"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’,
ma leggetela e fatela leggere"

Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
Evangelo come mi è stato rivelato
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Domenica 3 Gennaio 2016, Domenica prima dell'Epifania

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 1,1-18.
In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta.
Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.
Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe.
Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto.
A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome,
i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli rende testimonianza e grida: «Ecco l'uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me».
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia.
Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato. 
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 4 Capitolo 244 pagina 109.
Stanno tutti salendo per fresche scorciatoie che portano a Nazaret. Le coste delle colline galilee sembrano create in quella mattina, tanto la recente burrasca le ha lavate e la rugiada le mantiene lucide e fresche, tutte un brillio al primo sole. L’aria è così pura che discopre ogni particolarità dei monti più o meno vicini e dà un senso di leggerezza e di brio. Quando viene raggiunto lo scrimolo di un colle la vista si bea su uno scorcio del lago, bellissimo in questa luce mattinale. Tutti ammirano, imitando Gesù. Ma Maria di Magdala, presto storce lo sguardo da quel punto cercando in altra direzione qualche cosa. I suoi occhi si posano sulle creste montane che sono a nord-ovest dal punto ove si trova, e pare non trovare.Susanna, perché è presente anche lei, le chiede: «Che cerchi?». «Vorrei riconoscere il monte ove incontrai il Maestro». «Chiedilo a Lui». «Oh! non merita che io lo disturbi. Sta parlando proprio con Giuda di Keriot». «Che uomo quel Giuda!» sussurra Susanna. Non dice altro, ma si capisce il resto. «Quel monte non è certo su questa via. Ma qualche volta ti ci condurrò, Marta. C’era un’aurora come questa e tanti fiori… E tanta gente… Oh! Marta! Ed io ho osato mostrarmi a tutti con quella veste di peccato e con quegli amici… No, non puoi essere offesa per le parole di Giuda. Me le sono meritate. Tutto mi sono meritato. E in questo soffrire è a mia espiazione. Tutti ricordano, tutti hanno il diritto di dirmi la verità. E io devo tacere. Oh! se si riflettesse prima di peccare! Chi mi offende ora è il mio più grande amico, perché mi aiuta ad espiare». «Ma ciò non toglie che egli ha mancato. Madre, è proprio contento di quell’uomo, tuo Figlio?». «Bisogna molto pregare per lui. Così Egli dice».Giovanni lascia gli apostoli per venire ad aiutare le donne in un passaggio scabroso su cui i sandali scivolano, molto più che il sentiero è sparso di pietre lisce, come scaglie di ardesia rossastra, e di un’erbetta lucida e dura, molto traditrici per il piede che su esse non ha presa. Lo Zelote lo imita e appoggiandosi a loro le donne superano il punto pericoloso. «È un poco faticosa questa via. Ma è senza polvere e senza folla. Ed è più breve» dice lo Zelote. «La conosco, Simone» dice Maria. «Venni a quel paesello a mezza costa, con i nipoti, quando Gesù fu cacciato da Nazaret» dice Maria Ss. e sospira. «Però è bello da qui il mondo. Ecco là il Tabor e l’Hermon, e a settentrione i monti d’Arbela, e là in fondo il grande Hermon. Peccato che non si veda il mare come si vede dal Tabor» dice Giovanni. «Ci sei stato?». «Sì, col Maestro». «Giovanni, col suo amore per l’infinito, ci ha ottenuto una grande letizia, perché Gesù, là in cima, parlò di Dio con un rapimento mai udito. E poi, dopo aver avuto già tanto, ottenemmo una grande conversione. Lo conoscerai anche tu, Maria. E ti si fortificherà lo spirito più ancora che già non sia. Trovammo un uomo indurito nell’odio, abbrutito dai rimorsi, e Gesù ne fece uno che non esito a dire che sarà un grande discepolo. Come te, Maria. Perché, credi pure che è verità ciò che ti dico, noi peccatori siamo i più cedevoli al Bene che ci prende, perché sentiamo il bisogno di essere perdonati anche da noi stessi» dice lo Zelote. «È vero. Ma tu sei molto buono, dicendo “noi peccatori”. Tu sei stato un disgraziato, non un peccatore». «Tutti lo siamo, chi più chi meno, e chi crede di esserlo meno è il più soggetto a divenirlo se pure non lo è già. Tutti lo siamo. Ma i più grandi peccatori che si convertono sono quelli che sanno essere assoluti nel Bene come lo furono nel male». «Il tuo conforto mi solleva. Sei sempre stato un padre per i figli di Teofilo, tu». «E come un padre giubilo di avervi tutti e tre amici di Gesù». «Dove lo avete trovato quel discepolo gran peccatore?». «A Endor, Maria. Simone vuol dare al mio desiderio di vedere il mare il merito di tante cose belle e buone. Ma se Giovanni l’anziano è venuto a Gesù non è per merito di Giovanni lo stolto. È per merito di Giuda di Simone» dice sorridendo il figlio di Zebedeo. «Lo ha convertito?» chiede dubbiosa Marta. «No. Ma ha voluto andare ad Endor e…». «Sì, per vedere l’antro della maga... È un uomo molto strano Giuda di Simone… Bisogna prenderlo come è… Già!… E Giovanni di Endor ci guidò alla caverna e poi rimase con noi. Ma, figlio mio, sempre tuo è il merito, perché senza il tuo desiderio di infinito non avremmo fatto quella via e non sarebbe venuto a Giuda di Simone il desiderio di andare a quella strana ricerca». «Mi piacerebbe sapere cosa ha detto Gesù sul Tabor… come mi piacerebbe riconoscere il monte dove lo vidi» sospira Maria Maddalena. «Il monte è quello su cui pare ora accendersi un sole per quel piccolo stagno, usato dalle greggi, che raccoglie le acque sorgive. Noi eravamo più su, dove la cima pare spaccata come un largo bidente che voglia infilzare le nuvole e portarle altrove. Per il discorso di Gesù, credo che Giovanni te lo può dire». «Oh! Simone! Può mai un ragazzo ripetere le parole di Dio?». «Un ragazzo no. Tu sì. Provati. Per compiacenza alle tue sorelle e a me che ti voglio bene». Giovanni è molto rosso quando inizia a ripetere il discorso di Gesù.«Egli disse: “Ecco la pagina infinita su cui le correnti scrivono la parola ‘Credo’. Pensate il caos dell’Universo avanti che il Creatore volesse ordinare gli elementi e costituirli a meravigliosa società, che ha dato agli uomini la terra e quanto contiene e al firmamento gli astri e i pianeti. Tutto già non era. Né come caos informe né come cosa ordinata. Dio la fece. Fece dunque per primi gli elementi. Perché necessari sono, sebbene talora sembra che siano nocivi. Ma, pensatevelo sempre, non c’è la più piccola stilla di rugiada che non abbia la sua ragione buona di essere; non c’è insetto, per piccolo e noioso che sia, che non abbia la sua ragione buona di essere. E così non c’è mostruosa montagna eruttante dalle viscere fuoco e incandescenti lapilli che non abbia la sua ragione buona di essere. E non vi è ciclone senza motivo. E non vi è - passando dalle cose alle persone - e non vi è evento, non pianto, non gioia, non nascita, non morte, non sterilità o maternità abbondante, non lungo coniugio né rapida vedovanza, non sventura di miserie e malattie, come non prosperità di mezzi e di salute, che non abbia la sua ragione buona di essere, anche se tale non appaia alla miopia e alla superbia umana, che vede e giudica con tutte le cataratte e tutte le nebbie proprie delle cose imperfette. Ma l’occhio di Dio, ma il Pensiero senza limitazioni di Dio, vede e sa. Il segreto per vivere immuni da sterili dubbi che innervosiscono, esauriscono, avvelenano la giornata terrena, è nel saper credere che Dio fa tutto per ragione intelligente e buona, che Dio fa ciò che fa per amore, non nello stolido intento di crucciare per crucciare. Dio aveva già creato gli angeli. E parte di essi, per avere voluto non credere che fosse buono il livello di gloria al quale Dio li aveva collocati, si erano ribellati e con l’animo arso dalla mancanza di fede nel loro Signore avevano tentato di assalire il trono irraggiungibile di Dio. Alle armoniose ragioni degli angeli credenti avevano opposto il loro discorde, ingiusto e pessimistico pensiero, e il pessimismo, che è mancanza di fede, li aveva da spiriti di luce fatti divenire spiriti ottenebrati. Viva in eterno coloro che in Cielo come in terra sanno basare ogni loro pensiero su un presupposto di ottimismo pieno di luce! Mai sbaglieranno completamente, anche se i fatti li smentiranno. Non sbaglieranno almeno per quanto riguarda il loro spirito, il quale continuerà a credere, a sperare, ad amare soprattutto Dio e prossimo, rimanendo perciò in Dio fino ai secoli dei secoli!Il Paradiso era già stato liberato da questi orgogliosi pessimisti, i quali vedevano nero anche nelle luminosissime opere di Dio, così come in terra i pessimisti vedono nero anche nelle più schiette e solari azioni dell’uomo, e per volersi separare in una torre d’avorio, credendosi gli unici perfetti, si autocondannano ad una oscura galera, la cui via termina nelle tenebre del regno infero, il regno della Negazione. Perché il pessimismo è Negazione esso pure.Dio fece dunque il Creato. E come per comprendere il mistero glorioso del nostro Essere uno e trino bisogna saper credere e vedere che fin dal principio il Verbo era, ed era presso Dio, uniti dall’Amore perfettissimo che solo possono effondere due che Dèi sono pur essendo Uno, così ugualmente, per vedere il creato per quello che è, occorre guardarlo con occhi di fede, perché nel suo essere, così come un figlio porta l’incancellabile riflesso del padre, così il creato ha in sé l’incancellabile riflesso del suo Creatore. Vedremo allora che anche qui in principio fu il cielo e la terra, poi fu la luce, paragonabile all’amore. Perché la luce è letizia così come lo è l’amore. E la luce è l’atmosfera del Paradiso. E l’incorporeo Essere che è Dio, Luce è, ed è Padre di ogni luce intellettiva, affettiva, materiale, spirituale, così in Cielo come in terra. In principio fu il cielo e la terra, e per essi fu data la luce e per la luce tutte le cose furono fatte. E come nel Cielo altissimo furono separati gli spiriti di luce da quelli di tenebre, così nel Creato furono separate le tenebre dalla luce e fu fatto il Giorno e la Notte, e il primo giorno del creato fu, col suo mattino e la sua sera, col suo meriggio e la sua mezzanotte. E quando il sorriso di Dio, la Luce, tornò dopo la notte, ecco che la mano di Dio, il suo potente volere, si stese sulla terra informe e vuota, si stese sul cielo su cui vagavano le acque, uno degli elementi liberi nel caos, e volle che il firmamento separasse il disordinato errare delle acque fra cielo e terra, acciò fosse velario ai fulgori paradisiaci, misura alle acque superiori, perché sul ribollire dei metalli e degli atomi non scendessero i diluvi a dilavare e disgregare ciò che Dio riuniva. L’ordine era stabilito nel cielo. E l’ordine fu sulla terra per il comando che Dio dette alle acque sparse sulla terra. E il mare fu. Eccolo. Su esso, come sul firmamento, è scritto. ‘Dio è’. Quale che sia l’intellettualità di un uomo e la sua fede o la sua non fede, davanti a questa pagina, in cui brilla una particella dell’infinità che è Dio, in cui è testimoniata la sua potenza - perché nessuna potenza umana né nessun assestamento naturale di elementi possono ripetere, seppure in minima misura, un simile prodigio - è obbligato a credere. A credere non solo alla potenza ma alla bontà del Signore, che per quel mare dà cibo e vie all’uomo, dà sali salutari, dà tempera al sole e spazio ai venti, dà semi alle terre l’una dall’altra lontane, dà voce di tempeste perché richiamino la formica che è l’uomo all’Infinito suo Padre, dà modo di elevarsi, contemplando più alte visioni, a più alte sfere. Tre sono le cose che più parlano di Dio nel creato che è tutto testimonianza di Lui. La Luce, il firmamento, il mare. L’ordine astrale e meteorologico, riflesso dell’Ordine divino; la luce che solo un Dio poteva fare; il mare, la potenza che solo Dio, dopo averla creata, poteva mettere in saldi confini, dandole moto e voce, senza che per questo, come turbolento elemento di disordine, sia danno alla terra che lo sopporta sulla sua superficie.Penetrate il mistero della luce che mai si consuma. Alzate lo sguardo al firmamento dove ridono le stelle e i pianeti. Abbassate lo sguardo al mare. Vedetelo per quello che è. Non separazione, ma ponte fra i popoli che sono sulle altre sponde, invisibili, ignote anche, ma che bisogna credere che ci siano solo perché è questo mare. Dio non fa nulla di inutile. Non avrebbe perciò fatto questa infinità se essa non avesse a limite, là, oltre l’orizzonte che ci impedisce di vedere, altre terre, popolate da altri uomini, venuti tutti da un unico Dio, portati là per volere di Dio, a popolare continenti e regioni, da tempeste e correnti. E questo mare porta nei suoi flutti, nelle voci delle sue onde e delle sue maree, appelli lontani. Tramite è, non separazione. Quell’ansia che dà dolce angoscia a Giovanni è questo appello di fratelli lontani. Più lo spirito diviene dominatore della carne e più è capace di sentire le voci degli spiriti che sono uniti anche se divisi, così come i rami sgorgati da un’unica radice sono uniti anche se l’uno neppur vede più l’altro perché un ostacolo si frappone fra essi. Guardate il mare con occhi di luce. Vi vedrete terre e terre sparse sulle sue spiagge, ai suoi limiti, e nell’interno terre e terre ancora, e da tutte giunge un grido: ‘Venite! Portateci la Luce che voi possedete. Portateci la Vita che vi viene data. Dite al nostro cuore la parola che ignoriamo ma che sappiamo essere la base dell’universo: amore. Insegnateci a leggere la parola che vediamo tracciata sulle pagine infinite del firmamento e del mare: Dio. Illuminateci perché sentiamo che una luce vi è più vera ancora di quella che arrossa i cieli e fa di gemme il mare. Date alle nostre tenebre la Luce che Dio vi ha data dopo averla generata col suo amore, e l’ha data a voi ma per tutti, così come la dette agli astri ma perché la dessero alle terre. Voi gli astri, noi la polvere. Ma formateci così come il Creatore creò con la polvere la terra perché l’uomo la popolasse adorandolo ora e sempre, finché venga l’ora che più terra non sia, ma venga il Regno. Il Regno della luce, dell’amore, della pace, così come a voi il Dio vivente ha detto che sarà, perché noi pure siamo figli di questo Dio e chiediamo di conoscere il Padre nostro’. E per vie di infinito sappiate andare. Senza timori e senza sdegni. Incontro a quelli che chiamano e piangono. Verso quelli che vi daranno anche dolore perché sentono Dio ma non sanno adorare Dio, ma che pure vi daranno la gloria perché grandi sarete quanto più possedendo l’amore, lo saprete dare, portando alla Verità i popoli che attendono”. Gesù ha detto così, molto meglio di come io ho detto. Ma almeno questo è il suo concetto». «Giovanni, tu hai dato una esatta ripetizione del Maestro. Solo hai lasciato ciò che disse del tuo potere di capire Iddio per la tua generosità di donarti. Tu sei buono, Giovanni. Il migliore fra noi! Abbiamo fatto la via senza avvedercene. Ecco là Nazaret sulle sue colline. Il Maestro ci guarda e ci sorride. Raggiungiamolo solleciti per entrare in città uniti». «Io ti ringrazio, Giovanni» dice la Madonna. «Hai fatto un grande regalo alla Mamma». «Io pure. Anche alla povera Maria tu hai aperto orizzonti infiniti…». «Di che parlavate tanto?» chiede Gesù ai sopraggiungenti. «Giovanni ci ha ripetuto il tuo discorso del Tabor. Perfettamente. E ne fummo beati». «Sono contento che la Madre lo abbia udito, Lei che porta un nome in cui il mare non è estraneo e possiede una carità vasta come il mare». «Figlio mio, Tu la possiedi come Uomo, e nulla ancora è rispetto alla tua infinita carità di Verbo Divino. Mio dolce Gesù!». «Vieni, Mamma, al mio fianco. Come quando tornavamo da Cana o da Gerusalemme quando ero bambino, tu mi tenevi per mano». E si guardano col loro sguardo d’amore.
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano 
http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 27 Dicembre 2015, Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, festa

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 2,41-52.
I genitori di Gesù si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua.
Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l'usanza;
ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero.
Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti;
non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.
Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava.
E tutti quelli che l'udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo».
Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?».
Ma essi non compresero le sue parole.
Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore.
E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 1 Capitolo 40 pagina 246.
Il Tempio in giorni di festa. Folla che entra ed esce dalle porte di cinta, che traversa cortili, atri e portici, che scompare in questa o quella costruzione sita nei diversi ripiani su cui è disseminato l’ag­glomerato del Tempio.
Entra anche, cantando sommessamente dei salmi, la comitiva della famiglia di Gesù. Tutti gli uomini prima, poi le donne. A loro si sono uniti anche altri, forse di Nazaret, forse amici di Gerusa­lemme. Non so.
Giuseppe si separa, dopo aver con tutti adorato l’Altissimo dal punto in cui, si capisce, gli uomini potevano farlo (le donne si sono fermate un ripiano più basso) e col Figlio riattraversa, retroceden­do, dei cortili, poi piega da una parte ed entra in una vasta stanza che ha l’aspetto di una sinagoga. Non so come mai. C’erano anche nel Tempio le sinagoghe? Parla con un levita e questo scompare dietro una tenda a righe per tornare poi con dei sacerdoti anziani, credo siano sacerdoti, certo sono maestri nella conoscenza della Legge e destinati perciò ad esaminare i fedeli.
Giuseppe presenta Gesù. Prima si sono ambedue profondamente inchinati ai dieci dottori, che si sono seduti dignitosamente su dei bassi sgabelli di legno. «Ecco», dice. «Questo è mio figlio. Da tre lune e dodici giorni è entrato nel tempo che la Legge destina per esser maggiorenni. Ma io voglio che lo sia secondo i precetti d’Israele. Vi prego osservare che per la sua complessione Egli mostra di es­sere uscito dalla puerizia e dall’età minore. E vi prego esaminarlo benignamente e giustamente per giudicare che quanto qui io, suo padre, asserisco è verità. Io l’ho preparato per quest’ora e per que­sta sua dignità di figlio della Legge. Egli sa i precetti, le tradizioni, le decisioni, le consuetudini delle fimbrie e delle filatterie, sa recitare le preghiere e le benedizioni quotidiane. Può quindi, conoscendo la Legge in se stessa e nei suoi tre rami dell’Halascia, Midrasc e Aggada, condursi da uomo. Perciò io desidero esser liberato dalla responsabilità delle sue azioni e dei suoi peccati. D’ora in poi Egli sia soggetto ai precetti e sconti di suo le pene per i mancamenti verso di essi. Esaminatelo».
«Lo faremo. Vieni avanti, fanciullo. Il tuo nome?».
«Gesù di Giuseppe, di Nazareth».
«Nazareno… Sai dunque leggere?».
«Sì, rabbi. So leggere le parole scritte e quelle che sono chiuse nelle parole stesse».
«Come vorresti dire?».
«Voglio dire che comprendo anche il significato dell’allegoria o del simbolo che si cela sotto l’ap­parenza, così come la perla non appare ma è nella conchiglia brutta e serrata».
«Risposta non comune e molto saggia. Raramente si ode ciò su labbra adulte; in un bambino, poi, e nazareno per giunta!…».
L’attenzione dei dieci si è fatta sveglia. I loro occhi non perdono un istante di vista il bel fanciullo biondo che li guarda sicuro, senza spavalderia, ma senza paura.
«Tu fai onore al tuo maestro, che, per certo, era assai dotto».
«La Sapienza di Dio era raccolta nel suo cuore giusto».
«Ma udite! Te felice, padre di tal figlio!».
Giuseppe, che è in fondo alla sala, sorride e si inchina.
Dànno a Gesù tre rotoli diversi, dicendo: «Leggi quello serrato da nastro d’oro».
Gesù apre il rotolo e legge. È il Decalogo. Ma, dopo le prime parole, un giudice gli leva il rotolo dicendo: «Presegui a memoria». Gesù lo dice così sicuro che pare che legga. Ogni volta che nomina il Signore si inchina profondamente.
«Chi ti ha insegnato ciò? Perché lo fai?».
«Perché santo è quel Nome e va pronunciato con segno interno ed esterno di rispetto. Al re, che è re per breve tempo, si inchinano i sudditi, e polvere egli è. Al Re dei re, all’altissimo Signore d’Israe­le, presente anche se non visibile che allo spirito, non si dovrà inchinare ogni creatura, che da Lui dipende con sudditanza eterna?».
«Bravo! Uomo, noi ti consigliamo di fare istruire il figlio tuo da Hillel o Gamaliele. È nazareno… ma le sue risposte fanno sperare da Esso un nuovo grande dottore».
«Il figlio è maggiorenne. Farà secondo il suo volere. Io, se sarà volere onesto, non lo contraste­rò».
«Fanciullo, ascolta. Hai detto: “Ricordati di santificare le feste. Ma non solo per te, ma per tuo figlio e figlia e servo e serva, ma persino per il giumento è detto di non fare, il sabato, lavoro”. Or dimmi, se una gallina depone un uovo in sabato od una pecora figlia, sarà lecito usare quel frutto del suo ventre, oppure sarà considerato obbrobrio?».
«So che molti rabbi, ultimo il vivente Sciammai, dicono che l’uovo deposto in sabato è contrario al precetto. Ma Io penso che altro è l’uomo e altro è l’animale o chi compie atto animale come è il par­torire. Se io obbligo il giumento a lavorare, io compio anche il suo peccato, perché io mi impongo con la sferza a farlo lavorare. Ma se una gallina depone l’uovo maturatosi nella sua ovaia, o una pecora genera il figlio in sabato perché ormai maturo al nascere, no, che tale opera non è peccato, né peccato è, agli occhi di Dio, l’uovo e l’agnello in sabato deposti».
«Perché mai, se tutto ed ogni lavoro in sabato è peccato?».
«Perché il concepire e generare corrisponde al volere del Creatore ed è regolato da leggi da Lui da­te ad ogni creato. Or la gallina non fa che ubbidire a quella legge che dice che, dopo tante ore di for­mazione, l’uovo è completo e va deposto, e la pecora pure non fa che ubbidire a quelle leggi messe da Colui che tutto fece, il quale stabilì che due volte l’anno, quando ride primavera sui prati in fiore, e quando si spoglia il bosco delle sue fronde e gelo stringe il petto dell’uomo, le pecore andassero ai loro connubi per dar poi, all’opposto tempo, latte, carne e formaggi sostanziosi, nei mesi di più aspra fatica per le messi, o di più sofferente squallore per i geli. Se dunque una pecora, giunto il suo tem­po, depone il suo nato, oh! questo ben può esser sacro anche all’altare, perché è frutto di ubbidienza al Creatore».
«Io non lo esaminerei oltre. La sua sapienza supera le adulte e stupisce».
«No. Si è detto capace di comprendere anche i simboli. Udiamolo».
«Prima dica un salmo, le benedizioni e le preghiere».
«Anche i precetti».
«Sì. Di’ i midrasciot».
Gesù dice sicuro una litania di «non fare questo… non fare quello…». Se noi dovessimo avere an­cora tutte queste limitazioni, ribelli come siamo, le assicuro che non si salverebbe più nessuno…
«Basta. Apri il rotolo dal nastro verde».
Gesù apre e fa per leggere.
«Più avanti, più ancora».
Gesù ubbidisce.
«Basta. Leggi e spiega, se ti pare che ci sia simbolo».
«Nella Parola santa raramente manca. Siamo noi che non lo sappiamo vedere e applicare. Leggo: 4° libro dei Re, capo 22°, versetto 10: “Safan, scriba, continuando a riferire al re, disse: ‘Il sommo sacerdote Elcia m’ha dato un libro’. Avendolo Safan letto alla presenza del re, il re, udite le parole della Legge del Signore, si stracciò le vesti e poi diede…”».
«Vai oltre i nomi».
«“…quest’ordine: ‘Andate a consultare il Signore per me, per il popolo, per tutto Giuda, riguardo alle parole di questo libro che si è trovato, perché la grande ira di Dio s’è accesa contro di noi perché i padri nostri non ascoltarono le parole di questo libro, in modo da seguirne le prescrizioni’…”».
«Basta. Il fatto avviene molti secoli lontano da noi. Quale simbolo trovi in un fatto di cronaca an­tica?».
«Trovo che non vi è tempo per ciò che è eterno. E eterno è Dio e l’anima nostra, eterni i rapporti fra Dio e l’anima. Perciò, ciò che aveva provocato il castigo allora è la stessa cosa che provoca i ca­stighi ora, e uguali sono gli effetti della colpa».
«Cioè?».
«Israele più non sa la Sapienza, la quale viene da Dio. È a Lui, e non ai poveri uomini, che occor­re chiedere luce, e luce non si ha se non si ha giustizia e fedeltà a Dio. Perciò si pecca, e Dio, nella sua ira, punisce».
«Noi non sappiamo più? Ma che dici, fanciullo? E i 613 precetti?».
«I precetti sono, ma son parole. Li sappiamo ma non li mettiamo in pratica. Perciò non sappiamo. Il simbolo è questo: ogni uomo, in ogni tempo, ha bisogno di consultare il Signore per conoscerne il volere e ad esso attenersi per non attirarne l’ira».
«Il fanciullo è perfetto. Neppure il tranello della domanda insidiosa ha turbato la sua risposta. Sia condotto nella vera sinagoga».
Passano in una stanza più vasta e pomposa. Qui, per prima cosa, gli raccorciano i capelli. I riccio­loni vengono raccolti da Giuseppe. Poi gli stringono la veste rossa con una lunga cintura girata a più giri intorno alla vita, gli legano delle striscioline alla fronte, al braccio e al mantello. Le fissano con delle specie di borchie. Poi cantano salmi e Giuseppe loda con una lunga preghiera il Signore e invo­ca sul Figlio ogni bene.
La cerimonia ha termine. Gesù esce con Giuseppe. Tornano da dove erano venuti, si riuniscono ai parenti maschi, comperano e offrono un agnello; poi, con la vittima sgozzata, raggiungono le donne.
Maria bacia il suo Gesù. Pare sia degli anni che non lo vede. Lo guarda, fatto più uomo nella veste e nei capelli, lo carezza…
Escono e tutto finisce.
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Venerdi 25 Dicembre 2015, Natale del Signore: Messa del giorno, solennità

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 1,1-18.
In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio:
tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta.
Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui.
Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo.
Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe.
Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto.
A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome,
i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli rende testimonianza e grida: «Ecco l'uomo di cui io dissi: Colui che viene dopo di me mi è passato avanti, perché era prima di me».
Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia.
Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio nessuno l'ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato.
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 4 Capitolo 244 pagina 109.
(...) 2Giovanni lascia gli apostoli per venire ad aiutare le donne in un passaggio scabroso su cui i sandali scivolano, molto più che il sentiero è sparso di pietre lisce, come scaglie di ardesia rossastra, e di un’erbetta lucida e dura, molto traditrici per il piede che su esse non ha presa. Lo Zelote lo imita e appoggiandosi a loro le donne superano il punto pericoloso.
«È un poco faticosa questa via. Ma è senza polvere e senza folla. Ed è più breve» dice lo Zelote.
«La conosco, Simone» dice Maria. «Venni a quel paesello a mezza costa, con i nipoti, quando Gesù fu cacciato da Nazaret» dice Maria Ss. e sospira.
«Però è bello da qui il mondo. Ecco là il Tabor e l’Hermon, e a settentrione i monti d’Arbela, e là in fondo il grande Hermon. Peccato che non si veda il mare come si vede dal Tabor» dice Giovanni.
«Ci sei stato?».
«Sì, col Maestro».
«Giovanni, col suo amore per l’infinito, ci ha ottenuto una grande letizia, perché Gesù, là in cima, parlò di Dio con un rapimento mai udito. E poi, dopo aver avuto già tanto, ottenemmo una grande conversione. Lo conoscerai anche tu, Maria. E ti si fortificherà lo spirito più ancora che già non sia. Trovammo un uomo indurito nell’odio, abbrutito dai rimorsi, e Gesù ne fece uno che non esito a dire che sarà un grande discepolo. Come te, Maria. 3Perché, credi pure che è verità ciò che ti dico, noi peccatori siamo i più cedevoli al Bene che ci prende, perché sentiamo il bisogno di essere perdonati anche da noi stessi» dice lo Zelote.
«È vero. Ma tu sei molto buono, dicendo “noi peccatori”. Tu sei stato un disgraziato, non un peccatore».
«Tutti lo siamo, chi più chi meno, e chi crede di esserlo meno è il più soggetto a divenirlo se pure non lo è già. Tutti lo siamo. Ma i più grandi peccatori che si convertono sono quelli che sanno essere assoluti nel Bene come lo furono nel male».
«Il tuo conforto mi solleva. Sei sempre stato un padre per i figli di Teofilo, tu».
«E come un padre giubilo di avervi tutti e tre amici di Gesù».
«Dove lo avete trovato quel discepolo gran peccatore?».
«A Endor, Maria. Simone vuol dare al mio desiderio di vedere il mare il merito di tante cose belle e buone. Ma se Giovanni l’anziano è venuto a Gesù non è per merito di Giovanni lo stolto. È per merito di Giuda di Simone» dice sorridendo il figlio di Zebedeo.
«Lo ha convertito?» chiede dubbiosa Marta.
«No. Ma ha voluto andare ad Endor e…».
«Sì, per vedere l’antro della maga... È un uomo molto strano Giuda di Simone… Bisogna prenderlo come è… Già!… E Giovanni di Endor ci guidò alla caverna e poi rimase con noi. Ma, figlio mio, sempre tuo è il merito, perché senza il tuo desiderio di infinito non avremmo fatto quella via e non sarebbe venuto a Giuda di Simone il desiderio di andare a quella strana ricerca».
4«Mi piacerebbe sapere cosa ha detto Gesù sul Tabor… come mi piacerebbe riconoscere il monte dove lo vidi» sospira Maria Maddalena.
«Il monte è quello su cui pare ora accendersi un sole per quel piccolo stagno, usato dalle greggi, che raccoglie le acque sorgive. Noi eravamo più su, dove la cima pare spaccata come un largo bidente che voglia infilzare le nuvole e portarle altrove. Per il discorso di Gesù, credo che Giovanni te lo può dire».
«Oh! Simone! Può mai un ragazzo ripetere le parole di Dio?».
«Un ragazzo no. Tu sì. Provati. Per compiacenza alle tue sorelle e a me che ti voglio bene».
Giovanni è molto rosso quando inizia a ripetere il discorso di Gesù.
«Egli disse:
“Ecco la pagina infinita su cui le correnti scrivono la parola ‘Credo’. Pensate il caos dell’Universo avanti che il Creatore volesse ordinare gli elementi e costituirli a meravigliosa società, che ha dato agli uomini la terra e quanto contiene e al firmamento gli astri e i pianeti. Tutto già non era. Né come caos informe né come cosa ordinata. Dio la fece. Fece dunque per primi gli elementi. Perché necessari sono, sebbene talora sembra che siano nocivi.
Ma, pensatevelo sempre, non c’è la più piccola stilla di rugiada che non abbia la sua ragione buona di essere; non c’è insetto, per piccolo e noioso che sia, che non abbia la sua ragione buona di essere. E così non c’è mostruosa montagna eruttante dalle viscere fuoco e incandescenti lapilli che non abbia la sua ragione buona di essere. E non vi è ciclone senza motivo. E non vi è - passando dalle cose alle persone - e non vi è evento, non pianto, non gioia, non nascita, non morte, non sterilità o maternità abbondante, non lungo coniugio né rapida vedovanza, non sventura di miserie e malattie, come non prosperità di mezzi e di salute, che non abbia la sua ragione buona di essere, anche se tale non appaia alla miopia e alla superbia umana, che vede e giudica con tutte le cataratte e tutte le nebbie proprie delle cose imperfette. Ma l’occhio di Dio, ma il Pensiero senza limitazioni di Dio, vede e sa. Il segreto per vivere immuni da sterili dubbi che innervosiscono, esauriscono, avvelenano la giornata terrena, è nel saper credere che Dio fa tutto per ragione intelligente e buona, che Dio fa ciò che fa per amore, non nello stolido intento di crucciare per crucciare.
6Dio aveva già creato gli angeli. E parte di essi, per avere voluto non credere che fosse buono il livello di gloria al quale Dio li aveva collocati, si erano ribellati e con l’animo arso dalla mancanza di fede nel loro Signore avevano tentato di assalire il trono irraggiungibile di Dio. Alle armoniose ragioni degli angeli credenti avevano opposto il loro discorde, ingiusto e pessimistico pensiero, e il pessimismo, che è mancanza di fede, li aveva da spiriti di luce fatti divenire spiriti ottenebrati.
Viva in eterno coloro che in Cielo come in terra sanno basare ogni loro pensiero su un presupposto di ottimismo pieno di luce! Mai sbaglieranno completamente, anche se i fatti li smentiranno. Non sbaglieranno almeno per quanto riguarda il loro spirito, il quale continuerà a credere, a sperare, ad amare soprattutto Dio e prossimo, rimanendo perciò in Dio fino ai secoli dei secoli!
Il Paradiso era già stato liberato da questi orgogliosi pessimisti, i quali vedevano nero anche nelle luminosissime opere di Dio, così come in terra i pessimisti vedono nero anche nelle più schiette e solari azioni dell’uomo, e per volersi separare in una torre d’avorio, credendosi gli unici perfetti, si autocondannano ad una oscura galera, la cui via termina nelle tenebre del regno infero, il regno della Negazione. Perché il pessimismo è Negazione esso pure.
7Dio fece dunque il Creato. E come per comprendere il mistero glorioso del nostro Essere uno e trino bisogna saper credere e vedere che fin dal principio il Verbo era, ed era presso Dio, uniti dall’Amore perfettissimo che solo possono effondere due che Dèi sono pur essendo Uno, così ugualmente, per vedere il creato per quello che è, occorre guardarlo con occhi di fede, perché nel suo essere, così come un figlio porta l’incancellabile riflesso del padre, così il creato ha in sé l’incancellabile riflesso del suo Creatore. Vedremo allora che anche qui in principio fu il cielo e la terra, poi fu la luce, paragonabile all’amore. Perché la luce è letizia così come lo è l’amore. E la luce è l’atmosfera del Paradiso. E l’incorporeo Essere che è Dio, Luce è, ed è Padre di ogni luce intellettiva, affettiva, materiale, spirituale, così in Cielo come in terra.
In principio fu il cielo e la terra, e per essi fu data la luce e per la luce tutte le cose furono fatte. E come nel Cielo altissimo furono separati gli spiriti di luce da quelli di tenebre, così nel Creato furono separate le tenebre dalla luce e fu fatto il Giorno e la Notte, e il primo giorno del creato fu, col suo mattino e la sua sera, col suo meriggio e la sua mezzanotte. E quando il sorriso di Dio, la Luce, tornò dopo la notte, ecco che la mano di Dio, il suo potente volere, si stese sulla terra informe e vuota, si stese sul cielo su cui vagavano le acque, uno degli elementi liberi nel caos, e volle che il firmamento separasse il disordinato errare delle acque fra cielo e terra, acciò fosse velario ai fulgori paradisiaci, misura alle acque superiori, perché sul ribollire dei metalli e degli atomi non scendessero i diluvi a dilavare e disgregare ciò che Dio riuniva.
L’ordine era stabilito nel cielo. E l’ordine fu sulla terra per il comando che Dio dette alle acque sparse sulla terra. E il mare fu. Eccolo. Su esso, come sul firmamento, è scritto. ‘Dio è’. Quale che sia l’intellettualità di un uomo e la sua fede o la sua non fede, davanti a questa pagina, in cui brilla una particella dell’infinità che è Dio, in cui è testimoniata la sua potenza - perché nessuna potenza umana né nessun assestamento naturale di elementi possono ripetere, seppure in minima misura, un simile prodigio - è obbligato a credere. A credere non solo alla potenza ma alla bontà del Signore, che per quel mare dà cibo e vie all’uomo, dà sali salutari, dà tempera al sole e spazio ai venti, dà semi alle terre l’una dall’altra lontane, dà voce di tempeste perché richiamino la formica che è l’uomo all’Infinito suo Padre, dà modo di elevarsi, contemplando più alte visioni, a più alte sfere.
8Tre sono le cose che più parlano di Dio nel creato che è tutto testimonianza di Lui. La Luce, il firmamento, il mare. L’ordine astrale e meteorologico, riflesso dell’Ordine divino; la luce che solo un Dio poteva fare; il mare, la potenza che solo Dio, dopo averla creata, poteva mettere in saldi confini, dandole moto e voce, senza che per questo, come turbolento elemento di disordine, sia danno alla terra che lo sopporta sulla sua superficie.
Penetrate il mistero della luce che mai si consuma. Alzate lo sguardo al firmamento dove ridono le stelle e i pianeti. Abbassate lo sguardo al mare. Vedetelo per quello che è. Non separazione, ma ponte fra i popoli che sono sulle altre sponde, invisibili, ignote anche, ma che bisogna credere che ci siano solo perché è questo mare. Dio non fa nulla di inutile. Non avrebbe perciò fatto questa infinità se essa non avesse a limite, là, oltre l’orizzonte che ci impedisce di vedere, altre terre, popolate da altri uomini, venuti tutti da un unico Dio, portati là per volere di Dio, a popolare continenti e regioni, da tempeste e correnti. E questo mare porta nei suoi flutti, nelle voci delle sue onde e delle sue maree, appelli lontani. Tramite è, non separazione.
Quell’ansia che dà dolce angoscia a Giovanni è questo appello di fratelli lontani. Più lo spirito diviene dominatore della carne e più è capace di sentire le voci degli spiriti che sono uniti anche se divisi, così come i rami sgorgati da un’unica radice sono uniti anche se l’uno neppur vede più l’altro perché un ostacolo si frappone fra essi.
Guardate il mare con occhi di luce. Vi vedrete terre e terre sparse sulle sue spiagge, ai suoi limiti, e nell’interno terre e terre ancora, e da tutte giunge un grido: ‘Venite! Portateci la Luce che voi possedete. Portateci la Vita che vi viene data. Dite al nostro cuore la parola che ignoriamo ma che sappiamo essere la base dell’universo: amore. Insegnateci a leggere la parola che vediamo tracciata sulle pagine infinite del firmamento e del mare: Dio. Illuminateci perché sentiamo che una luce vi è più vera ancora di quella che arrossa i cieli e fa di gemme il mare. Date alle nostre tenebre la Luce che Dio vi ha data dopo averla generata col suo amore, e l’ha data a voi ma per tutti, così come la dette agli astri ma perché la dessero alle terre. Voi gli astri, noi la polvere. Ma formateci così come il Creatore creò con la polvere la terra perché l’uomo la popolasse adorandolo ora e sempre, finché venga l’ora che più terra non sia, ma venga il Regno. Il Regno della luce, dell’amore, della pace, così come a voi il Dio vivente ha detto che sarà, perché noi pure siamo figli di questo Dio e chiediamo di conoscere il Padre nostro’.
E per vie di infinito sappiate andare. Senza timori e senza sdegni. Incontro a quelli che chiamano e piangono. Verso quelli che vi daranno anche dolore perché sentono Dio ma non sanno adorare Dio, ma che pure vi daranno la gloria perché grandi sarete quanto più possedendo l’amore, lo saprete dare, portando alla Verità i popoli che attendono”.
9Gesù ha detto così, molto meglio di come io ho detto. Ma almeno questo è il suo concetto».
«Giovanni, tu hai dato una esatta ripetizione del Maestro. Solo hai lasciato ciò che disse del tuo potere di capire Iddio per la tua generosità di donarti. Tu sei buono, Giovanni. Il migliore fra noi! Abbiamo fatto la via senza avvedercene. Ecco là Nazaret sulle sue colline. Il Maestro ci guarda e ci sorride. Raggiungiamolo solleciti per entrare in città uniti».
«Io ti ringrazio, Giovanni» dice la Madonna. «Hai fatto un grande regalo alla Mamma».
«Io pure. Anche alla povera Maria tu hai aperto orizzonti infiniti…».
«Di che parlavate tanto?» chiede Gesù ai sopraggiungenti.
«Giovanni ci ha ripetuto il tuo discorso del Tabor. Perfettamente. E ne fummo beati».
«Sono contento che la Madre lo abbia udito, Lei che porta un nome in cui il mare non è estraneo e possiede una carità vasta come il mare».
«Figlio mio, Tu la possiedi come Uomo, e nulla ancora è rispetto alla tua infinita carità di Verbo Divino. Mio dolce Gesù!».
«Vieni, Mamma, al mio fianco. Come quando tornavamo da Cana o da Gerusalemme quando ero bambino, tu mi tenevi per mano».
E si guardano col loro sguardo d’amore.
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 20 dicembre 2015, IV Domenica di Avvento

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 1,39-45.
In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta.
Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo
ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!
A che debbo che la madre del mio Signore venga a me?
Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo.
E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 1 Capitolo 21 pagina 121 - CD 1, traccia 21
Sono in un luogo montagnoso. Non sono grandi monti ma neppur più colline. Hanno gioghi e insenature da vere montagne, quali se ne vedono sul nostro Appennino tosco-umbro. La vegetazione è folta e bella e vi è abbondanza di fresche acque, che mantengono verdi i pascoli e ubertosi i frutteti, che sono quasi tutti coltivati a meli, fichi e uva: intorno alle case questa. La stagione deve essere primavera, perché i grappoli sono già grossetti, come chicchi di veccia, e i meli hanno già legati i fiori che ora paiono tante palline verdi verdi, e in cima ai rami dei fichi stanno i primi frutti ancora embrionali, ma già ben formati. I prati, poi, sono un vero tappeto soffice e dai mille colori. Su essi brucano le pecore, o riposano, macchie bianche sullo smeraldo dell’erba.
Maria sale, col suo ciuchino per una strada abbastanza in buono stato, che deve essere la via maestra. Sale, perché il paese, dall’aspetto abbastanza ordinato, è più in alto. Il mio interno ammonitore dice: “Questo luogo è Ebron”. Lei mi parlava di Montana. Ma io non so cosa farci. A me viene indicato con questo nome. Non so se sia “Ebron” tutta la zona o “Ebron” il paese. Io sento così e dico così.
Ecco che Maria entra nel paese. Delle donne sulle porte -è verso sera- osservano l’arrivo della forestiera e spettegolano fra di loro. La seguono con l’occhio e non hanno pace sinché non la vedono fermarsi davanti ad una delle più belle case, sita in mezzo del paese, con davanti un orto-giardino e dietro e intorno un ben tenuto frutteto, che poi prosegue in un vasto prato, che sale e scende per le sinuosità del monte e finisce in un bosco di alte piante, oltre il quale non so che ci sia. Tutto è recinto da una siepe di more selvatiche o di rose selvatiche. Non distinguo bene, perché, se lei ha presente, il fiore e la fronda di questi spinosi cespugli sono molto simili e, finché non c’è il frutto sui rami, è facile sbagliarsi. Sul davanti della casa, sul lato perciò che costeggia il paese, il luogo è cinto da un muretto bianco, su cui corrono dei rami di veri rosai, per ora senza fiori ma già pieni di bocci. Al centro un cancello di ferro, chiuso. Si capisce che è la casa di un notabile del paese e di persone benestanti, perché tutto in essa mostra, se non ricchezza e sfarzo, agiatezza certo. E molto ordine.
Maria scende dal ciuchino e si accosta al cancello. Guarda fra le sbarre. Non vede nessuno. Allora cerca di farsi sentire. Una donnetta, che più curiosa di tutte l’ha seguita, le indica un bizzarro utensile che fa da campanello. Sono due pezzi di metallo messi a bilico di una specie di giogo, i quali, scuotendo il giogo con una fune, battono fra di loro col suono di una campana o di un gong.
Maria tira, ma così gentilmente che il suono è un lieve tintinnio, e nessuno lo sente. Allora la donnetta, una vecchietta tutta naso e bazza e con una lingua che ne vale dieci messe insieme, si afferra alla fune e tira, tira, tira. Una suonata da far destare un morto. “Si fa così, donna. Altrimenti come fate a farvi sentire? Sapete, Elisabetta è vecchia e vecchio Zaccaria. Ora poi è anche muto, oltre che sordo. Sono vecchi anche i due servi, sapete? Siete mai venuta? Conoscete Zaccaria? Siete...”
A salvare Maria dal diluvio di notizie e di domande, spunta un vecchietto arrancante, che deve essere un giardiniere o un agricoltore, perché ha in mano un sarchiello e legata alla vita una roncola. Apre, e Maria entra ringraziando la donnetta, ma.... ahi! lasciandola senza risposta. Che delusione per la curiosa!
Appena dentro, Maria dice: “Sono Maria di Giovacchino e di Anna, di Nazareth. Cugina dei padroni vostri.”
Il vecchietto si inchina e saluta, e poi dà una voce, chiamando: “Sara! Sara!” E riapre il cancello per prendere il ciuchino rimasto fuori, perché Maria, per liberarsi della appiccicosa donnetta, è sgusciata dentro svelta svelta, e il giardiniere, svelto quanto Lei, ha chiuso il cancello sul naso della comare. E, intanto che fa passare il ciuco, dice: “Ah! gran felicità e gran disgrazia a questa casa! Il Cielo ha concesso un figlio alla sterile, l’Altissimo ne sia benedetto! Ma Zaccaria è tornato, sette mesi or sono, da Gerusalemme, muto. Si fa intendere a cenni o scrivendo. L’avete forse saputo? La padrona mia vi ha tanto desiderata in questa gioia e in questo dolore! Sempre parlava con Sara di voi e diceva: “Avessi la mia piccola Maria con me! Fosse ancora stata nel Tempio! Avrei mandato Zaccaria a prenderla. Ma ora il Signore l’ha voluta sposa a Giuseppe di Nazareth. Solo Lei poteva darmi conforto in questo dolore e pregare Dio, perché Ella è tutta buona. E nel Tempio tutti la rimpiangono. La passata festa, quando andai con Zaccaria per l’ultima volta a Gerusalemme a ringraziare Iddio d’avermi dato un figlio, ho sentito le sue maestre dirmi: “Il Tempio pare senza i cherubini della gloria da quando la voce di Maria non suona più fra queste mura.” “Sara! Sara! E’ un poco sorda la donna mia. Ma vieni, vieni, ché ti conduco io.”
Invece di Sara, spunta sul sommo di una scala, che fiancheggia un lato della casa, una donna molto vecchiotta, già tutta rugosa e brizzolata intensamente nei capelli, che prima dovevano essere nerissimi perché ha nerissime anche le ciglia e le sopracciglia, e che fosse bruna lo denuncia il colore del volto. Contrasto strano con la palese vecchiezza è il suo stato già molto palese, nonostante le vesti ampie e sciolte. Guarda facendosi solecchio con la mano. Riconosce Maria. Alza le braccia al cielo in un : “ Oh!” stupito e gioioso, e si precipita, per quanto può, incontro a Maria. Anche Maria, che è sempre pacata nel muoversi, corre, ora, svelta come un cerbiatto, e giunge ai piedi della scala quando vi giunge anche Elisabetta, e Maria riceve sul cuore con viva espansione la sua cugina, che piange di gioia vedendola.
Stanno abbracciate un attimo e poi Elisabetta si stacca con un : Ah!” misto di dolore e di gioia, e si porta le mani sul ventre ingrossato. China il viso impallidendo e arrossendo alternativamente. Maria e il servo stendono le mani per sostenerla, perché ella vacilla come se si sentisse male.
Ma Elisabetta, dopo esser stata un minuto come raccolta in sé, alza un volto talmente radioso che pare ringiovanito, guarda Maria sorridendo con venerazione come vedesse un angelo, e poi si china in un profondo saluto dicendo: “Benedetta tu fra tutte le donne! Benedetto il Frutto del tuo seno! (dice così: due frasi ben staccate). Come ho meritato che venga a me, tua serva, la Madre del mio Signore? Ecco, al suono della tua voce il bambino m’è balzato in seno come per giubilo e quando t'ho abbracciata lo Spirito del Signore mi ha detto altissime verità al cuore. Te beata, perché hai creduto che a Dio fosse possibile anche ciò che non appare possibile ad umana mente! Te benedetta, che per la tua fede farai compiere le cose a te predette dal Signore e predette dai Profeti per questo tempo! Te benedetta, per la Salute che generi alla stirpe di Giacobbe! Te benedetta, per aver portato la Santità al figlio mio che, lo sento, balza come un capretto festante, di giubilo, nel mio seno, perché si sente liberato dal peso della colpa, chiamato ad esser colui che precede, santificato prima della Redenzione dal Santo che cresce in te!”
Maria, con due lacrime che scendono come perle dagli occhi che ridono alla bocca che sorride, col volto levato al cielo e le braccia pure levate, nella posa che poi tante volte avrà il suo Gesù, esclama: “L’anima mia magnifica il suo Signore” e continua il cantico così come è stato tramandato. Alla fine al versetto: “Ha soccorso Israele suo servo, ecc.” raccoglie le mani sul petto e si inginocchia molto curva a terra, adorando Dio.
Il servo, che si era prudentemente eclissato quando aveva visto che Elisabetta non si sentiva male, ma che anzi confidava il suo pensiero a Maria, torna dal frutteto con un imponente vecchio tutto bianco nella barba e nei capelli, il quale con grandi gesti e suoni gutturali saluta di lontano Maria.
“Zaccaria giunge” dice Elisabetta, toccando sulla spalla la Vergine assorta in preghiera. “Il mio Zaccaria è muto. Dio lo ha colpito per non aver creduto. Ti dirò poi. Ma ora spero nel perdono di Dio, poiché tu sei venuta. Tu, piena di Grazia.”
Maria si leva e va incontro a Zaccaria e si curva davanti a lui fino a terra, baciandogli il lembo della veste bianca che lo copre sino al suolo, E’ molto ampia, questa veste, e tenuta a posto alla vita da un alto gallone ricamato.
Zaccaria, a gesti, dà il benvenuto e insieme raggiungono Elisabetta ed entrano tutti in una stanza terrena molto ben messa, nella quale fanno sedere Maria e le fanno servire una tazza di latte appena munto -ha ancora la spuma- e delle piccole focacce.
Elisabetta dà ordini alla servente, finalmente comparsa con le mani ancora impastate di farina e i capelli ancor più bianchi di quanto non siano per la farina che vi è sopra. Forse faceva il pane. Dà ordini anche al servo, che sento chiamare Samuele, perché porti il cofano di Maria in una camera che gli indica. Tutti i doveri di una padrona di casa verso la sua ospite.
Maria risponde intanto alle domande, che Zaccaria le fa scrivendole su una tavoletta cerata con uno stilo. Comprendo dalle risposte che egli le chiede di Giuseppe e del come si trova sposata a lui. Ma comprendo anche che a Zaccaria è negata ogni luce soprannaturale circa lo stato di Maria e la sua condizione di Madre del Messia. E’ Elisabetta che, andando presso il suo uomo e posandogli con amore una mano sulla spalla, come per una casta carezza, gli dice: “Maria è madre Ella pure. Giubila per la sua felicità”. Ma non dice altro. Guarda Maria. E Maria la guarda, ma non l’invita a dire di più, ed ella tace.

Dolce, dolcissima visione! Essa mi annulla l’orrore rimasto dalla vista del suicidio di Giuda.
Ieri sera, prima del sopore, vidi il pianto di Maria, curva sulla pietra dell’unzione, sul corpo spento del Redentore. Era al suo fianco destro, dando le spalle all’apertura della grotta sepolcrale. La luce delle torce le batteva sul viso e mi faceva vedere il suo povero viso devastato dal dolore, lavato dal pianto. Prendeva la mano di Gesù, la accarezzava, se la scaldava sulle guance, la baciava, ne stendeva le dita.... una per una le baciava, queste dita senza più moto. Poi carezzava il volto, si curvava a baciare la bocca aperta, gli occhi socchiusi, la fronte ferita. La luce rossastra delle torce fa apparire ancor più vive le piaghe di tutto quel corpo torturato e più veritiera la crudezza della tortura subita e la realtà del suo esser morto.
E così sono rimasta contemplando sinché m’è rimasta lucida l’intelligenza. Poi, risvegliata dal sopore, ho pregato e mi sono messa quieta per dormire davvero. E mi è cominciata la suddescritta visione. Ma la Mamma mi ha detto: “Non ti muovere. Guarda unicamente. Scriverai domani.” Nel sonno ho poi sognato di nuovo tutto. Svegliata alle 6,30, ho rivisto quanto avevo visto da sveglia e in sogno. E ho scritto mentre vedevo. Poi è venuto lei, e le ho potuto chiedere se dovevo mettere quanto segue. Sono quadretti staccati della permanenza di Maria in casa di Zaccaria.
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 13 Dicembre 2015, III Domenica di Avvento - 'Gaudete' - Anno C

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 3,10-18.
Le folle lo interrogavano: «Che cosa dobbiamo fare?».
Rispondeva: «Chi ha due tuniche, ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto».
Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare, e gli chiesero: «Maestro, che dobbiamo fare?».
Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato».
Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi che dobbiamo fare?». Rispose: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe».
Poiché il popolo era in attesa e tutti si domandavano in cuor loro, riguardo a Giovanni, se non fosse lui il Cristo,
Giovanni rispose a tutti dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene uno che è più forte di me, al quale io non son degno di sciogliere neppure il legaccio dei sandali: costui vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco.
Egli ha in mano il ventilabro per ripulire la sua aia e per raccogliere il frumento nel granaio; ma la pula, la brucerà con fuoco inestinguibile».
Con molte altre esortazioni annunziava al popolo la buona novella.
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 1 Capitolo 45 pagina 281.
[Stesso testo della settimana scorse]
Vedo una pianura spopolata di paesi e di vegetazione. Non ci sono campi coltivati, e ben poche e rare piante riunite qua e là a ciuffi, come vegetali famiglie, dove il suolo è nelle profondità meno arso che non sia in genere. Faccia conto che questo terreno arsiccio e incolto sia alla mia destra, avendo io il nord alle spalle, e si prolunghi verso quello che è a sud rispetto a me.
A sinistra invece vedo un fiume di sponde molto basse, che scorre lentamente esso pure da nord a sud. Dal moto lentissimo dell’acqua comprendo che non vi devono essere dislivelli nel suo letto e che questo fiume scorre in una pianura talmente piatta da costituire una depressione. Vi è un moto appena sufficiente acciò l’acqua non stagni in palude. L’acqua è poco fonda, tanto che si vede il fondale. Giudico non più di un metro, al massimo un metro e mezzo. Largo come è l’Arno verso S.Miniato-Empoli: direi un venti metri. Ma io non ho occhio esatto nel calcolare. Pure è d’un azzurro lievemente verde verso le sponde, dove per l’umidore del suolo è una fascia di verde folta e rallegrante l’occhio, che rimane stanco dallo squallore petroso e renoso di quanto gli si stende avanti.
Quella voce intima che le ho spiegato di udire e che mi indica ciò che devo notare e sapere, mi avverte che io vedo la valle del Giordano. La chiamo valle, perché si dice così per indicare il posto dove scorre un fiume, ma qui è improprio di chiamarla così, perché una valle presuppone dei monti, ed io qui di monti non ne vedo vicini. Ma insomma sono presso il Giordano e lo spazio desolato, che osservo alla mia destra, è il deserto di Giuda. Se dire deserto per dire un luogo dove non ci sono case e lavori dell’uomo è giusto, non lo è secondo il concetto che noi abbiamo del deserto. Qui non le arene ondulate del deserto come lo concepiamo noi, ma solo terra nuda, sparsa di pietre e detriti, come sono i terreni alluvionali dopo una piena. In lontananza, delle colline.
Pure, presso il Giordano, vi è una grande pace, un che di speciale, di superiore al comune, come è quello che si nota sulle sponde del Trasimeno. E’ un luogo che pare ricordarsi di voli d’angeli e di voci celesti. Non so dire bene ciò che provo. Ma mi sento in un posto che parla allo spirito.
Mentre osservo queste cose, vedo che la scena si popola di gente lungo la riva destra (rispetto a me) del Giordano. Vi sono molti uomini vestiti in maniere diverse. Alcuni appaiono popolani, altri dei ricchi, non mancano alcuni che paiono farisei per la veste ornata di frange e galloni.
In mezzo ad essi, in piedi su un masso, un uomo che, per quanto è la prima volta che lo vedo, riconosco subito per il Battista. Parla alla folla, e le assicuro che non è una predica dolce. Gesù ha chiamato Giacomo e Giovanni ‘i figli del tuono’. Ma allora come chiamare questo veemente oratore? Giovanni Battista merita il nome di fulmine, valanga, terremoto, tanto è impetuoso e severo nel suo parlare e nel suo gestire.
Parla annunciando il Messia ed esortando a preparare i cuori alla sua venuta estirpando da essi gli ingombri e raddrizzando i pensieri. Ma è un parlare vorticoso e rude. Il Precursore non ha la mano leggera di Gesù sulle piaghe dei cuori. E’ un medico che denuda e fruga e taglia senza pietà.
Mentre lo ascolto -e non ripeto le parole perché sono quelle riportate dagli Evangelisti, ma amplificate con irruenza- vedo avanzarsi lungo una stradicciola , che è ai bordi della linea erbosa e ombrosa che costeggia il Giordano, il mio Gesù. Questa rustica via, più sentiero che via, sembra disegnata dalle carovane e dalle persone che per anni e secoli l’hanno percorsa per giungere ad un punto dove, essendo il fondale del fiume più alto, è facile il guado. Il sentiero continua dall’altro lato del fiume e si perde fra il verde dell’altra sponda.(...)
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 6 Dicembre 2015, II DOMENICA DI AVVENTO - ANNO C

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 3,1-6.
Nell'anno decimoquinto dell'impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell'Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell'Abilène,
sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto.
Ed egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati,
com'è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaia: Voce di uno che grida nel deserto: Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni burrone sia riempito, ogni monte e ogni colle sia abbassato; i passi tortuosi siano diritti; i luoghi impervi spianati.
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 1 Capitolo 45 pagina 281.
Vedo una pianura spopolata di paesi e di vegetazione. Non ci sono campi coltivati, e ben poche e rare piante riunite qua e là a ciuffi, come vegetali famiglie, dove il suolo è nelle profondità meno arso che non sia in genere. Faccia conto che questo terreno arsiccio e incolto sia alla mia destra, avendo io il nord alle spalle, e si prolunghi verso quello che è a sud rispetto a me.
A sinistra invece vedo un fiume di sponde molto basse, che scorre lentamente esso pure da nord a sud. Dal moto lentissimo dell’acqua comprendo che non vi devono essere dislivelli nel suo letto e che questo fiume scorre in una pianura talmente piatta da costituire una depressione. Vi è un moto appena sufficiente acciò l’acqua non stagni in palude. L’acqua è poco fonda, tanto che si vede il fondale. Giudico non più di un metro, al massimo un metro e mezzo. Largo come è l’Arno verso S.Miniato-Empoli: direi un venti metri. Ma io non ho occhio esatto nel calcolare. Pure è d’un azzurro lievemente verde verso le sponde, dove per l’umidore del suolo è una fascia di verde folta e rallegrante l’occhio, che rimane stanco dallo squallore petroso e renoso di quanto gli si stende avanti.
Quella voce intima che le ho spiegato di udire e che mi indica ciò che devo notare e sapere, mi avverte che io vedo la valle del Giordano. La chiamo valle, perché si dice così per indicare il posto dove scorre un fiume, ma qui è improprio di chiamarla così, perché una valle presuppone dei monti, ed io qui di monti non ne vedo vicini. Ma insomma sono presso il Giordano e lo spazio desolato, che osservo alla mia destra, è il deserto di Giuda. Se dire deserto per dire un luogo dove non ci sono case e lavori dell’uomo è giusto, non lo è secondo il concetto che noi abbiamo del deserto. Qui non le arene ondulate del deserto come lo concepiamo noi, ma solo terra nuda, sparsa di pietre e detriti, come sono i terreni alluvionali dopo una piena. In lontananza, delle colline.
Pure, presso il Giordano, vi è una grande pace, un che di speciale, di superiore al comune, come è quello che si nota sulle sponde del Trasimeno. E’ un luogo che pare ricordarsi di voli d’angeli e di voci celesti. Non so dire bene ciò che provo. Ma mi sento in un posto che parla allo spirito.
Mentre osservo queste cose, vedo che la scena si popola di gente lungo la riva destra (rispetto a me) del Giordano. Vi sono molti uomini vestiti in maniere diverse. Alcuni appaiono popolani, altri dei ricchi, non mancano alcuni che paiono farisei per la veste ornata di frange e galloni.
In mezzo ad essi, in piedi su un masso, un uomo che, per quanto è la prima volta che lo vedo, riconosco subito per il Battista. Parla alla folla, e le assicuro che non è una predica dolce. Gesù ha chiamato Giacomo e Giovanni ‘i figli del tuono’. Ma allora come chiamare questo veemente oratore? Giovanni Battista merita il nome di fulmine, valanga, terremoto, tanto è impetuoso e severo nel suo parlare e nel suo gestire.
Parla annunciando il Messia ed esortando a preparare i cuori alla sua venuta estirpando da essi gli ingombri e raddrizzando i pensieri. Ma è un parlare vorticoso e rude. Il Precursore non ha la mano leggera di Gesù sulle piaghe dei cuori. E’ un medico che denuda e fruga e taglia senza pietà.
Mentre lo ascolto -e non ripeto le parole perché sono quelle riportate dagli Evangelisti, ma amplificate con irruenza- vedo avanzarsi lungo una stradicciola , che è ai bordi della linea erbosa e ombrosa che costeggia il Giordano, il mio Gesù. Questa rustica via, più sentiero che via, sembra disegnata dalle carovane e dalle persone che per anni e secoli l’hanno percorsa per giungere ad un punto dove, essendo il fondale del fiume più alto, è facile il guado. Il sentiero continua dall’altro lato del fiume e si perde fra il verde dell’altra sponda.(...)
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 29 Novembre 2015, I Domenica di Avvento - Anno C

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 21,25-28.34-36.
Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti,
mentre gli uomini moriranno per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte.
Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire su una nube con potenza e gloria grande.
Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina».
State bene attenti che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso improvviso;
come un laccio esso si abbatterà sopra tutti coloro che abitano sulla faccia di tutta la terra.
Vegliate e pregate in ogni momento, perché abbiate la forza di sfuggire a tutto ciò che deve accadere, e di comparire davanti al Figlio dell'uomo».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 9 Capitolo 596 pagina 387.
(...) Pietro e Giovanni parlano fra di loro e poi sussurrano qualcosa a Giacomo d’Alfeo e ad Andrea, loro vicini, i quali annuiscono col capo. Allora Pietro si rivolge al Maestro e gli dice: «Vieni in disparte e spiegaci quando avverrà la tua profezia sulla distruzione del Tempio. Daniele ne parla, ma se fosse come lui dice e come Tu dici, poche ore avrebbe ancora il Tempio. Ma noi non vediamo eserciti né preparativi di guerra. Quando dunque avverrà? Quale sarà il segno di esso? Tu sei venuto. Tu, dici, stai per andare via. Eppure si sa che essa non sarà che quando Tu sarai fra gli uomini. Tornerai, allora? Quando, questo tuo ritorno? Spiegaci, perché noi si possa sapere...».
«Non occorre mettersi in disparte. Vedi? Sono rimasti i discepoli più fedeli, quelli che saranno a voi dodici di grande aiuto. Essi possono sentire le parole che dico a voi. Venitemi tutti vicino!», grida in ultimo per radunare tutti.
I discepoli, sparsi sul pendio, si avvicinano, fanno un mucchio compatto, stretto intorno a quello principale di Gesù coi suoi apostoli, e ascoltano.

44«Badate che nessuno vi seduca in futuro. Io sono il Cristo e non vi saranno altri Cristi. Perciò, quando molti verranno a dirvi: “Io sono il Cristo” e sedurranno molti, voi non credete a quelle parole, neppure se saranno accompagnate da prodigi. Satana, padre di menzogna e protettore dei menzogneri, aiuta i suoi servi e seguaci con falsi prodigi, che però possono essere riconosciuti non buoni perché sempre uniti a paura, turbamento e menzogna. I prodigi di Dio voi li conoscete: dànno pace santa, letizia, salute, fede, conducono a desideri e opere sante. Gli altri no. Perciò riflettete sulla forma e le conseguenze dei prodigi che potrete vedere in futuro ad opera dei falsi Cristi e di tutti coloro che si ammanteranno nelle vesti di salvatori di popoli e saranno invece le belve che rovinano gli stessi.
Sentirete anche, e vedrete anche, parlare di guerre e di rumori di guerre e vi diranno: “Sono i segni della fine”. Non turbatevi. Non sarà la fine. Bisogna che tutto questo avvenga prima della fine, ma non sarà ancora la fine. Si solleverà popolo contro popolo, regno contro regno, nazione contro nazione, continente contro continente, e seguiranno pestilenze, carestie, terremoti in molti luoghi. Ma questo non sarà che il principio dei dolori. Allora vi getteranno nella tribolazione e vi uccideranno, accusandovi di essere i colpevoli del loro soffrire e sperando di uscirne col perseguitare e distruggere i miei servi.
Gli uomini fanno sempre accusa agli innocenti di esser causa del male che essi, peccatori, si creano. Accusano Dio stesso, perfetta Innocenza e Bontà suprema, di esser causa del loro soffrire, e così faranno con voi, e voi sarete odiati per causa del mio Nome. È Satana che li aizza. E molti si scandalizzeranno e si tradiranno e odieranno a vicenda. È ancor Satana che li aizza. E sorgeranno falsi profeti che indurranno molti in errore. Ancora sarà Satana il vero autore di tanto male. E per il moltiplicarsi dell’iniquità si raffredderà la carità in molti. Ma chi avrà perseverato sino alla fine sarà salvo. E prima bisogna che questo Vangelo del Regno di Dio sia predicato in tutto il mondo, testimonianza a tutte le nazioni. Allora verrà la fine. Ritorno al Cristo di Israele che lo accoglie e predicazione della mia Dottrina in tutto il mondo.

45E poi un altro segno. Un segno per la fine del Tempio e per la fine del mondo. Quando vedrete l’abominazione della desolazione predetta da Daniele - chi mi ascolta bene intenda, e chi legge il Profeta sappia leggere fra le parole - allora chi sarà in Giudea fugga sui monti, chi sarà sulla terrazza non scenda a prendere quanto ha in casa, e chi è nel suo campo non torni in casa a prendere il suo mantello, ma fugga senza volgersi indietro, ché non gli accada di non poterlo più fare, e neppure si volga nel fuggire a guardare, per non conservare nel cuore lo spettacolo orrendo e insanire per esso. Guai alle gravide e a quelle che allatteranno in quei giorni! E guai se la fuga dovesse compiersi in sabato! Non sarebbe sufficiente la fuga a salvarsi senza peccare. Pregate dunque perché non avvenga in inverno e in giorno di sabato, perché allora la tribolazione sarà grande quale mai non fu dal principio del mondo fino ad ora, né sarà mai più simile perché sarà la fine. Se non fossero abbreviati quei giorni in grazia degli eletti, nessuno si salverebbe, perché gli uomini-satana si alleeranno all’inferno per dare tormento agli uomini.
E anche allora, per corrompere e trarre fuori della via giusta coloro che resteranno fedeli al Signore, sorgeranno quelli che diranno: “Il Cristo è là, il Cristo è qua. È in quel luogo. Eccolo”. Non credete. Nessuno creda, perché sorgeranno falsi Cristi e falsi profeti che faranno prodigi e portenti tali da indurre in errore, se fosse possibile, anche gli eletti, e diranno dottrine in apparenza così confortevoli e buone a sedurre anche i migliori, se con loro non fosse lo Spirito di Dio che li illuminerà sulla verità e l’origine satanica di tali prodigi e dottrine. Io ve lo dico. Io ve lo predico perché voi possiate regolarvi. Ma di cadere non temete. Se starete nel Signore non sarete tratti in tentazione e in rovina. Ricordate ciò che vi ho detto: “Vi ho dato il potere di camminare su serpenti e scorpioni, e di tutta la potenza del Nemico nulla vi nuocerà, perché tutto vi sarà soggetto”. Vi ricordo anche però che per ottenere questo dovete avere Dio in voi, e rallegrarvi dovete, non perché dominate le potenze del Male e le venefiche cose, ma perché il vostro nome è scritto in Cielo.

46State nel Signore e nella sua verità. Io sono la Verità e insegno la verità. Perciò ancora vi ripeto: qualunque cosa vi dicano di Me, non credete. Io solo ho detto la verità. Io solo vi dico che il Cristo verrà, ma quando sarà la fine. Perciò, se vi dicono: “È nel deserto”, non andate. Se vi dicono: “È in quella casa”, non date retta. Perché il Figlio dell’uomo nella sua seconda venuta sarà simile al lampo che esce da levante e guizza fino a ponente, in un tempo più breve di quel che non sia il batter di una palpebra. E scorrerà sul grande Corpo, di subito fatto Cadavere, seguito dai suoi fulgenti angeli, e giudicherà. Là dovunque sarà corpo là si raduneranno le aquile. E subito dopo la tribolazione di quei giorni ultimi, che vi fu detta - parlo già della fine del tempo e del mondo e della risurrezione delle ossa, delle quali cose parlano i profeti - si oscurerà il sole, e la luna non darà più luce, e le stelle del cielo cadranno come acini da un grappolo troppo maturo che un vento di bufera scuote, e le potenze dei Cieli tremeranno.
E allora nel firmamento oscurato apparirà folgorante il segno del Figlio dell’uomo, e piangeranno tutte le nazioni della Terra, e gli uomini vedranno il Figlio dell’uomo venir sulle nubi del cielo con grande potenza e gloria. Ed Egli comanderà ai suoi angeli di mietere e vendemmiare, e di separare i logli dal grano, e di gettare le uve nel tino, perché sarà venuto il tempo del grande raccolto del seme di Adamo, e non ci sarà più bisogno di serbare racimolo o semente, perché non ci sarà mai più perpetuazione della specie umana sulla Terra morta. E comanderà ai suoi angeli che a gran voce di trombe adunino gli eletti dai quattro venti, da un’estremità all’altra dei cieli, perché siano al fianco del Giudice divino per giudicare con Lui gli ultimi viventi ed i risorti.

47Dal fico imparate la similitudine: quando vedete che il suo ramo si fa tenero e mette le foglie, voi sapete che vicina è l’estate. Così anche, quando vedrete tutte queste cose, sappiate che il Cristo sta per venire. In verità vi dico: non passerà questa generazione che non mi volle, prima che tutto ciò avvenga.
La mia parola non cade. Ciò che dico sarà. Il cuore e il pensiero degli uomini possono mutare, ma non muta la mia parola. Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno. Quanto poi al giorno e all’ora precisa, nessuno li conosce, neppure gli angeli del Signore, ma soltanto il Padre li conosce.

48Come ai tempi di Noè, così avverrà alla venuta del Figlio dell’uomo. Nei giorni precedenti al diluvio, gli uomini mangiavano, bevevano, si sposavano, si accasavano, senza darsi pensiero del segno sino al giorno in cui Noè entrò nell’arca e si aprirono le cataratte dei cieli e il diluvio sommerse ogni vivente e ogni cosa. Anche così sarà per la venuta del Figlio dell’uomo. Allora due uomini saranno accosto nel campo, e uno sarà preso e uno sarà lasciato, e due donne saranno intente a far andare la mola, e una sarà presa e una lasciata, dai nemici nella Patria e più ancora dagli angeli separanti il buon seme dal loglio, e non avranno tempo di prepararsi al giudizio del Cristo.
Vegliate dunque perché non sapete a che ora verrà il vostro Signore. Ripensate a questo: se il capo di famiglia sapesse a che ora viene il ladro, veglierebbe e non lascerebbe spogliare la sua casa. Quindi vegliate e pregate, stando sempre preparati alla venuta, senza che i vostri cuori cadano in torpore, per abuso e intemperanza di ogni specie, e i vostri spiriti siano fatti distratti e ottusi alle cose del Cielo dalle eccessive cure per le cose della Terra, e il laccio della morte non vi colga improvviso quando siete impreparati. Perché, ricordate, tutti avete a morire. Tutti gli uomini, nati che siano, devono morire, ed è una singola venuta del Cristo questa morte e questo susseguente giudizio, che avrà il suo ripetersi universale alla venuta solenne del Figlio dell’uomo.

49Che sarà mai di quel servo fedele e prudente, preposto dal padrone ad amministrare il cibo ai domestici in sua assenza? Beata sorte egli avrà se il suo padrone, tornando all’improvviso, lo trova a fare ciò che deve con solerzia, giustizia e amore. In verità vi dico che gli dirà: “Vieni, servo buono e fedele. Tu hai meritato il mio premio. Tieni, amministra tutti i miei beni”. Ma se egli pareva, e non era, buono e fedele, e nell’interno suo era cattivo come all’esterno era ipocrita, e partito il padrone dirà in cuor suo: “Il padrone tarderà a tornare! Diamoci al bel tempo”, e comincerà a battere e malmenare i conservi, facendo usura su loro nel cibo e in ogni altra cosa per avere maggior denaro da consumare coi gozzovigliatori e ubbriaconi, che avverrà? Che il padrone tornerà all’improvviso, quando il servo non se lo pensa vicino, e verrà scoperto il suo malfare, gli verrà levato posto e denaro, e sarà cacciato dove giustizia vuole. E ivi starà.
E così del peccatore impenitente, che non pensa come la morte può essere vicina e vicino il suo giudizio, e gode e abusa dicendo: “Poi mi pentirò”. In verità vi dico che egli non avrà tempo di farlo e sarà condannato a stare in eterno nel luogo del tremendo orrore, dove è solo bestemmia e pianto e tortura, e ne uscirà soltanto per il Giudizio finale, quando rivestirà la carne risorta per presentarsi completo al Giudizio ultimo come completo peccò nel tempo della vita terrena, e con corpo ed anima si presenterà al Giudice Gesù che egli non volle per Salvatore.

50Tutti là accolti davanti al Figlio dell’uomo. Una moltitudine infinita di corpi, restituiti dalla terra e dal mare e ricomposti dopo essere stati cenere per tanto
tempo. E gli spiriti nei corpi. Ad ogni carne tornata sugli scheletri corrisponderà il proprio spirito, quello che l’animava un tempo. E staranno ritti davanti al Figlio dell’uomo, splendido nella sua Maestà divina, seduto sul trono della sua gloria sorretto dai suoi angeli.
Ed Egli separerà uomini da uomini, mettendo da un lato i buoni e dall’altro i cattivi, come un pastore separa le pecorelle dai capretti, e metterà le sue pecore a destra e i capri a sinistra. E dirà con dolce voce e benigno aspetto a quelli che, pacifici e belli di una bellezza gloriosa nello splendore del corpo santo, lo guarderanno con tutto l’amore del loro cuore: “Venite, o benedetti dal Padre mio, prendete possesso del Regno preparato per voi sino dall’origine del mondo. Perché ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi deste da bere, fui pellegrino e mi ospitaste, fui nudo e mi rivestiste, malato e mi visitaste, prigioniero e veniste a portarmi conforto”.
E i giusti gli chiederanno: “Quando mai, Signore, ti vedemmo affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti vedemmo pellegrino e ti abbiamo accolto, nudo e ti abbiamo rivestito? Quando ti vedemmo infermo e carcerato e siamo venuti a visitarti?”.
E il Re dei re dirà loro: “In verità vi dico: quando avete fatto una di queste cose ad uno di questi minimi fra i miei fratelli, allora lo avete fatto a Me”.
E poi si volgerà a quelli che saranno alla sua sinistra e dirà loro, severo nel volto, e i suoi sguardi saranno come saette fulminanti i reprobi, e nella sua voce tuonerà l’ira di Dio: “Via di qua! Via da Me, o maledetti! Nel fuoco eterno preparato dal furore di Dio per il demonio e gli angeli tenebrosi e per coloro che li hanno ascoltati nelle loro voci di libidine triplice e oscena. Io ebbi fame e non mi sfamaste, sete e non mi dissetaste, fui nudo e non mi rivestiste, pellegrino e mi respingeste, infermo e carcerato e non mi visitaste. Perché non avevate che una legge: il piacere del vostro io”.
Ed essi gli diranno: “Quando ti abbiamo visto affamato, assetato, nudo, pellegrino, infermo, carcerato? In verità noi non ti abbiamo conosciuto. Non eravamo, quando Tu eri sulla Terra”.
Ed Egli risponderà loro: “È vero. Non mi avete conosciuto. Perché non eravate quando Io ero sulla Terra. Ma avete però conosciuto la mia Parola e avete avuto i poveri fra voi, gli affamati, i sitibondi, i nudi, i malati, i carcerati. Perché non avete fatto ad essi ciò che forse avreste fatto a Me? Perché non è già detto che coloro che mi ebbero fra loro fossero misericordiosi col Figlio dell’uomo. Non sapete che nei miei fratelli Io sono, e dove è uno di essi che soffra là sono Io, e che ciò che non avete fatto ad uno di questi miei minori fratelli lo avete negato a Me, Primogenito degli uomini? Andate e ardete nel vostro egoismo. Andate, e vi fascino le tenebre e il gelo perché tenebra e gelo foste, pur conoscendo dove era la Luce e il Fuoco d’Amore”.
E costoro andranno all’eterno supplizio, mentre i giusti entreranno nella vita eterna.
Queste le cose future...

51Ora andate. E non dividetevi fra voi. Io vado con Giovanni e sarò a voi a metà della prima vigilia, per la cena e per andare poi alle nostre istruzioni».
«Anche questa sera? Tutte le sere faremo questo? Io sono tutto indolenzito dalle guazze. Non sarebbe meglio entrare ormai in qualche casa ospitale? Sempre sotto le tende! Sempre veglianti e nelle notti, che sono fresche e umide...», si lamenta Giuda.
«È l’ultima notte. Domani... sarà diverso».
«Ah! Credevo che volessi andare al Getsemani tutte le notti. Ma se è l’ultima...».
«Non ho detto questo, Giuda. Ho detto che sarà l’ultima notte da passare al campo dei Galilei tutti uniti. Domani prepareremo la Pasqua e consumeremo l’agnello, e poi andrò Io solo a pregare nel Getsemani. E voi potrete fare ciò che volete».
«Ma noi verremo con Te, Signore! Quando mai abbiamo voglia di lasciarti?», dice Pietro.
«Tu taci, che sei in colpa. Tu e lo Zelote non fate che svolazzare qua e là appena il Maestro non vi vede. Vi tengo d’occhio. Al Tempio... nel giorno... nelle tende lassù...», dice l’Iscariota, lieto di denunciare.
«Basta! Se essi lo fanno, bene fanno. Ma però non mi lasciate solo... Io ve ne prego...».
«Signore, non facciamo nulla di male. Credilo. Le nostre azioni sono note a Dio ed il suo occhio non si torce da esse con disgusto», dice lo Zelote.
«Lo so. Ma è inutile. E ciò che è inutile può sempre essere dannoso. State il più possibile uniti».
Poi si volge a Matteo: «Tu, mio buon cronista, ripeterai a costoro la parabola delle dieci vergini savie e delle dieci stolte, e quella del padrone che dà dei talenti ai suoi tre servi perché li facciano fruttare, e due ne guadagnano il doppio e l’infingardo lo sotterra. Ricordi?».
«Sì, Signor mio, esattamente».
«Allora ripetile a questi. Non tutti le conoscono. E anche quelli che le sanno avranno piacere a riascoltarle. Passate così in sapienti discorsi il tempo sino al mio ritorno. Vegliate! Vegliate! Tenete desto il vostro spirito. Quelle parabole sono appropriate anche a ciò che dissi. Addio. La pace sia con voi».
Prende Giovanni per mano e si allontana con lui verso la città... Gli altri si avviano verso il campo galileo.
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 22 Novembre 2015, Nostro Signore Gesù Cristo Re dell'universo, solennità

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 18,33-37.
Pilato allora rientrò nel pretorio, fece chiamare Gesù e gli disse: «Tu sei il re dei Giudei?».
Gesù rispose: «Dici questo da te oppure altri te l'hanno detto sul mio conto?».
Pilato rispose: «Sono io forse Giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?».
Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».
Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 10 Capitolo 604 pagina 40.
(...) 21Gesù entra nel Pretorio in mezzo ai dieci astati, che fanno un quadrato di alabarde intorno alla sua persona. I due centurioni vanno avanti. Mentre Gesù sosta in un largo atrio, oltre il quale è un cortile che si intravede dietro una tenda che il vento sommuove, essi scompaiono dietro una porta.
Rientrano col Governatore, vestito di una toga bianchissima sulla quale però è un manto scarlatto. Forse così erano quando rappresentavano ufficialmente Roma. Entra indolentemente, con un sorrisetto scettico sul volto sbarbato, stropiccia fra le mani delle fronde di erba cedrina e le fiuta con voluttà. Va ad una meridiana, si rivolge dopo averla guardata. Getta dei grani d’incenso nel braciere posto ai piedi di un nume. Si fa portare acqua cedrata e si gargarizza la gola. Si rimira la pettinatura tutta a onde in uno specchio di metallo tersissimo. Pare che abbia dimenticato il Condannato che aspetta la sua approvazione per essere ucciso. Farebbe venire l’ira anche alle pietre.
Gli ebrei, posto che l’atrio è tutto aperto sul davanti e sopraelevato di tre alti scalini anche sul vestibolo, che si apre sulla via già sopraelevato di altri tre sulla via stessa, vedono tutto benissimo e fremono. Ma non osano ribellarsi per paura delle aste e dei giavellotti.
Finalmente, dopo avere girato e rigirato per l’ampio luogo, Pilato va diritto incontro a Gesù, lo guarda a chiede ai due centurioni: «Questo?».
«Questo».
«Vengano i suoi accusatori», a va a sedersi sulla sedia posta sulla predella. Sul suo capo le insegne di Roma si incrociano con le loro aquile dorate e la loro sigla potente.
«Non possono venire. Si contaminano».
«Euè!!! Meglio. Eviteremo fiumi d’essenze per levare il caprino al luogo. Fateli avvicinare, almeno. Qui sotto. E badate non entrino, posto che non vogliono farlo. Può essere un pretesto, quest’uomo, per una sedizione».
Un soldato parte per portare l’ordine del Procuratore romano. Gli altri si schierano sul davanti dell’atrio a distanze regolari, belli come nove statue di eroi.

22Vengono avanti i capi dei sacerdoti, scribi e anziani, e salutano con servili inchini e si fermano sulla piazzetta che è al davanti del Pretorio, oltre i tre gradini del vestibolo.
«Parlate e siate brevi. Già in colpa siete per avere turbato la notte e ottenuto l’apertura delle porte con violenza. Ma verificherò. E mandanti e mandatari risponderanno della disubbidienza al decreto». Pilato è andato verso di loro, rimanendo nel vestibolo.
«Noi veniamo a sottoporre a Roma, di cui tu rappresenti il divino Imperatore, il nostro giudizio su costui».
«Quale accusa portate contro di lui? Mi sembra un innocuo...».
«Se non fosse malfattore non te lo avremmo portato». E nella smania di accusare si fanno avanti.
«Respingete questa plebe! Sei passi oltre i tre scalini della piazza. Le due centurie all’armi!».
I soldati ubbidiscono veloci, allineandosi cento sul gradino esterno più alto, con le spalle volte al vestibolo, e cento sulla piazzetta su cui si apre il portone d’ingresso alla dimora di Pilato. Ho detto portone: dovrei dire androne o arco trionfale, perché è una vastissima apertura limitata da un cancello, ora spalancato, che immette nell’atrio per il lungo corridoio del vestibolo largo almeno sei metri, di modo che ben si vede ciò che avviene nell’atrio sopraelevato. Oltre l’ampio vestibolo si vedono le facce bestiali dei giudei guardare minacciose e sataniche verso l’interno, guardare dall’al di là della barriera armata che, gomito a gomito, come per una parata, presenta duecento punte ai conigli assassini.
«Quale accusa portate verso costui, ripeto».
«Ha commesso delitto contro la Legge dei padri».
«E venite a seccare me per questo? Pigliatelo voi e giudicatelo secondo le vostre leggi».
«Noi non possiamo dar morte ad alcuno. Dotti non siamo. Il Diritto ebraico è un pargolo deficiente rispetto al perfetto Diritto di Roma. Come ignoranti e come soggetti di Roma, maestra, abbiamo bisogno...».
«Da quando siete miele e burro?... Ma avete detto una verità, o maestri del mendacio! Di Roma avete bisogno! Sì. Per sbarazzarvi di costui che vi dà noia. Ho compreso». E Pilato ride, guardando il cielo sereno che si inquadra come una rettangolare lastra di cupa turchese fra le marmoree e candide pareti dell’atrio. «Dite: in che ha commesso delitto contro le vostre leggi?».
«Noi abbiamo trovato che costui metteva il disordine nella nostra nazione e che impediva di pagare il tributo a Cesare, dicendosi il Cristo, re dei giudei».

23Pilato ritorna presso Gesù, che è al centro dell’atrio, lasciato là dai soldati, legato ma senza scorta tanto appare netta la sua mansuetudine. E gli chiede: «Sei Tu il re dei giudei?».
«Per te lo chiedi o per insinuazione d’altri?».
«E che vuoi che me ne importi del tuo regno? Son forse io giudeo? La tua nazione e i capi di essa mi ti hanno consegnato perché io giudichi. Che hai fatto? Ti so leale. Parla. È vero che aspiri al regno?».
«Il mio Regno non viene da questo mondo. Se fosse un regno del mondo, i miei ministri e i miei soldati avrebbero combattuto perché i giudei non mi pigliassero. Ma il mio Regno non è della Terra. E tu lo sai che al potere Io non tendo».
«Ciò è vero. Lo so. Mi fu detto. Ma però Tu non neghi d’essere re?».
«Tu lo dici. Io sono Re. Per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla Verità. Chi è amico della Verità ascolta la mia voce».
«E che cosa è la Verità? Sei filosofo? Non serve di fronte alla morte. Socrate morì lo stesso».
«Ma gli servì di fronte alla vita, a ben vivere. E anche a ben morire. E ad andare nella vita seconda senza nome di traditore delle civiche virtù».
«Per Giove!». Pilato lo guarda ammirato qualche momento. Poi lo riprende il sarcasmo scettico. Fa un atto di noia, gli volge le spalle, torna verso i giudei. «Io non trovo in Lui alcuna colpa».
La folla tumultua, presa dal panico di perdere la preda e lo spettacolo del supplizio. E urla: «È un ribelle!», «Un bestemmiatore», «Incoraggia il libertinaggio», «Eccita alla ribellione», «Nega rispetto a Cesare», «Si finge profeta senza esserlo», «Compie magie», «È un satana», «Solleva il popolo con le sue dottrine insegnando in tutta la Giudea, alla quale è venuto dalla Galilea insegnando», «A morte!», «A morte!».
«Galileo è? Galileo sei?». Pilato torna da Gesù: «Lo senti come ti accusano? Discolpati».
Ma Gesù tace.

24Pilato pensa... E decide. «Una centuria, e da Erode costui. Lo giudichi. È suo suddito. Riconosco il diritto del Tetrarca e al suo verdetto sottoscrivo in anticipo. Gli sia detto. Andate».
E Gesù, inquadrato come un manigoldo da cento soldati, riattraversa la città e torna ad incontrare Giuda Iscariota, che già aveva incontrato una volta presso un mercato. Prima mi ero dimenticata di dirlo, presa dal disgusto della zuffa popolana. Lo stesso sguardo di pietà sul traditore...
Ora è più difficile colpirlo con calci e bastoni, ma le pietre e le immondezze non mancano e, se i sassi cadono sonando senza ferire sugli elmi e le corazze romane, ben lasciano un segno colpendo Gesù, che procede col solo vestito, avendo lasciato il mantello nel Getsemani.
Nell’entrare nel fastoso palazzo di Erode, Egli vede Cusa... che non sa guardarlo e che fugge per non vederlo in quello stato, coprendosi il capo col mantello.

25Eccolo nella sala, davanti a Erode. E, dietro Lui, ecco gli scribi e i farisei, che qui si sentono a loro agio, entrare da accusatori mendaci. Solo il centurione con quattro militi lo scortano davanti al Tetrarca.
Questo scende dal suo seggio e gira intorno a Gesù, mentre ascolta le accuse dei nemici suoi. E sorride e beffeggia. Poi finge una pietà e un rispetto che non turbano il Martire come non lo hanno turbato i motteggi.
«Sei grande. Lo so. Ti ho seguito e ho avuto giubilo che Cusa ti fosse amico e Manaem discepolo. Io... le cure di Stato... Ma che desiderio di dirti: grande... di chiederti perdono... L’occhio di Giovanni... la sua voce mi accusano e sempre davanti a me sono. Tu sei il santo che annulla i peccati del mondo. Assolvimi, o Cristo».
Gesù tace.
«Ho sentito che ti accusano di esserti drizzato contro Roma. Ma non sei Tu la verga promessa* per percuotere Assur?».
Gesù tace.
«Mi hanno detto che Tu profetizzi la fine del Tempio e di Gerusalemme. Ma non è eterno il Tempio come spirito, essendo voluto da Chi eterno è?».
Gesù tace.
«Sei folle? Hai perduto il potere? Satana ti inceppa la parola? Ti ha abbandonato?». Erode ride, ora.

26Ma poi dà un ordine. E dei servi accorrono portando un levriero dalla gamba spezzata, che guaisce lamentosamente, e uno stalliere ebete dalla testa acquosa, sbavante, un aborto d’uomo, trastullo dei servi. Gli scribi e i sacerdoti fuggono urlando al sacrilegio, quando vedono la barella del cane. Erode, falso e beffardo, spiega: «È il preferito di Erodiade. Dono di Roma. Si è spezzato ieri una zampa ed ella piange. Comanda che guarisca. Fa’ miracolo».
Gesù lo guarda severo. E tace.
«Ti ho offeso? Allora questo. È un uomo, benché di poco sia più che una belva. Dàgli l’intelligenza, Tu, Intelligenza del Padre... Non dici così?». E ride, offensivo.
Altro più severo sguardo di Gesù e silenzio.
«Quest’uomo è troppo astinente e ora è intontito dagli spregi. Vino e donne, qui. E sia slegato».
Lo slegano. E mentre servi, in gran numero, portano anfore e coppe, entrano danzatrici... coperte di niente: una frangia multicolore di lino cinge per unica veste la loro sottile persona, dalla cintura alle anche. Null’altro. Bronzee perché africane, snelle come gazzelle giovinette, iniziano una danza silenziosa e lasciva.
Gesù respinge le coppe e chiude gli occhi senza parlare. La corte di Erode ride davanti al suo sdegno.
«Prendi quella che vuoi. Vivi! Impara a vivere!...», insinua Erode.
Gesù pare una statua. A braccia conserte, occhi serrati, non si scuote neppure quando le impudiche danzatrici lo sfiorano coi loro corpi nudi.
«Basta. Ti ho trattato da Dio e non hai agito da Dio. Ti ho trattato da uomo e non hai agito da uomo. Sei folle. Una veste bianca. Rivestitelo di essa perché Ponzio Pilato sappia che il Tetrarca ha giudicato folle il suo suddito. Centurione, dirai al Proconsole che Erode gli umilia il suo rispetto e venera Roma. Andate».
E Gesù, legato di nuovo, esce, con una tunica di lino, che gli giunge al ginocchio, sopra la rossa veste di lana.
E tornano da Pilato.

27Ora, quando la centuria fende a fatica la folla, che non si è stancata di attendere davanti al palazzo proconsolare ‑ ed è strano vedere tanta folla in quel luogo e nelle vicinanze, mentre il resto della città appare vuoto di popolo ‑ Gesù vede in gruppo i pastori, e sono al completo, ossia Isacco, Gionata, Levi, Giuseppe, Elia, Mattia, Giovanni, Simeone, Beniamino e Daniele, insieme ad un gruppetto di galilei di cui riconosco Alfeo e Giuseppe di Alfeo, insieme a due altri che non conosco ma che direi giudei alla acconciatura. E più oltre, scivolato fin dentro al vestibolo, seminascosto dietro una colonna, insieme ad un romano che direi un servo, vede Giovanni. Sorride a questo e a quelli... I suoi amici... Ma che sono questi pochi, a Giovanna e Manaem e Cusa, in mezzo ad un oceano di odio che bolle?...

28Il centurione saluta Ponzio Pilato e riferisce.
«Qui ancora?! Auf! Maledetta questa razza! Fate avanzare la plebaglia e portate qui l’Accusato. Euè! che noia!».
Va verso la folla, sempre fermandosi a metà vestibolo.
«Ebrei, udite. Mi avete condotto quest’uomo come sobillatore del popolo. Davanti a voi l’ho esaminato e non ho trovato in Lui nessuno dei delitti di cui lo accusate. Erode non più di me ha trovato. E a noi lo ha rimandato. Non merita la morte. Roma ha parlato. Però, per non dispiacervi levandovi il sollazzo, vi darò in cambio Barabba*. E Lui lo farò colpire con quaranta colpi di fustigazione. Basta così».
«No, no! Non Barabba! Non Barabba! A Gesù la morte! E morte orrenda! Libera Barabba e condanna il Nazzareno».
«Ma udite! Ho detto fustigazione. Non basta? Lo farò flagellare, allora! È atroce, sapete? Può morire per essa. Che ha fatto di male? Io non trovo nessuna colpa in Lui. E lo libererò».
«Crocifiggi! Crocifiggi! A morte! Protettore dei delinquenti sei! Pagano! Satana tu pure!».
La folla si fa sotto e la prima schiera di soldati ondeggia nell’urto, non potendo usare le aste. Ma la seconda fila, scendendo d’un gradino, rotea le aste e libera i compagni.
«Sia flagellato», ordina Pilato a un centurione.
«Quanto?».
«Quanto ti pare... Tanto è affare finito. E io sono annoiato. Va’».

29Gesù viene tradotto da quattro soldati nel cortile oltre l’atrio. In esso, tutto selciato di marmi colorati, è al centro un’alta colonna simile a quella del porticato. A un tre metri dal suolo essa ha un braccio di ferro sporgente per almeno un metro e terminante in anello. A questa viene legato Gesù con le mani congiunte sull’alto del capo, dopo che fu fatto spogliare. Egli resta unicamente con delle piccole brache di lino e i sandali. Le mani legate ai polsi vengono alzate sino all’anello, di modo che Egli, per quanto sia alto, non poggia al suolo che la punta dei piedi... E deve essere tortura anche questa posizione.
Ho letto non so dove che la colonna era bassa e Gesù stava curvo. Sarà. Io vedo così e così dico.
Dietro a Lui si colloca uno dalla faccia di boia, dal netto profilo ebraico; davanti a Lui, un altro dalla faccia uguale. Sono armati del flagello, fatto di sette strisce di cuoio legate ad un manico a terminanti in un martelletto di piombo. Ritmicamente, come per un esercizio, si dànno a colpire. Uno davanti, l’altro di dietro, di modo che il tronco di Gesù è in una ruota di sferze e di flagelli.
I quattro soldati a cui è consegnato, indifferenti, si sono messi a giocare a dadi con altri tre soldati sopraggiunti. E le voci dei giuocatori si cadenzano sul suono dei flagelli, che fischiano come serpi e poi suonano come sassi gettati sulla pelle tesa di un tamburo, percuotendo il povero corpo così snello e di un bianco d’avorio vecchio, e che diviene prima zebrato di un rosa sempre più vivo, poi viola, poi si orna di rilievi d’indaco gonfi di sangue, e poi si crepa e rompe lasciando colare sangue da ogni parte. E infieriscono specie sul torace e l’addome, ma non mancano i colpi dati alle gambe e alle braccia e fin sul capo, perché non vi fosse brano di pelle senza dolore.
E non un lamento... Se non fosse sostenuto dalla fune, cadrebbe. Ma non cade e non geme. Solo la testa gli pende, dopo colpi e colpi ricevuti, sul petto, come per svenimento.
«Ohé! Fermati! Deve essere ucciso da vivo», urla e motteggia un soldato.
I due boia si fermano e si asciugano il sudore.
«Siamo sfiniti», dicono. «Dateci la paga, che si possa bere per ristorarsi...».
«La forca vi darei! Ma prendete...», e un decurione getta una larga moneta ad ognuno dei due boia.
«Avete lavorato a dovere. Pare un mosaico. Tito, dici che era proprio questo l’amore di Alessandro*? Allora gliene daremo notizia perché faccia il lutto. Sleghiamolo un poco».

30Lo slegano e Gesù si accascia al suolo come morto. Lo lasciano là, urtandolo ogni tanto col piede calzato dalle calighe per vedere se geme. Ma Egli tace.
«Che sia morto? Possibile? È giovane e artiere, mi hanno detto... e pare una dama delicata».
«Ora ci penso io», dice un soldato. E lo mette seduto con la schiena alla colonna. Dove Egli era, sono grumi di sangue... Poi va ad una fontanella che chioccola sotto al portico, empie un mastello d’acqua e la rovescia sul capo e sul corpo di Gesù. «Così! Ai fiori fa bene l’acqua».
Gesù sospira profondamente e fa per alzarsi, ma ancora sta ad occhi chiusi.
«Oh! bene. Su, bellino! Che ti aspetta la dama!...».
Ma Gesù inutilmente punta al suolo i pugni nel tentativo di drizzarsi.
«Su! Svelto! Sei debole? Ecco il ristoro», ghigna un altro soldato. E con l’asta della sua alabarda mena una bastonata al viso e coglie Gesù fra lo zigomo destro e il naso, che si mette a sanguinare.
Gesù apre gli occhi, li gira. Uno sguardo velato... Fissa il soldato percuotitore, si asciuga il sangue con la mano, e poi, con molto sforzo, si pone in piedi.
«Vestiti. Non è decenza stare così. Impudico!». Ridono tutti in cerchio intorno a Lui.
Egli ubbidisce senza parlare. Ma mentre si china ‑ e solo Lui sa quello che soffre nel piegarsi al suolo, così contuso come è, e con le piaghe che nel tendersi della pelle si aprono più ancora, e altre che se ne formano per vesciche che si rompono - un soldato dà un calcio alle vesti e le sparpaglia e, ogni volta che Gesù le raggiunge andando barcollante dove esse cadono, un soldato le spinge o le getta in altra direzione. E Gesù, soffrendo acutamente, le insegue senza una parola, mentre i soldati lo deridono oscenamente.
Può finalmente rivestirsi. E rimette anche la veste bianca, rimasta pulita in un angolo. Pare voglia nascondere la sua povera veste rossa, solo ieri tanto bella ed ora lurida di immondizie e macchiata del sangue sudato nel Getsemani. Anzi, prima di mettersi la tunichella corta sulla pelle, con essa si asciuga il volto bagnato e lo deterge così da polvere e sputi. Ed esso, il povero, santo volto, appare pulito, solo segnato da lividi e piccole ferite. E si ravvia i capelli caduti scomposti e la barba per un innato bisogno di essere ordinato nella persona.
E poi si accoccola al sole. Perché trema, il mio Gesù... La febbre comincia a serpeggiare in Lui con i suoi brividi. E anche la debolezza del sangue perduto, del digiuno, del molto cammino, si fa sentire.

31Gli legano di nuovo le mani. E la corda torna a segare là dove è già un rosso braccialetto di pelle scorticata.
«E ora? Che ne facciamo? Io mi annoio!».
«Aspetta. I giudei vogliono un re. Ora glielo diamo. Quello lì...», dice un soldato.
E corre fuori, in un retrostante cortile certo, dal quale torna con un fascio di rami di biancospino selvatico, ancora flessibili perché la primavera tiene relativamente morbidi i rami, ma ben duri nelle spine lunghe e acuminate. Con la daga levano foglie e fioretti, piegano a cerchio i rami e li calcano sul povero capo. Ma la barbara corona ricade sul collo.
«Non ci sta. Più stretta. Levala».
La levano e sgraffiano le guance, risicando di accecarlo, e strappano i capelli nel farlo. La stringono. Ora è troppo stretta e, per quanto la pigino conficcando gli aculei nel capo, essa minaccia di cadere. Via di nuovo strappando altri capelli. La modificano di nuovo. Ora va bene. Davanti è un triplice cordone spinoso. Dietro, dove gli estremi dei tre rami si incrociano, è un vero nodo di spini che entrano nella nuca.
«Vedi come stai bene? Bronzo naturale a rubini schietti. Specchiati, o re, nella mia corazza», motteggia l’ideatore del supplizio.
«Non basta la corona a fare un re. Ci vuole porpora e scettro. Nella stalla è una canna e nella cloaca è una clamide rossa. Prendile, Cornelio».
E, avutele, mettono il sudicio straccio rosso sulle spalle di Gesù e, prima di mettergli fra le mani la canna, gliela dànno sul capo inchinandosi e salutando: «Ave, re dei Giudei», e si sbellicano dalle risa.
Gesù li lascia fare. Si lascia mettere seduto sul «trono» - un mastello capovolto, certo usato per abbeverare i cavalli - si lascia colpire, schernire, senza mai parlare. Li guarda solo... ed è uno sguardo di una dolcezza e di un dolore così atroce che non lo posso sostenere senza sentirne ferita al cuore.

32I soldati smettono lo scherno solo alla voce aspra di un superiore che ordina la traduzione davanti a Pilato del reo. Reo! Di che?
Gesù è riportato nell’atrio, ora coperto da un prezioso velario per il sole. Ha ancora la corona, la clamide e la canna.
«Vieni avanti. Che io ti mostri al popolo».
Gesù, già franto, si raddrizza dignitoso. Oh! che è veramente re!
«Udite, ebrei. Qui è l’uomo. Io l’ho punito. Ma ora lasciatelo andare».
«No, no! Vogliamo vederlo! Fuori! Che si veda il bestemmiatore!».
«Conducetelo fuori. E guardate non sia preso».
E mentre Gesù esce nel vestibolo e si mostra nel quadrato dei soldati, Ponzio Pilato lo accenna colla mano dicendo: «Ecco l’Uomo. Il vostro re. Non basta ancora?».
Il sole di una giornata afosa, che ormai scende quasi diritto perché si è a metà tra terza e sesta, accende e dà risalto agli sguardi e ai volti: sono uomini quelli? No: iene idrofobe. Urlano, mostrano i pugni, chiedono morte...
Gesù sta eretto. E le assicuro che mai ebbe la nobiltà di ora. Neppure quando faceva i più potenti miracoli. Nobiltà di dolore. Ma talmente divino che basterebbe a segnarlo del nome di Dio. Ma per dire quel Nome bisogna essere almeno uomini. E Gerusalemme non ha uomini, oggi. Ma solo demoni.
Gesù gira lo sguardo sulla folla, cerca, trova, nel mare dei visi astiosi, i volti amici. Quanti? Meno di venti amici in migliaia di nemici... E curva il capo colpito da questo abbandono. Una lacrima cade... un’altra... un’altra... La vista del suo pianto non genera pietà, ma ancor più fiero odio.

33Viene riportato nell’atrio.
«Dunque? Lasciatelo andare. È giustizia».
«No. A morte. Crocifiggi».
«Vi do Barabba».
«No. Il Cristo!».
«E allora prendetelo voi. E da voi crocifiggetelo. Perché io non trovo alcuna colpa in Lui per farlo».
«Si è detto Figlio di Dio. La nostra legge commina la morte al reo di tale bestemmia».
Pilato si fa pensoso. Rientra. Si siede sul suo tronetto. Pone una mano alla fronte e il gomito sul ginocchio e scruta Gesù. «Avvicinati», dice.
Gesù va ai piedi della predella.
«È vero? Rispondi».
Gesù tace.
«Da dove vieni? Chi è Dio?».
«È il Tutto».
«E poi? Che vuol dire il Tutto? Che è il Tutto per chi muore? Sei folle... Dio non è. Io sono».
Gesù tace. Ha lasciato cadere la grande parola e poi torna a fasciarsi di silenzio.

34«Ponzio, la liberta di Claudia Procula chiede di entrare. Ha uno scritto per te».
«Domine! Anche le donne ora! Venga».
Entra una romana e si inginocchia porgendo una tavoletta cerata. Deve essere quella su cui Procula prega il marito di non condannare Gesù. La donna si ritira a ritroso mentre Pilato legge.
«Mi si consiglia evitare il tuo omicidio. È vero che sei più di un aruspice? Mi fai paura».
Gesù tace.
«Ma non sai che ho potere di liberarti o di crocifiggerti?».
«Nessun potere avresti, se non ti fosse dato dall’alto. Perciò, chi mi ha dato nelle tue mani è più colpevole di te».
«Chi è? Il tuo Dio? Ho paura...».
Gesù tace.
Pilato è sulle spine. Vorrebbe e non vorrebbe. Teme il castigo di Dio, teme quello di Roma, teme le vendette giudee. Vince un momento la paura di Dio. Va sul davanti dell’atrio e tuona: «Non è colpevole».
«Se lo dici, sei nemico di Cesare. Chi si fa re è suo nemico. Tu vuoi liberare il Nazzareno. Faremo sapere a Cesare questo».
Pilato viene preso dalla paura dell’uomo.
«Lo volete morto, insomma? E sia. Ma il sangue di questo giusto non sia sulle mie mani», e fattosi portare un catino si lava le mani alla presenza del popolo, che pare preso da frenesia mentre urla: «Su noi, su noi il suo sangue. Su noi ricada e sui nostri figli. Non lo temiamo. Alla croce! Alla croce!».

35Ponzio Pilato torna sul tronetto, chiama il centurione Longino e uno schiavo. Dallo schiavo si fa portare una tavola su cui appoggia un cartello e vi fa scrivere: «Gesù Nazareno, Re dei Giudei». E lo mostra al popolo.
«No. Non così. Non re dei Giudei. Ma che ha detto che sarebbe re dei Giudei», così urlano in molti.
«Ciò che ho scritto, ho scritto», dice duro Pilato e, dritto in piedi, stende la mano a palma in avanti e volta in basso e ordina: «Vada alla croce. Soldato, va’. Prepara la croce». (Ibis ad crucem! I, miles, expedi crucem). E scende senza neppure più voltarsi verso la folla in tumulto, né verso il pallido Condannato. Esce dall’atrio...
Gesù resta al centro di esso, sotto la guardia dei soldati, in attesa della croce.

10 marzo 1944. Venerdì.

36Dice Gesù:
«Ti voglio far meditare il punto che si riferisce ai miei incontri con Pilato.
Giovanni, che essendo stato quasi sempre presente, o per lo meno molto prossimo, è il testimone e narratore più esatto, racconta come, uscito dalla casa di Caifa, Io fui portato al Pretorio. E specifica “di mattina presto”. Infatti, lo hai visto, il giorno si iniziava appena. Specifica anche: “essi (i giudei) non entrarono per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua”.
Ipocriti come sempre, essi trovavano pericolo di contaminarsi nel calpestare la polvere della casa di un gentile, ma non trovavano peccato uccidere un Innocente e, coll’animo soddisfatto del delitto compiuto, poterono gustare meglio ancora la Pasqua. Hanno anche ora molti seguaci. Tutti quelli che nell’interno agiscono male e all’esterno professano rispetto alla religione e amore a Dio, sono simili a questi. Formule, formule e non religione vera! Mi fanno ripugnanza e sdegno.
Non entrando i giudei da Pilato, uscì Pilato per udire che avesse la turba vociferante e, esperto come era nel governo e nel giudizio, con un solo sguardo comprese che il reo non ero Io, ma quel popolo ubriaco di odio. L’incontro dei nostri sguardi fu una reciproca lettura dei nostri cuori. Io giudicai l’uomo per quel che era*. Egli giudicò Me per quel che ero. In Me venne per lui della pietà perché era un uomo debole. Ed in lui venne per Me della pietà perché ero un innocente. Cercò di salvarmi dal primo momento. E, dato che unicamente a Roma era deferito e riserbato il diritto di esercitare giustizia verso i malfattori, tentò di salvarmi dicendo: “Giudicatelo secondo la vostra legge”.

37Ipocriti per la seconda volta, i giudei non vollero dare condanna. Vero che Roma aveva diritto di giustizia, ma quando, ad esempio, Stefano venne lapidato, Roma imperava tuttora su Gerusalemme ed essi, ciononostante, definirono e consumarono giudizio e supplizio senza curarsi di Roma. Per Me, di cui avevano non amore ma odio e paura ‑ non mi volevano credere Messia, ma non volevano uccidermi materialmente nel dubbio lo fossi ‑ agirono in maniera diversa e mi accusarono come sobillatore contro la potenza di Roma (voi direste: “ribelle”) per ottenere che Roma mi giudicasse.
Nella loro aula infame, e più volte nei tre anni del mio ministero, mi avevano accusato d’esser bestemmiatore e falso profeta, e come tale avrei dovuto esser da essi lapidato o comunque ucciso. Ma ora, per non compiere materialmente il delitto di cui sentono per istinto che sarebbero puniti, lo fanno compiere a Roma accusandomi d’esser malfattore e ribelle.
Nulla di più facile, quando le folle sono pervertite ed i capi insatanassati, di accusare un innocente per sfogare la loro libidine di ferocia e di usurpazione, e levare di mezzo chi rappresenta un ostacolo e un giudizio. Siamo tornati ai tempi di allora. Il mondo ogni tanto, dopo una incubazione di idee perverse, esplode in queste manifestazioni di pervertimento. Come una immensa gestante, la folla, dopo aver nutrito nel suo seno con dottrine da fiera il suo mostro, lo partorisce perché divori. Divori per primi i migliori e poi divori se stessa.

38Pilato rientra nel Pretorio e mi chiama vicino. E mi interroga.
Egli aveva già sentito parlare di Me. Fra i suoi centurioni c’erano alcuni che ripetevano il mio Nome con amore riconoscente, con le lacrime agli occhi e il sorriso nel cuore, e parlavano di Me come di un benefattore. Nei loro rapporti al Pretore, interrogati su questo Profeta che attirava a Sé le folle e predicava una dottrina nuova in cui si parlava di un regno strano, inconcepibile a mente pagana, essi avevano sempre risposto che ero un mite, un buono che non cercavo onori di questa Terra e che inculcavo e praticavo il rispetto e l’ubbidienza verso coloro che sono le autorità. Più sinceri degli israeliti, essi vedevano e deponevano la verità.
La scorsa domenica egli, attratto dal clamore della folla, si era affacciato sulla via ed aveva visto passare su un’asinella un uomo disarmato, benedicente, circondato da bimbi e da donne. Aveva compreso che non poteva certo essere in quell’uomo un pericolo per Roma.
Vuol dunque sapere se Io sono re. Nel suo ironico scetticismo pagano, voleva ridere un poco su questa regalità che cavalca un asino, che ha per cortigiani dei bambini scalzi, delle donne sorridenti, degli uomini del popolo, di questa regalità che da tre anni predica di non avere attrazioni per le ricchezze ed il potere e che non parla di altre conquiste fuorché quelle dello spirito e di anima. Che è l’anima per un pagano? Neppure i suoi dèi hanno un’anima. E la può avere l’uomo? Anche ora questo re senza corona, senza reggia, senza corte, senza soldati, gli ripete che il suo regno non è di questo mondo. Tanto vero che nessun ministro e nessuna milizia insorge a difendere il suo re ed a strapparlo ai nemici.
Pilato, seduto sul suo seggio, mi scruta, perché Io sono un enigma per lui. Sgomberasse l’anima dalle sollecitudini umane, dalla superbia della carica, dall’errore del paganesimo, comprenderebbe subito Chi sono. Ma come può la luce penetrare dove troppe cose occludono le aperture perché la luce entri?

39Sempre così, figli. Anche ora. Come può entrare Dio e la sua luce là dove non c’è più spazio per loro, e le porte e finestre sono sbarrate e difese dalla superbia, dall’umanità, dal vizio, dall’usura, da tante, tante guardie al servizio di Satana contro Dio?
Pilato non può capire quale sia il mio regno. E, quel che è doloroso, non chiede che Io glielo spieghi. Al mio invito perché egli conosca la Verità, egli, l’indomabile pagano, risponde: «Che cosa è la verità?», e lascia cadere con una alzata di spalle la questione.
Oh! figli, figli miei! Oh! miei Pilati di ora! Anche voi, come Ponzio Pilato, lasciate cadere con una alzata di spalle le questioni più vitali. Vi sembrano cose inutili, sorpassate. Cosa è la Verità? Denaro? No. Donne? No. Potere? No. Salute fisica? No. Gloria umana? No. E allora si lasci perdere. Non merita che si corra dietro ad una chimera. Denaro, donne, potere, buona salute, comodi, onori, queste sono cose concrete, utili, da amarsi e raggiungersi a qualunque scopo. Voi ragionate così. E, peggio di Esaù, barattate i beni eterni per un cibo grossolano che vi nuoce nella salute fisica e che vi nuoce per la salute eterna. Perché non persistete a chiedere: “Cosa è la verità”? Essa, la Verità, non chiede che di farsi conoscere, per istruirvi su di essa. Vi sta davanti come a Pilato e vi guarda con occhi di amore supplicante, implorandovi: “Interrogami. Ti istruirò”.
Vedi come guardo Pilato? Ugualmente guardo voi tutti così. E, se ho sguardo di sereno amore per chi mi ama e chiede le mie parole, ho sguardi di accorato amore per chi non mi ama, non mi cerca, non mi ascolta. Ma amore, sempre amore, perché l’Amore è la mia natura.

40Pilato mi lascia dove sono, senza interrogare di più, e va dai malvagi che hanno la voce più grossa e che si impongono con la loro violenza. E li ascolta, questo sciagurato che non ha ascoltato Me e che ha respinto con una scrollata di spalle il mio invito a conoscere la Verità. Ascolta la Menzogna. L’idolatria, quale che sia la sua forma, è sempre portata a venerare ed accettare la Menzogna, quale che sia. E la Menzogna, accettata da un debole, porta il debole al delitto.
Pure Pilato, sulle soglie del delitto, mi vuole salvare ancora e una e due volte. È qui che mi manda a Erode. Sa bene che il re astuto, che barcamena fra Roma e il suo popolo, agirà in modo da non ledere Roma e da non urtare il popolo ebreo. Ma, come tutti i deboli, allontana di qualche ora la decisione che non si sente di prendere, sperando che la sommossa plebea si calmi.
Io ho detto*: “Il vostro linguaggio sia: sì, sì; no, no”. Ma egli non l’ha sentito o, se qualcuno glielo ha ripetuto, ha fatto la solita alzata di spalle. Per vincere nel mondo, per avere onori e lucro, occorre saper fare del sì un no, o del no un sì, a seconda che il buon senso (leggi: senso umano) consigli.
Quanti, quanti Pilati che ha il ventesimo secolo! Dove sono gli eroi del cristianesimo che dicevano sì, costantemente sì alla Verità e per la Verità, e no, costantemente no per la Menzogna? Dove sono gli eroi che sanno affrontare il pericolo e gli eventi con fortezza d’acciaio e con serena prontezza e non dilazionano, perché il Bene va subito compiuto e il Male subito fuggito senza “ma” e senza “se”?

41Al mio ritorno da Erode, ecco la nuova transazione di Pilato: la flagellazione. E che sperava? Non sapeva che la folla è la belva che, quando comincia a vedere il sangue, inferocisce? Ma dovevo esser franto per espiare i vostri peccati di carne. E vengo franto. Non ho più un brano del mio corpo che non sia percosso. Sono l’Uomo di cui parla Isaia. E al supplizio ordinato si aggiunge quello non ordinato, ma creato dalla crudeltà umana, delle spine.
Lo vedete, uomini, il vostro Salvatore, il vostro Re, coronato di dolore per liberarvi il capo da tante colpe che vi fermentano? Non pensate quale dolore ha subito la mia testa innocente per pagare per voi, per i vostri sempre più atroci peccati di pensiero che si tramutano in azione? Voi, che vi offendete anche quando non c’è motivo di farlo, guardate al Re offeso, ed è Dio, col suo ironico manto di porpora lacera, con lo scettro di canna e la corona di spine. È già morente e lo schiaffeggiano ancora con le mani e con gli scherni. Né ve ne muovete a pietà. Come i giudei, continuate a mostrarmi i pugni, e gridare: “Via, via, non abbiamo altro dio che Cesare”, o idolatri che non adorate Dio, ma voi stessi e chi fra voi è più prepotente. Non volete il Figlio di Dio. Per i vostri delitti non vi dà aiuto. Più servizievole è Satana. Volete perciò Satana. Del Figlio di Dio avete paura. Come Pilato. E quando lo sentite incombere su voi con la sua potenza, agitarsi in voi con la voce della coscienza che vi rimprovera in suo nome, chiedete come Pilato: “Chi sei?”.
Chi sono lo sapete. Anche quelli che mi negano sanno che sono e Chi sono. Non mentite. Venti secoli stanno intorno a Me e vi illustrano Chi sono e vi istruiscono sui miei prodigi. È più perdonabile Pilato. Non voi, che avete un retaggio di venti secoli di cristianesimo per sorreggere la vostra fede o per inculcarvela, e non ne volete sapere. Eppure con Pilato fui più severo che con voi. Non risposi. Con voi parlo. E, ciononostante, non riesco a persuadervi che sono Io, che mi dovete adorazione e ubbidienza.
Anche ora mi accusate di esser Io stesso la rovina di Me in voi, perché non vi ascolto. Dite di perdere la fede per questo. Oh! mentitori! Dove l’avete la fede? Dove è il vostro amore? Quando mai pregate e vivete con amore e fede? Siete dei grandi? Ricordatevi che tali siete perché Io lo permetto. Siete degli anonimi fra la folla? Ricordatevi che non vi è altro Dio che Io. Niuno è da più di Me e avanti di Me. Datemi dunque quel culto d’amore che mi spetta ed Io vi ascolterò, perché non sarete più dei bastardi ma dei figli di Dio.

42Ed ecco l’ultimo tentativo di Pilato per salvarmi la vita, dato che la potessi salvare dopo la spietata e illimitata flagellazione. Mi presenta alla folla: “Ecco l’Uomo!”. A lui faccio umanamente pietà. Spera nella pietà collettiva. Ma, davanti alla durezza che resiste ed alla minaccia che avanza, non sa compiere un atto soprannaturalmente giusto, e perciò buono, e dire: “Io libero costui perché è innocente. Voi siete dei colpevoli e, se non vi disperdete, conoscerete il rigore di Roma”. Questo doveva dire se era un giusto, senza calcolare il futuro male che gliene sarebbe venuto.
Pilato è un falso buono. Buono è Longino che, meno potente del Pretore e meno difeso, in mezzo alla via, circondato da pochi soldati e da una moltitudine nemica, osa difendermi, aiutarmi, concedermi di riposare, di confortarmi con le donne pietose, di esser soccorso dal Cireneo e infine di avere la Mamma ai piedi della Croce. Quello fu un eroe della giustizia e divenne per questo un eroe di Cristo.
Sappiatelo, o uomini che vi preoccupate unicamente del vostro bene materiale, che anche ai sensi di questo il vostro Dio interviene quando vi vede fedeli alla giustizia che è emanazione di Dio. Io premio sempre chi agisce con rettezza. Io difendo chi mi difende. Io lo amo e soccorro. Sono sempre Quello che ha detto*: “Chi darà un bicchier d’acqua in mio nome avrà ricompensa”. A chi mi dà amore, acqua che disseta il mio labbro di Martire divino, Io do Me stesso, ossia protezione e benedizione».
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/