni qui con Me. Ti devo parlare”, dice Gesù affacciandosi sull’uscio.
L’uomo accorre lasciando il bambino al quale insegnava qualcosa. “Che mi vuoi dire, Maestro?”, chiede.
“Vieni con Me qui sopra”.
Salgono sulla terrazza e si siedono dalla parte più riparata perché, per quanto sia mattina, il sole è già forte. Gesù gira lo sguardo sulla campagna coltivata, in cui i grani di giorno in giorno divengono d’oro e gli alberi gonfiano le loro frutta. Pare volere attingere il pensiero da quella metamorfosi vegetale.
“Senti, Giovanni. Oggi Io credo che verrà Isacco per condurmi i contadini di Giocana prima della loro partenza. Ho detto a Lazzaro di prestare a Isacco un carro per fare loro accelerare il ritorno senza tema di giungere con un ritardo che provocherebbe loro un castigo. E Lazzaro lo fa. Perché Lazzaro fa tutto ciò che Io dico. Ma da te Io voglio un’altra cosa. Ho qui una somma che mi è stata data da una creatura per i poveri del Signore. Generalmente è un mio apostolo l’incaricato di tenere le monete e di dare gli oboli. È Giuda di Keriot generalmente; qualche volta gli altri. Giuda non è presente. Gli altri non voglio siano a cognizione di quel che voglio fare. Anche Giuda questa volta non lo sarebbe. Lo farai tu, in mio nome…”.
“Io, Signore?… Io?… Oh! non ne sono degno!…”.
“Ti devi abituare a lavorare in mio nome. Non sei venuto per questo?”.
“Sì. Ma pensavo dovere lavorare a ricostruire la povera anima mia”.
“E Io te ne do il mezzo. In che hai peccato? Contro la misericordia e l’amore. Con l’odio hai demolito la tua anima. Con l’amore e la misericordia la ricostruirai. Io te ne do il materiale. Ti adibirò particolarmente alle opere di misericordia e di amore. Tu sei anche capace di curare, tu sei capace di parlare. Per questo sei atto ad avere cura delle infelicità fisiche e morali, e hai capacità di farlo. Inizierai con quest’opera. Tieni la borsa. La darai a Michea e ai suoi amici. Fànne parti uguali. Ma fàlle così come Io dico. La dividi per dieci, poi ne dai quattro parti a Michea: una per sé, una per Saulo, una per Gioele e una per Isaia. E le altre sei le dai a Michea perché le dia al vecchio padre di Jabé, per sé e per i suoi compagni. Potranno così avere qualche conforto”.
“Va bene. Ma che dico loro per giustificare?”.
“Dirai: “Questo è perché vi ricordiate di pregare per un’anima che si redime””.
“Ma potranno pensare che sia io! Non è giusto!”.
“Perché? Non ti vuoi redimere?”.
“Non è giusto che pensino che sia io il donatore”.
“Lascia, e fa’ come Io dico”.
“Ubbidisco… ma almeno concedimi di mettere anche io qualche cosa. Tanto… ora non mi occorre più nulla. Libri non ne compero più, polli da nutrire non ne ho più. A me basta tanto poco… Tieni, Maestro. Serbo solo un minimo per le spese dei sandali…”, ed estrae da una borsa che aveva in cintura molte monete e le aggiunge alle monete di Gesù.
205.2
“Dio ti benedica per la tua misericordia… 2Giovanni, fra poco ci lasceremo perché tu andrai con Isacco”.
“Me ne duole, Maestro. Ma ubbidisco”.
“Anche a Me duole di allontanarti. Ma ho tanto bisogno di discepoli peregrinanti. Io non basto più. Presto lancerò gli apostoli, poi manderò i discepoli. E tu farai molto bene. Ti serberò a speciali missioni. Intanto con Isacco ti formerai. È tanto buono e lo Spirito di Dio lo ha veramente istruito durante la lunga malattia. Ed è l’uomo che tutto ha sempre perdonato… Lasciarci, del resto, non vuole dire non vederci più. Ci incontreremo sovente, e ogni volta che ci ritroveremo parlerò proprio per te, ricordatelo…”.
Giovanni si piega su se stesso, si nasconde il volto fra le mani con un aspro scoppio di pianto, e geme: “Oh! allora dimmi subito qualche cosa che mi persuada che io sono perdonato… che io posso servire Dio… Se sapessi, ora che è caduto il fumo dell’odio, come vedo la mia anima… e come… e come penso a Dio…”.
“Lo so, non piangere. Resta nell’umiltà, ma non ti avvilire. L’avvilimento è ancora superbia. Solo, solo umiltà abbi. Suvvia, non piangere…”.
Giovanni di Endor si calma poco a poco…
Quando lo vede calmato, Gesù dice: “Vieni, andiamo sotto quel folto di meli e raduniamo i compagni e le donne. Parlerò a tutti, ma ti dirò come Dio ti ama”.
Scendono, radunandosi intorno gli altri man mano che vanno, e si siedono poi a cerchio sotto l’ombra del pometo. Anche Lazzaro, che parlava con lo Zelote, si aggiunge alla compagnia. Venti persone in tutto.
205.3
3“Udite. È una bella parabola che vi guiderà con la sua luce in tanti casi.
Un uomo aveva due figli. Il maggiore era serio, lavoratore, affezionato, ubbidiente. Il secondo era intelligente più del maggiore — che in verità era un poco ottuso e si lasciava guidare per non avere da affaticarsi a decidere da sé — ma in compenso era anche ribelle, svagato, amante del lusso e del piacere, dissipatore e ozioso. L’intelligenza è un grande dono di Dio. Ma è un dono che va usato saggiamente. Altrimenti è come certi farmachi i quali, usati in mal modo, non sanano ma uccidono. Il padre — era nel suo diritto e nel suo dovere — lo richiamava a vita più saggia. Ma senza alcun utile, tolto quello di averne male risposte e un maggior irrigidimento del figlio nelle proprie cattive idee.
Infine un giorno, dopo una disputa più fiera, il figlio minore disse: “Dàmmi la mia parte dei beni. Così non sentirò più i tuoi rimproveri e i lagni del fratello. Ognuno il suo e sia finito tutto”. “Guarda”, rispose il padre, “che presto sarai rovinato. Che farai allora? Pensa che io non sarò ingiusto in favore di te e non riprenderò un picciolo a tuo fratello per darlo a te”. “Non ti chiederò nulla. Sta’ sicuro. Dàmmi la mia parte”.
Il padre fece stimare le terre e le cose preziose e, visto che denaro e gioielli facevano tanto quanto le terre, dette al maggiore i campi e i vigneti, le mandre e gli ulivi, e al minore il denaro e i gioielli, che il giovane vendette subito mutando tutto in denaro. E fatto questo, in pochi giorni, se ne andò in lontano paese dove visse da gran signore, scialacquando tutto il suo in bagordi di ogni specie, facendosi credere un figlio di re perché si vergognava di dire: “sono campagnolo”, rinnegando perciò il padre suo. Festini, amici e amiche, vesti, vini, giuoco… vita dissoluta… Presto vide scemare la sostanza e venire avanti la miseria. E con la miseria, a farla più grave, venne nel paese una grande carestia che dette fondo ai resti della sostanza.
205.4
4Avrebbe potuto andare dal padre. Ma era superbo e non volle. Andò allora da un riccone del paese, già suo amico nei tempi buoni, e lo pregò dicendo: “Accoglimi fra i tuoi servi in ricordo di quando godesti delle mie dovizie”. Vedete voi come è stolto l’uomo! Preferisce mettersi sotto la frusta di un padrone anziché dire ad un padre: “Perdono! Ho sbagliato!”. Quel giovane aveva imparato tante cose inutili con la sua intelligenza aperta, ma non aveva voluto imparare il detto dell’Ecclesiastico: “Quanto è infame colui che abbandona il padre suo e quanto è maledetto da Dio chi fa inquietare la madre”. Era intelligente ma non sapiente.
L’uomo a cui si era rivolto, in cambio del molto che aveva goduto dal giovane stolto, mise questo stolto di guardia ai porci — perché si era in paese pagano e vi erano molti porci — e lo mandò a pasturare nei suoi possessi le mandre dei porci. Lurido, stracciato, puzzolente, affamato — perché il cibo era scarso per tutti i servi e specie per gli infimi, e lui, straniero mandriano di porci e deriso, era ritenuto tale — vedeva i porci satollarsi delle ghiande e sospirava: “Potessi almeno io pure empirmi il ventre di questi frutti! Ma sono troppo amari! Neppure la fame me li fa parere buoni”. E piangeva pensando ai ricchi festini da satrapo fatti poco tempo prima fra risa, canti, danze… e pensava poi agli onesti pranzi ben nutriti della sua casa lontana, alle porzioni che il padre faceva a tutti imparzialmente, serbando per sé sempre il meno, lieto di vedere il sano appetito dei suoi figli… e pensava anche alle parti fatte ai servi da quel giusto, e sospirava: “I garzoni di mio padre, anche i più infimi, hanno pane in abbondanza… e io qui muoio di fame…”. Un lungo lavoro di riflessione, una lunga lotta per strozzare la superbia…
205.5
5Infine venne il giorno che, rinato nell’umiltà e nella sapienza, sorse in piedi e disse: “Io vado dal padre mio! È stolto questo orgoglio che mi fa prigione. E di che? Perché soffrire e nel corpo e più nel cuore mentre posso avere perdono e sollievo? Vado dal padre mio. È detto. Che gli dirò? Ma quello che è nato qui dentro, in questa abbiezione, fra queste lordure, fra i morsi della fame! Gli dirò: ‘Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami perciò come l’infimo dei tuoi garzoni, ma sopportami sotto il tuo tetto. Che io ti veda passare…’. Non potrò dirgli: ‘…perché ti amo’. Non lo crederebbe. Ma lo dirà la mia vita, ed egli lo comprenderà, e prima di morire mi benedirà ancora… Oh! lo spero. Perché mio padre mi ama”. E, tornato la sera in paese, si licenziò dal padrone e mendicando per via tornò a casa sua.
Ecco i campi paterni… e la casa… e il padre che dirigeva i lavori, invecchiato, scarnito dal dolore, ma sempre buono… Il colpevole, guardando quella rovina causata da lui, si fermò intimorito… ma il padre, girando l’occhio, lo vide e gli corse incontro, perché era ancora lontano, e raggiuntolo gli gettò le braccia al collo e lo baciò. Solo il padre aveva riconosciuto in quel mendicante avvilito la sua creatura e solo lui aveva avuto un movimento di amore. Il figlio, stretto fra quelle braccia, con il capo sulla spalla paterna, mormorò fra i singhiozzi: “Padre, lascia che io mi getti ai tuoi piedi”. “No, figlio mio! Non ai piedi. Sul mio cuore, che ha tanto sofferto della tua assenza e che ha bisogno di rivivere col sentire il tuo calore sul mio petto”. E il figlio, piangendo più forte, disse: “Oh! padre mio! Io ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato da te: figlio. Ma permettimi di vivere fra i tuoi servi, sotto il tuo tetto, vedendoti, mangiando il tuo pane, servendoti, bevendo il tuo alito. Ad ogni boccone di pane, ad ogni tuo respiro si riformerà il mio cuore tanto corrotto e diverrò onesto…”. Ma il padre, tenendolo sempre abbracciato, lo condusse verso i servi, che si erano ammucchiati in distanza e che osservavano, e disse loro: “Presto, portate qui la veste più bella e catini di acque odorose, lavatelo, profumatelo, rivestitelo, mettetegli dei calzari nuovi e un anello al dito. Poi prendete un vitello ingrassato e ammazzatelo. E si prepari un banchetto. Perché questo figlio mio era morto ed ora è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato. Io voglio che ora lui pure ritrovi il suo semplice amore di pargolo; e il mio amore e la festa della casa per il suo ritorno glielo devono dare. Deve capire che egli è sempre per me il caro bambino ultimo nato, quale era nella infanzia sua lontana, quando mi camminava al fianco facendomi beato col suo sorriso e il suo balbettio”. E così fecero i servi.
6Il figlio maggiore era in campagna e non seppe nulla fino al
205.6
suo ritorno. A sera, venendo verso casa, la vide luminosa di lumi e udì suoni di strumenti e danze uscire da essa. Chiamò un servo che correva indaffarato e gli disse: “Che avviene?”. E il servo rispose: “È tornato tuo fratello! Tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso perché ha riavuto il figlio e sano, guarito dal suo grande male, ed ha ordinato banchetto. Non si attende che te per cominciare”. Ma il primogenito, in collera perché gli pareva ingiustizia tanta festa per il minore, che oltre che minore era stato cattivo, non volle entrare e anzi fece per allontanarsi da casa.
Ma il padre, avvertito di questo, corse fuori e lo raggiunse tentando di convincerlo e pregandolo di non amareggiargli la sua gioia. Il primogenito rispose al padre suo: “E vuoi che io non sia inquieto? Tu fai ingiustizia e spregio al tuo primogenito. Io da quando ho potuto lavorare ti ho servito, e sono molti anni. Io non ho mai trasgredito ad un tuo comando, neppure ad un tuo desiderio. Io ti sono sempre stato vicino e ti ho amato per due per farti guarire dalla piaga fatta da mio fratello. E tu non mi hai dato neppure un capretto per godermelo cogli amici. Questo, che ti ha offeso, che ti ha abbandonato, che è stato infingardo e dissipatore e che torna ora perché è spinto dalla fame, tu lo onori e per lui ammazzi il vitello più bello. Vale la pena essere lavoratori e senza vizi! Questo non me lo dovevi fare!”.
Il padre disse allora stringendoselo al seno: “Oh! figlio mio! E puoi credere che io non ti ami perché non stendo un velo di festa sulle tue azioni? Le tue azioni sono sante di loro, e il mondo ti loda per esse. Ma questo tuo fratello, invece, ha bisogno di essere rialzato nella stima del mondo e nella stima sua stessa. E credi tu che io non ti ami perché non ti do un premio visibile? Ma mattina e sera e in ogni mio alito e pensiero tu sei presente al mio cuore, e ad ogni attimo io ti benedico. Tu hai il premio continuo di essere sempre con me, e tutto quanto è mio è tuo. Ma era giusto banchettare e fare festa per questo tuo fratello, che era morto ed è risuscitato al Bene, che era perduto ed è stato ritornato al nostro amore”. E il primogenito si arrese.

205.7
7Così, amici miei, succede nella Casa del Padre. E chi si sa uguale al figlio minore della parabola pensi pure che, se lo imita nell’andare al Padre, il Padre gli dice: “Non ai miei piedi. Ma sul mio cuore, che ha sofferto della tua assenza e che ora è beato per il tuo ritorno”. Chi è in condizioni di figlio primogenito e senza colpa verso il Padre, non sia geloso della gioia paterna, ma ne prenda parte, dando amore al fratello redento.
Ho detto. Rimani, Giovanni di Endor, e tu, Lazzaro. Gli altri vadano a preparare le mense. Presto verremo”.
Tutti si ritirano. Quando Gesù, Lazzaro e Giovanni sono soli, Gesù dice a Lazzaro e Giovanni: “Così si farà dell’anima cara che tu attendi, Lazzaro, e così si fa della tua, Giovanni. La bontà di Dio supera ogni misura”…
205.8
8…Gli apostoli, insieme alla Madre e alle donne, vanno verso casa preceduti da Marjziam che saltella correndo avanti. Ma presto ritorna e prende Maria per mano dicendole: “Vieni con me. Ti devo dire una cosa, da soli”. E Maria lo accontenta.
Torcono verso il pozzo, sito in un angolo del cortiletto, tutto velato da una pergola folta che da terra sale con un arco verso la terrazza. Là dietro è l’Iscariota.
“Giuda, che vuoi? Vai, Marjziam… Parla, che vuoi?”.
“Io sono in colpa… Non oso andare dal Maestro né affrontare i compagni… Aiutami…”.
“Ti aiuterò. Ma non pensi quanto dolore dài? Mio Figlio ha pianto per causa tua. E i compagni ne hanno sofferto. Ma vieni. Nessuno ti dirà niente. E, se puoi, non ricadere più in queste colpe. È indegno di un uomo, ed è sacrilego verso il Verbo di Dio”.
“E tu, Madre, mi perdoni?”.
“Io? Io non conto presso te che ti senti tanto grande. Io sono la più piccola delle serve del Signore. Come ti puoi preoccupare di me se non hai pietà di mio Figlio?”.
“Perché ho anche io una madre e, se ho il tuo perdono, mi pare di avere il suo”.
“Ella non sa questa tua colpa”.
“Ma ella mi aveva fatto giurare di essere buono col Maestro. Sono spergiuro. Sento il rimprovero dell’anima di mia madre”.
“Senti questo? E il lamento e il rimprovero del Padre e del Verbo non lo senti? Sei un disgraziato, Giuda! Semini, in te e in chi ti ama, il dolore”.
Maria è molto seria e mesta. Senza acredine parla, ma con molta serietà. Giuda piange.
“Non piangere. Ma migliorati. Vieni”, e lo prende per mano entrando così nella cucina.
Lo stupore di tutti è vivissimo. Ma Maria previene ogni uscita poco pietosa. Dice: “Giuda è ritornato. Fate come il primogenito dopo il discorso del padre. Giovanni, va’ ad avvisare Gesù”.
Giovanni di Zebedeo parte di corsa.
Un silenzio grava nella cucina… Poi Giuda dice: “Perdonatemi, tu Simone per il primo. Hai un cuore tanto paterno. Sono un orfano io pure”.
“Sì, sì, ti perdono. Per favore, non parlarne più. Siamo fratelli… e non mi piacciono questi alti e bassi di perdoni chiesti e di ricadute fatte. Avviliscono chi li fa e chi li dà. Ecco Gesù. Vai da Lui. E basta”.
Giuda va mentre Pietro, non potendo fare altro, si dà a spezzare con foga delle legna secche…
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/