"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’,
ma leggetela e fatela leggere"

Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
Evangelo come mi è stato rivelato
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Domenica 31 marzo 2019, IV Domenica di Quaresima

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 15,1-3.11-32.
In quel tempo, si avvicinavano a Gesù tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo.
I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro».
Allora egli disse loro questa parabola:
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.
Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze.
Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto.
Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci.
Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava.
Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te;
non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni.
Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio.
Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi.
Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa,
perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze;
chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò.
Il servo gli rispose: E' tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo.
Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo.
Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici.
Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso.
Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo;
ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 3 Capitolo 205 pagina 327 - CD 3, traccia 46
1“Giovanni di Endor, vieni qui con Me. Ti devo parlare”, dice Gesù affacciandosi sull’uscio.
L’uomo accorre lasciando il bambino al quale insegnava qualcosa. “Che mi vuoi dire, Maestro?”, chiede.
“Vieni con Me qui sopra”.
Salgono sulla terrazza e si siedono dalla parte più riparata perché, per quanto sia mattina, il sole è già forte. Gesù gira lo sguardo sulla campagna coltivata, in cui i grani di giorno in giorno divengono d’oro e gli alberi gonfiano le loro frutta. Pare volere attingere il pensiero da quella metamorfosi vegetale.
“Senti, Giovanni. Oggi Io credo che verrà Isacco per condurmi i contadini di Giocana prima della loro partenza. Ho detto a Lazzaro di prestare a Isacco un carro per fare loro accelerare il ritorno senza tema di giungere con un ritardo che provocherebbe loro un castigo. E Lazzaro lo fa. Perché Lazzaro fa tutto ciò che Io dico. Ma da te Io voglio un’altra cosa. Ho qui una somma che mi è stata data da una creatura per i poveri del Signore. Generalmente è un mio apostolo l’incaricato di tenere le monete e di dare gli oboli. È Giuda di Keriot generalmente; qualche volta gli altri. Giuda non è presente. Gli altri non voglio siano a cognizione di quel che voglio fare. Anche Giuda questa volta non lo sarebbe. Lo farai tu, in mio nome…”.
“Io, Signore?… Io?… Oh! non ne sono degno!…”.
“Ti devi abituare a lavorare in mio nome. Non sei venuto per questo?”.
“Sì. Ma pensavo dovere lavorare a ricostruire la povera anima mia”.
“E Io te ne do il mezzo. In che hai peccato? Contro la misericordia e l’amore. Con l’odio hai demolito la tua anima. Con l’amore e la misericordia la ricostruirai. Io te ne do il materiale. Ti adibirò particolarmente alle opere di misericordia e di amore. Tu sei anche capace di curare, tu sei capace di parlare. Per questo sei atto ad avere cura delle infelicità fisiche e morali, e hai capacità di farlo. Inizierai con quest’opera. Tieni la borsa. La darai a Michea e ai suoi amici. Fànne parti uguali. Ma fàlle così come Io dico. La dividi per dieci, poi ne dai quattro parti a Michea: una per sé, una per Saulo, una per Gioele e una per Isaia. E le altre sei le dai a Michea perché le dia al vecchio padre di Jabé, per sé e per i suoi compagni. Potranno così avere qualche conforto”.
“Va bene. Ma che dico loro per giustificare?”.
“Dirai: “Questo è perché vi ricordiate di pregare per un’anima che si redime””.
“Ma potranno pensare che sia io! Non è giusto!”.
“Perché? Non ti vuoi redimere?”.
“Non è giusto che pensino che sia io il donatore”.
“Lascia, e fa’ come Io dico”.
“Ubbidisco… ma almeno concedimi di mettere anche io qualche cosa. Tanto… ora non mi occorre più nulla. Libri non ne compero più, polli da nutrire non ne ho più. A me basta tanto poco… Tieni, Maestro. Serbo solo un minimo per le spese dei sandali…”, ed estrae da una borsa che aveva in cintura molte monete e le aggiunge alle monete di Gesù.
205.2
“Dio ti benedica per la tua misericordia… 2Giovanni, fra poco ci lasceremo perché tu andrai con Isacco”.
“Me ne duole, Maestro. Ma ubbidisco”.
“Anche a Me duole di allontanarti. Ma ho tanto bisogno di discepoli peregrinanti. Io non basto più. Presto lancerò gli apostoli, poi manderò i discepoli. E tu farai molto bene. Ti serberò a speciali missioni. Intanto con Isacco ti formerai. È tanto buono e lo Spirito di Dio lo ha veramente istruito durante la lunga malattia. Ed è l’uomo che tutto ha sempre perdonato… Lasciarci, del resto, non vuole dire non vederci più. Ci incontreremo sovente, e ogni volta che ci ritroveremo parlerò proprio per te, ricordatelo…”.
Giovanni si piega su se stesso, si nasconde il volto fra le mani con un aspro scoppio di pianto, e geme: “Oh! allora dimmi subito qualche cosa che mi persuada che io sono perdonato… che io posso servire Dio… Se sapessi, ora che è caduto il fumo dell’odio, come vedo la mia anima… e come… e come penso a Dio…”.
“Lo so, non piangere. Resta nell’umiltà, ma non ti avvilire. L’avvilimento è ancora superbia. Solo, solo umiltà abbi. Suvvia, non piangere…”.
Giovanni di Endor si calma poco a poco…
Quando lo vede calmato, Gesù dice: “Vieni, andiamo sotto quel folto di meli e raduniamo i compagni e le donne. Parlerò a tutti, ma ti dirò come Dio ti ama”.
Scendono, radunandosi intorno gli altri man mano che vanno, e si siedono poi a cerchio sotto l’ombra del pometo. Anche Lazzaro, che parlava con lo Zelote, si aggiunge alla compagnia. Venti persone in tutto.
205.3
3“Udite. È una bella parabola che vi guiderà con la sua luce in tanti casi.
Un uomo aveva due figli. Il maggiore era serio, lavoratore, affezionato, ubbidiente. Il secondo era intelligente più del maggiore — che in verità era un poco ottuso e si lasciava guidare per non avere da affaticarsi a decidere da sé — ma in compenso era anche ribelle, svagato, amante del lusso e del piacere, dissipatore e ozioso. L’intelligenza è un grande dono di Dio. Ma è un dono che va usato saggiamente. Altrimenti è come certi farmachi i quali, usati in mal modo, non sanano ma uccidono. Il padre — era nel suo diritto e nel suo dovere — lo richiamava a vita più saggia. Ma senza alcun utile, tolto quello di averne male risposte e un maggior irrigidimento del figlio nelle proprie cattive idee.
Infine un giorno, dopo una disputa più fiera, il figlio minore disse: “Dàmmi la mia parte dei beni. Così non sentirò più i tuoi rimproveri e i lagni del fratello. Ognuno il suo e sia finito tutto”. “Guarda”, rispose il padre, “che presto sarai rovinato. Che farai allora? Pensa che io non sarò ingiusto in favore di te e non riprenderò un picciolo a tuo fratello per darlo a te”. “Non ti chiederò nulla. Sta’ sicuro. Dàmmi la mia parte”.
Il padre fece stimare le terre e le cose preziose e, visto che denaro e gioielli facevano tanto quanto le terre, dette al maggiore i campi e i vigneti, le mandre e gli ulivi, e al minore il denaro e i gioielli, che il giovane vendette subito mutando tutto in denaro. E fatto questo, in pochi giorni, se ne andò in lontano paese dove visse da gran signore, scialacquando tutto il suo in bagordi di ogni specie, facendosi credere un figlio di re perché si vergognava di dire: “sono campagnolo”, rinnegando perciò il padre suo. Festini, amici e amiche, vesti, vini, giuoco… vita dissoluta… Presto vide scemare la sostanza e venire avanti la miseria. E con la miseria, a farla più grave, venne nel paese una grande carestia che dette fondo ai resti della sostanza.
205.4
4Avrebbe potuto andare dal padre. Ma era superbo e non volle. Andò allora da un riccone del paese, già suo amico nei tempi buoni, e lo pregò dicendo: “Accoglimi fra i tuoi servi in ricordo di quando godesti delle mie dovizie”. Vedete voi come è stolto l’uomo! Preferisce mettersi sotto la frusta di un padrone anziché dire ad un padre: “Perdono! Ho sbagliato!”. Quel giovane aveva imparato tante cose inutili con la sua intelligenza aperta, ma non aveva voluto imparare il detto dell’Ecclesiastico: “Quanto è infame colui che abbandona il padre suo e quanto è maledetto da Dio chi fa inquietare la madre”. Era intelligente ma non sapiente.
L’uomo a cui si era rivolto, in cambio del molto che aveva goduto dal giovane stolto, mise questo stolto di guardia ai porci — perché si era in paese pagano e vi erano molti porci — e lo mandò a pasturare nei suoi possessi le mandre dei porci. Lurido, stracciato, puzzolente, affamato — perché il cibo era scarso per tutti i servi e specie per gli infimi, e lui, straniero mandriano di porci e deriso, era ritenuto tale — vedeva i porci satollarsi delle ghiande e sospirava: “Potessi almeno io pure empirmi il ventre di questi frutti! Ma sono troppo amari! Neppure la fame me li fa parere buoni”. E piangeva pensando ai ricchi festini da satrapo fatti poco tempo prima fra risa, canti, danze… e pensava poi agli onesti pranzi ben nutriti della sua casa lontana, alle porzioni che il padre faceva a tutti imparzialmente, serbando per sé sempre il meno, lieto di vedere il sano appetito dei suoi figli… e pensava anche alle parti fatte ai servi da quel giusto, e sospirava: “I garzoni di mio padre, anche i più infimi, hanno pane in abbondanza… e io qui muoio di fame…”. Un lungo lavoro di riflessione, una lunga lotta per strozzare la superbia…
205.5
5Infine venne il giorno che, rinato nell’umiltà e nella sapienza, sorse in piedi e disse: “Io vado dal padre mio! È stolto questo orgoglio che mi fa prigione. E di che? Perché soffrire e nel corpo e più nel cuore mentre posso avere perdono e sollievo? Vado dal padre mio. È detto. Che gli dirò? Ma quello che è nato qui dentro, in questa abbiezione, fra queste lordure, fra i morsi della fame! Gli dirò: ‘Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami perciò come l’infimo dei tuoi garzoni, ma sopportami sotto il tuo tetto. Che io ti veda passare…’. Non potrò dirgli: ‘…perché ti amo’. Non lo crederebbe. Ma lo dirà la mia vita, ed egli lo comprenderà, e prima di morire mi benedirà ancora… Oh! lo spero. Perché mio padre mi ama”. E, tornato la sera in paese, si licenziò dal padrone e mendicando per via tornò a casa sua.
Ecco i campi paterni… e la casa… e il padre che dirigeva i lavori, invecchiato, scarnito dal dolore, ma sempre buono… Il colpevole, guardando quella rovina causata da lui, si fermò intimorito… ma il padre, girando l’occhio, lo vide e gli corse incontro, perché era ancora lontano, e raggiuntolo gli gettò le braccia al collo e lo baciò. Solo il padre aveva riconosciuto in quel mendicante avvilito la sua creatura e solo lui aveva avuto un movimento di amore. Il figlio, stretto fra quelle braccia, con il capo sulla spalla paterna, mormorò fra i singhiozzi: “Padre, lascia che io mi getti ai tuoi piedi”. “No, figlio mio! Non ai piedi. Sul mio cuore, che ha tanto sofferto della tua assenza e che ha bisogno di rivivere col sentire il tuo calore sul mio petto”. E il figlio, piangendo più forte, disse: “Oh! padre mio! Io ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato da te: figlio. Ma permettimi di vivere fra i tuoi servi, sotto il tuo tetto, vedendoti, mangiando il tuo pane, servendoti, bevendo il tuo alito. Ad ogni boccone di pane, ad ogni tuo respiro si riformerà il mio cuore tanto corrotto e diverrò onesto…”. Ma il padre, tenendolo sempre abbracciato, lo condusse verso i servi, che si erano ammucchiati in distanza e che osservavano, e disse loro: “Presto, portate qui la veste più bella e catini di acque odorose, lavatelo, profumatelo, rivestitelo, mettetegli dei calzari nuovi e un anello al dito. Poi prendete un vitello ingrassato e ammazzatelo. E si prepari un banchetto. Perché questo figlio mio era morto ed ora è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato. Io voglio che ora lui pure ritrovi il suo semplice amore di pargolo; e il mio amore e la festa della casa per il suo ritorno glielo devono dare. Deve capire che egli è sempre per me il caro bambino ultimo nato, quale era nella infanzia sua lontana, quando mi camminava al fianco facendomi beato col suo sorriso e il suo balbettio”. E così fecero i servi.
6Il figlio maggiore era in campagna e non seppe nulla fino al
205.6
suo ritorno. A sera, venendo verso casa, la vide luminosa di lumi e udì suoni di strumenti e danze uscire da essa. Chiamò un servo che correva indaffarato e gli disse: “Che avviene?”. E il servo rispose: “È tornato tuo fratello! Tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso perché ha riavuto il figlio e sano, guarito dal suo grande male, ed ha ordinato banchetto. Non si attende che te per cominciare”. Ma il primogenito, in collera perché gli pareva ingiustizia tanta festa per il minore, che oltre che minore era stato cattivo, non volle entrare e anzi fece per allontanarsi da casa.
Ma il padre, avvertito di questo, corse fuori e lo raggiunse tentando di convincerlo e pregandolo di non amareggiargli la sua gioia. Il primogenito rispose al padre suo: “E vuoi che io non sia inquieto? Tu fai ingiustizia e spregio al tuo primogenito. Io da quando ho potuto lavorare ti ho servito, e sono molti anni. Io non ho mai trasgredito ad un tuo comando, neppure ad un tuo desiderio. Io ti sono sempre stato vicino e ti ho amato per due per farti guarire dalla piaga fatta da mio fratello. E tu non mi hai dato neppure un capretto per godermelo cogli amici. Questo, che ti ha offeso, che ti ha abbandonato, che è stato infingardo e dissipatore e che torna ora perché è spinto dalla fame, tu lo onori e per lui ammazzi il vitello più bello. Vale la pena essere lavoratori e senza vizi! Questo non me lo dovevi fare!”.
Il padre disse allora stringendoselo al seno: “Oh! figlio mio! E puoi credere che io non ti ami perché non stendo un velo di festa sulle tue azioni? Le tue azioni sono sante di loro, e il mondo ti loda per esse. Ma questo tuo fratello, invece, ha bisogno di essere rialzato nella stima del mondo e nella stima sua stessa. E credi tu che io non ti ami perché non ti do un premio visibile? Ma mattina e sera e in ogni mio alito e pensiero tu sei presente al mio cuore, e ad ogni attimo io ti benedico. Tu hai il premio continuo di essere sempre con me, e tutto quanto è mio è tuo. Ma era giusto banchettare e fare festa per questo tuo fratello, che era morto ed è risuscitato al Bene, che era perduto ed è stato ritornato al nostro amore”. E il primogenito si arrese.

205.7
7Così, amici miei, succede nella Casa del Padre. E chi si sa uguale al figlio minore della parabola pensi pure che, se lo imita nell’andare al Padre, il Padre gli dice: “Non ai miei piedi. Ma sul mio cuore, che ha sofferto della tua assenza e che ora è beato per il tuo ritorno”. Chi è in condizioni di figlio primogenito e senza colpa verso il Padre, non sia geloso della gioia paterna, ma ne prenda parte, dando amore al fratello redento.
Ho detto. Rimani, Giovanni di Endor, e tu, Lazzaro. Gli altri vadano a preparare le mense. Presto verremo”.
Tutti si ritirano. Quando Gesù, Lazzaro e Giovanni sono soli, Gesù dice a Lazzaro e Giovanni: “Così si farà dell’anima cara che tu attendi, Lazzaro, e così si fa della tua, Giovanni. La bontà di Dio supera ogni misura”…
205.8
8…Gli apostoli, insieme alla Madre e alle donne, vanno verso casa preceduti da Marjziam che saltella correndo avanti. Ma presto ritorna e prende Maria per mano dicendole: “Vieni con me. Ti devo dire una cosa, da soli”. E Maria lo accontenta.
Torcono verso il pozzo, sito in un angolo del cortiletto, tutto velato da una pergola folta che da terra sale con un arco verso la terrazza. Là dietro è l’Iscariota.
“Giuda, che vuoi? Vai, Marjziam… Parla, che vuoi?”.
“Io sono in colpa… Non oso andare dal Maestro né affrontare i compagni… Aiutami…”.
“Ti aiuterò. Ma non pensi quanto dolore dài? Mio Figlio ha pianto per causa tua. E i compagni ne hanno sofferto. Ma vieni. Nessuno ti dirà niente. E, se puoi, non ricadere più in queste colpe. È indegno di un uomo, ed è sacrilego verso il Verbo di Dio”.
“E tu, Madre, mi perdoni?”.
“Io? Io non conto presso te che ti senti tanto grande. Io sono la più piccola delle serve del Signore. Come ti puoi preoccupare di me se non hai pietà di mio Figlio?”.
“Perché ho anche io una madre e, se ho il tuo perdono, mi pare di avere il suo”.
“Ella non sa questa tua colpa”.
“Ma ella mi aveva fatto giurare di essere buono col Maestro. Sono spergiuro. Sento il rimprovero dell’anima di mia madre”.
“Senti questo? E il lamento e il rimprovero del Padre e del Verbo non lo senti? Sei un disgraziato, Giuda! Semini, in te e in chi ti ama, il dolore”.
Maria è molto seria e mesta. Senza acredine parla, ma con molta serietà. Giuda piange.
“Non piangere. Ma migliorati. Vieni”, e lo prende per mano entrando così nella cucina.
Lo stupore di tutti è vivissimo. Ma Maria previene ogni uscita poco pietosa. Dice: “Giuda è ritornato. Fate come il primogenito dopo il discorso del padre. Giovanni, va’ ad avvisare Gesù”.
Giovanni di Zebedeo parte di corsa.
Un silenzio grava nella cucina… Poi Giuda dice: “Perdonatemi, tu Simone per il primo. Hai un cuore tanto paterno. Sono un orfano io pure”.
“Sì, sì, ti perdono. Per favore, non parlarne più. Siamo fratelli… e non mi piacciono questi alti e bassi di perdoni chiesti e di ricadute fatte. Avviliscono chi li fa e chi li dà. Ecco Gesù. Vai da Lui. E basta”.
Giuda va mentre Pietro, non potendo fare altro, si dà a spezzare con foga delle legna secche…
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 24 marzo 2019, III Domenica di Quaresima

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 13,1-9.
In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli circa quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva mescolato con quello dei loro sacrifici.
Prendendo la parola, Gesù rispose: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte?
No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo.
O quei diciotto, sopra i quali rovinò la torre di Sìloe e li uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme?
No, vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
Disse anche questa parabola: «Un tale aveva un fico piantato nella vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò.
Allora disse al vignaiolo: Ecco, son tre anni che vengo a cercare frutti su questo fico, ma non ne trovo. Taglialo. Perché deve sfruttare il terreno?
Ma quegli rispose: Padrone, lascialo ancora quest'anno finché io gli zappi attorno e vi metta il concime
e vedremo se porterà frutto per l'avvenire; se no, lo taglierai».
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 4 Capitolo 281 pagina 384 - CD 4, traccia 56
1Gesù è diretto al Tempio. Lo precedono a gruppi i discepoli, lo seguono in gruppo le discepole, ossia la Madre, Maria Cleofe, Maria Salome, Susanna, Giovanna di Cusa, Elisa di Betsur, Annalia di Gerusalemme, Marta e Marcella. Non c’è la Maddalena. Intorno a Gesù, i dodici apostoli e Marziam.
Gerusalemme è nella pompa dei suoi tempi di solennità. Gente in ogni via e di ogni terra. Canti, discorsi, mormorio di preghiere, imprecazioni di asinai, qualche pianto di bambino. E su tutto un cielo nitido che si mostra fra casa e casa, e un sole che scende allegro a ravvivare i colori delle vesti, ad accendere i morenti colori delle pergole e degli alberi che si intravvedono qua e là oltre i muri dei chiusi giardini o delle terrazze.
Talora Gesù incrocia persone di conoscenza, e il saluto è più o meno deferente a seconda degli umori dell’incrociante. Così è profondo ma sussiegato quello di Gamaliele, il quale guarda fisso Stefano, che gli sorride dal gruppo dei discepoli e che Gamaliele, dopo essersi inchinato a Gesù, chiama in disparte e gli dice poche parole, dopo di che Stefano torna nel gruppo. Venerante è il saluto del vecchio sinagogo Cleofa di Emmaus, diretto insieme ai suoi concittadini al Tempio. Aspro come una maledizione è quello di risposta dei farisei di Cafarnao.
2Un gettarsi a terra baciando i piedi di Gesù nella polvere della via è quello dei contadini di Giocana, capitanati dall’intendente. La folla si ferma ad osservare stupita questo gruppo di uomini che ad un quadrivio si precipita con un grido ai piedi di un giovane uomo, che non è un fariseo né uno scriba famoso, che non è un satrapo né un potente cortigiano, e qualcuno domanda chi è, e un bisbiglio corre: «È il rabbi di Nazaret, quello che si dice sia il Messia».
Proseliti e gentili si affollano allora curiosi, stringendo il gruppo contro al muro, facendo ingombro nella minuscola piazzetta, finché un gruppo di asinai li disperde vociando imprecazioni all’ostacolo. Ma la folla subito si riunisce di nuovo, separando le donne dagli uomini, esigente, brutale nella sua manifestazione che è anche di fede. Tutti vogliono toccare le vesti di Gesù, dirgli una parola, interrogarlo. Ed è sforzo inutile, perché la loro stessa fretta, la loro ansia, la loro irrequietezza per farsi avanti, respingendosi a vicenda, fa sì che nessuno ci riesce, e anche le domande e le risposte si confondono in un unico rumore incomprensibile.
L’unico che si astrae dalla scena è il nonno di Marziam, il quale ha risposto con un grido al grido del nipotino e, subito dopo aver venerato il Maestro, si è stretto al cuore il nipote e stando così, ancora rilassato sui calcagni, i ginocchi a terra, se lo è seduto nel grembo e se lo ammira e carezza con lacrime e baci, beati, e lo interroga e lo ascolta. Il vecchio è già in Paradiso tanto è beato.
Accorrono le milizie romane credendo che vi sia qualche rissa, e si fanno largo. Ma quando vedono Gesù hanno un sorriso e si ritirano tranquille, limitando a consigliare i presenti a lasciare libero l’importane quadrivio. E Gesù subito ubbidisce, approfittando dello spazio fatto dai romani che lo precedono di qualche passo come per fargli strada, in realtà per tornare al loro posto di picchetto perché la guardia romana è molto rinforzata, come se Pilato sapesse esservi malcontento nella folla e temesse sommosse in questi giorni in cui Gerusalemme è colma di ebrei di ogni parte. Ed è bello vederlo andare preceduto dal drappello romano, come un re al quale si fa largo mentre va ai suoi possessi.
Ha detto, nel muoversi, al bambino e al vecchio: «State insieme e seguitemi»; e all’intendente: «Ti prego lasciarmi i tuoi uomini. Mi saranno ospiti fino a sera».
L’intendente risponde ossequioso: «Tutto ciò che Tu vuoi sia fatto», e se ne va da solo da un profondo saluto.
3È ormai prossimo il Tempio - e il formicaio della folla, proprio come di formiche presso la buca del formicaio, è ancor più forte - quando un contadino di Giocana grida: «Ecco il padrone!» e cade a ginocchi per salutare, imitato da altri.
Gesù resta in piedi in mezzo ad un gruppo di prostrati, perché i contadini si erano stretti a Lui, e gira lo sguardo verso il luogo indicato, incontrando lo sguardo di un impaludato fariseo, che non mi è nuovo, ma che non so dove l’ho visto.
Il fariseo Giocana è con altri della sua casta: un mucchio di stoffe preziose, di frange, di fibbie, di cinture, di filatterie, tutte più ampie delle comuni. Giocana guarda attento Gesù, uno sguardo di pura curiosità, ma però non irriverente. Anzi ha un saluto impettito, appena un inchino del capo. Ma è sempre un saluto, al quale Gesù risponde deferente. Anche due o tre altri farisei salutano, mentre altri guardano sprezzanti o fingono di guardare altrove, e uno solo lancia una offesa di certo, perché vedo che chi circonda Gesù sussulta e lo stesso Giocana si volta tutto d’un pezzo a fulminare con lo sguardo l’offensore, che è un uomo più giovane di lui, dai tratti marcati e duri.
Quando sono sorpassati e i contadini osano parlare, uno di essi dice: «È Doras, Maestro, quello che ti ha maledetto».
«Lascialo fare. Ho voi che mi benedite» dice calmo Gesù.
Appoggiato ad un archivolto, insieme ad altri, è Mannaen, e come vede Gesù alza le braccia con una esclamazione di gioia: «Giornata gioconda è questa poiché io ti trovo!» e viene verso Gesù, seguito da chi è con lui. Lo venera sotto l’ombroso archivolto che fa rimbombare le voci come sotto una cupola.
Proprio mentre lo venera, passano rasente al gruppo apostolico i cugini Simone e Giuseppe con altri nazareni… e non salutano… Gesù li guarda accorato ma non dice nulla.
Giuda e Giacomo si parlano tra loro concitati, e Giuda avvampa di sdegno e poi parte di corsa, inutilmente trattenuto dal fratello. Ma Gesù lo richiama con un talmente imperioso: «Giuda, vieni qui!» che l’inquieto figlio di Alfeo torna indietro… «Lasciali fare. Sono semi che ancora non hanno sentito la primavera. Lasciali nel buio della zolla restia. Io penetrerò lo stesso anche se la zolla divenisse un diaspro chiuso intorno al seme. A suo tempo Io lo farò».
Ma più forte della risposta di Giuda d’Alfeo suona il pianto di Maria d’Alfeo, desolata. Un pianto di persona avvilita… Ma Gesù non si volge a consolarla, benché sia ben netto quel lamento sotto l’archivolto pieno d’echi.
Continua a parlare con Mannaen che gli dice: «Questi che con me sono, sono discepoli di Giovanni. Vogliono come me essere tuoi».
«La pace sia ai buoni discepoli. Là avanti sono Mattia, Giovanni e Simeone, con Me per sempre. Accolgo voi come accolsi loro, perché caro mi è tutto ciò che a Me viene dal santo Precursore».
4E raggiunta la cinta del Tempio.
Gesù dà gli ordini all’Iscariota e a Simone Zelote per gli acquisti di rito e le offerte di rito. Poi chiama il sacerdote Giovanni e dice: «Tu che sei di questo luogo provvederai ad invitare qualche levita che sai degno di conoscere la Verità. Perché veramente quest’anno Io posso celebrare una festa di letizia. Mai più sarà così dolce il giorno…».
«Perché, Signore?» chiede lo scriba Giovanni.
«Perché ho voi intorno, tutti, o con la presenza visibile o col loro spirito».
«Ma sempre vi saremo! E con noi molti altri» assicura veemente l’apostolo Giovanni. E tutti fanno coro.
Gesù sorride e tace mentre il sacerdote Giovanni, insieme a Stefano, va avanti, nel Tempio, ad eseguire l’ordine. Gesù gli grida dietro: «Raggiungeteci al portico dei Pagani».
Entrano e quasi subito incontrano Nicodemo, che fa un profondo saluto, ma non si avvicina a Gesù. Però ha con Gesù un sorriso di intensa intesa pieno di pace.
Mentre le donne si fermano dove possono, Gesù con gli uomini va alla preghiera, nel luogo degli ebrei, e poi torna indietro, compito ogni rito, per riunirsi a chi lo attende nel portico dei Pagani.
I porticati vastissimi e altissimi, sono pieni di popolo che ascolta le lezioni dei rabbi. Gesù si dirige al punto dove vede fermi i due apostoli e i due discepoli mandati avanti. Subito si fa cerchio intorno a Lui, e agli apostoli e discepoli si uniscono anche altre numerose persone che erano sparse nell’affollato cortile marmoreo. La curiosità è tale che anche alcuni allievi di rabbi, non so se spontaneamente o se perché mandati dai maestri, si accostano al cerchio stretto attorno a Gesù.
5Gesù chiede a bruciapelo: «Perché intorno a Me vi pigiate? Ditelo. Avete rabbi noti e sapienti, benvisti da tutti. Io sono l’Ignoto e il Malvisto. Perché allora venite a Me?».
«Perché ti amiamo» dicono alcuni, ed altri: «Perché hai parole diverse dagli altri», ed altri ancora: «Per vedere i tuoi miracoli», e: «Perché di Te abbiamo sentito parlare», e: «Perché Tu solo hai parole di vita eterna e opere corrispondenti alle parole», e infine: «Perché vogliamo unirci ai tuoi discepoli».
Gesù guarda la gente man mano che parla, quasi volesse trafiggerla con lo sguardo per leggere le più occulte sensazioni; e qualcuno, non resistendo a quello sguardo, si allontana o, quanto meno, si nasconde dietro a una colonna o a gente più alta di lui.
Gesù riprende:
«Ma sapete voi cosa vuol dire e vuole essere venire dietro a Me? Io rispondo a queste sole parole, perché non merita risposta la curiosità e perché chi ha fame delle mie parole è, di conseguenza, di Me amante e desideroso di unirsi a Me. Perciò, fra chi ha parlato, vi sono due gruppi: i curiosi che trascuro, i volenterosi che ammaestro senza inganno sulla severità di questa vocazione.
6Venire a me come discepolo vuol dire rinuncia di tutti gli amori a un solo amore: il mio. Amore egoista verso se stessi, amore colpevole verso le ricchezze o il senso o la potenza, amore onesto verso la sposa, santo verso la madre, il padre, amore amabile dei e ai figli e fratelli, tutto deve cedere al mio amore se si vuole essere miei. In verità vi dico che più liberi di uccelli spazianti nei cieli devono essere i miei discepoli, più liberi dei venti che scorrono i firmamenti senza che nessuno li trattenga, nessuno e nessuna cosa. Liberi, senza catene pesanti, senza lacci d’amore materiale, senza neppure le ragnatele sottili delle più lievi barriere. Lo spirito è come una delicata farfalla serrata dentro al bozzolo pesante della carne, e può appesantirne il volo, o arrestarlo del tutto, anche l’iridescente e impalpabile tela di un ragno: il ragno della sensibilità, della ingenerosità nel sacrificio. Io voglio tutto, senza riserve. Lo spirito abbisogna di questa libertà di dare, di questa generosità di dare, per poter essere certo di non essere impigliato nella ragnatela delle affezioni, consuetudini, riflessioni, paure, tese come tanti fili da quel ragno mostruoso che è Satana, rapinatore di anime.
Se uno vuol venire a Me e non odia santamente suo padre, sua madre, sua moglie, i suoi figli, i suoi fratelli e le sue sorelle, e persino la sua vita, non può essere mio discepolo. Ho detto: “odia santamente”. Voi in cuor vostro dite: “L’odio, Egli lo insegna, non è mai santo. Perciò Egli si contraddice”. No. Non mi contraddico. Io dico di odiare la pesantezza dell’amore, la passionalità carnale dell’amore al padre e madre, e sposa e figli, e fratelli e sorelle, e alla stessa vita, ma anzi ordino di amare, con la libertà leggera che è propria degli spiriti, i parenti e la vita. Amateli in Dio e per Dio, non posponendo mai Dio a loro, occupandovi e preoccupandovi di portarli dove il discepolo è giunto, ossia a Dio Verità. Così amerete santamente i parenti e Dio, conciliando i due amori e facendo dei legami di sangue, non peso ma ala, non colpa ma giustizia.
Anche la vostra vita dovete esser pronti a odiare per seguire Me. Odia la sua vita colui che, senza paura di perderla o di renderla umanamente triste, la fa servire a Me. Ma non è che una apparenza di odio. Un sentimento erroneamente detto “odio” dal pensiero dell’uomo che non sa elevarsi, dell’uomo tutto terrestre, di poco superiore al bruto. In realtà questo apparente odio, che è il negare le soddisfazioni sensuali alla esistenza per dare una sempre più vasta vita allo spirito, è amore. Amore è, e del più alto che esista, del più benedetto. Questo negarsi le basse soddisfazioni, questo interdirsi la sensualità degli affetti, questo procurarsi rimproveri e commenti ingiusti, questo rischiare punizioni, ripudi, maledizioni e forse anche persecuzioni, è una sequela di pene. Ma occorre abbracciarle e imporsele come una croce, un patibolo sul quale si espia ogni passata colpa per andare giustificati a Dio, e dal quale si ottiene ogni grazia, vera, potente, santa grazia di Dio per coloro che noi amiamo. Chi non porta la sua croce e non viene dietro a Me, chi non sa fare questo, non può essere mio discepolo.
7Pensateci dunque molto, molto, voi che dite: “Siamo venuti perché vogliamo unirci ai tuoi discepoli”. Non è vergogna ma sapienza pesarsi, giudicarsi e confessare, a se stessi e agli altri: “Io non ho stoffa di discepolo”. E che? I pagani hanno a base di un loro insegnamento la necessità di “conoscere se stessi”; e voi israeliti, per conquistare il Cielo, non lo sapreste fare? Perché, ricordatevelo sempre, beati quelli che verranno a Me. Ma piuttosto che venire per poi tradire Me e Colui che mi ha mandato, meglio è non venire affatto e rimanere i figli della Legge come fin qui foste. Guai a coloro che avendo detto: “Vengo”, portano poi danno al Cristo essendo i traditori dell’idea cristiana, gli scandalizzatori dei piccoli, dei buoni! Guai a loro! Eppure vi saranno, e sempre vi saranno!
Imitate perciò colui che vuole edificare una torre. Prima calcola attentamente la spesa necessaria e fa i conti del suo denaro per vedere se ha di che portarla a termine, perché, terminate le fondamenta, non debba sospendere i lavori non avendo più denaro. In questo caso perderebbe anche quanto aveva prima, rimanendo senza torre e senza talenti, e in cambio si attirerebbe le beffe del popolo che direbbe: “Costui ha cominciato a fabbricare senza poter finire. Ora può empirsi lo stomaco delle rovine della sua incompiuta fabbrica”.
Imitate ancora i re della terra, facendo servire i poveri avvenimenti del mondo a insegnamento soprannaturale. Costoro, quando vogliono muovere guerra ad un altro re, esaminano con calma e attenzione ogni cosa, il pro ed il contro, meditano se l’utile della conquista valga il sacrificio delle vite dei sudditi, studiano se è possibile conquistare quel luogo, se le loro milizie, inferiori della metà a quelle del rivale, anche se più combattive, possono vincere; e giustamente pensando che è improbabile che diecimila vincano ventimila, prima che avvenga lo scontro mandano incontro al rivale una ambasceria con ricchi doni e, ammansendo il rivale, già insospettito dalle mosse militari dell’altro, lo disarmano con prove di amicizia, ne annullano i sospetti e fanno con esso trattato di pace, in verità sempre più vantaggioso, tanto umanamente che spiritualmente, di una guerra.
Così dovete fare voi prima di iniziare la nuova vita e di schierarvi contro il mondo. Perché questo è essere miei discepoli: andare contro la turbinosa e violenta corrente del mondo, della carne, di Satana. E, se non sentite in voi il coraggio di rinunciare a tutto per amor mio, non venite a Me perché non potete essere miei discepoli».
8«Va bene. Ciò che Tu dici è vero» ammette uno scriba che si è mescolato al gruppo. «Ma se ci spogliamo di tutto, con che ti serviamo poi? La Legge ha dei comandi che sono come monete che Dio dà all’uomo perché usandole si compri la vita eterna. Tu dici: “Rinunciate a tutto” e accenni il padre, la madre, le ricchezze, gli onori. Dio ha pur dato queste cose e ci ha detto, per bocca di Mosè, di usarle con santità per apparire giusti agli occhi di Dio. Se Tu ci levi tutto, che ci dai?».
«Il vero amore, l’ho detto, o rabbi. Vi do la mia dottrina che non leva un iota alla antica Legge, ma anzi la perfeziona».
«Allora tutti siamo discepoli uguali, perché tutti abbiamo le stesse cose».
«Tutti le abbiamo secondo la Legge mosaica. Non tutti secondo la Legge perfezionata da Me secondo l’Amore. Ma non tutti raggiungono, nella stessa, la stessa somma di meriti. Anche fra i miei stessi discepoli non tutti giungeranno ad avere somma di meriti in uguale misura, e alcuno fra essi non solo non avrà somma ma perderà anche l’unica sua moneta: la sua anima».
«Come? A chi più è dato più resterà. I tuoi discepoli, meglio i tuoi apostoli, ti seguono nella tua missione e sono al corrente dei tuoi modi, hanno avuto moltissimo; molto hanno avuto i discepoli effettivi, meno i discepoli solo di nome, nulla quelli che, come me, non ti ascoltano che per accidente. È ovvio che moltissimo avranno in Cielo gli apostoli, molto i discepoli effettivi, meno i discepoli di nome, nulla quelli che, come me, non ti ascoltano che per accidente. È ovvio che moltissimo avranno in Cielo gli apostoli, molto i discepoli effettivi, meno i discepoli di nome, nulla quelli che sono come me».
«Umanamente è ovvio, e male anche umanamente. Perché non tutti sono capaci di far fruttare i beni avuti. Odi questa parabola e perdona se troppo a lungo qui insegno. Ma Io sono la rondine di passaggio, e non sosto che per poco nella Casa del Padre, essendo venuto per tutto il mondo e non volendo, questo piccolo mondo che è il Tempio di Gerusalemme, permettermi di raccogliere il volo e rimanere là dove la gloria del Signore mi chiama»,
«Perché dici così?».
«Perché è verità».
Lo scriba si guarda attorno e poi china la testa. Che sia verità lo vede scritto su troppi volti di sinedristi, rabbi e farisei che sono andati sempre più ingrossando l’assembramento che è intorno a Gesù. Volti verdi di bile o purpurei d’ira, sguardi che equivalgono a parole di maledizione e a sputi di veleno, rancore che lievita da ogni parte, desiderio di malmenare il Cristo, che resta desiderio solo per paura dei molti che circondano il Maestro con devozione e che sono pronti a tutto per difenderlo, paura forse anche di punizioni da parte di Roma che ha benignità verso il mite Maestro galileo.
9Gesù riprende calmo ad esporre con la parabola il suo pensiero:
«Un uomo, essendo in procinto di fare un lungo viaggio e una lunga assenza, chiamò tutti i suoi servi e consegnò a loro tutti i suoi beni. A chi diede cinque talenti d’argento, a chi due d’argento, a chi uno solo d’oro. A ciascuno a seconda del suo grado e della sua abilità. E poi partì.
Ora, il servo che aveva avuto cinque talenti d’argento andò a negoziare con accortezza i suoi talenti, e dopo qualche tempo essi gliene procurarono altri cinque. Quello che aveva avuto due talenti d’argento fece lo stesso e raddoppiò la somma avuta. Ma quello al quale il padrone aveva più dato - un talento d’oro schietto - preso dalla paura di non saper fare, dei ladri, di mille cose chimeriche, e soprattutto dall’infingardia, fece una grande buca in terra e vi nascose il denaro del suo padrone.
Passarono molti e molti mesi e tornò il padrone. Chiamò subito i suoi servi perché rendessero il denaro avuto in deposito.
Venne quello che aveva avuto cinque talenti d’argento e disse: “Ecco, mio signore. Tu me ne desti cinque. Io, parendomi male di non far fruttare quanto mi avevi dato, mi sono industriato e ti ho guadagnato altri cinque talenti. Di più non ho potuto…”. “Bene, molto bene, servo buono e fedele. Sei stato fedele nel poco, volenteroso e onesto. Ti darò autorità su molto. Entra nella gioia del tuo signore”.
Poi venne l’altro dei due talenti e disse: “Mi sono permesso di usare i tuoi beni per tuo utile. Ecco qui i conti che ti mostrano come ho usato il tuo denaro. Vedi? Erano due talenti d’argento. Ora sono quattro. Sei contento, mio signore?”. E il padrone dette al servo buono la stessa risposta data al primo servo.
Venne per ultimo quello che, godendo della massima fiducia del padrone, aveva avuto dallo stesso il talento d’oro. Lo svolse dalla sua custodia e disse: “Tu mi hai affidato il maggior valore, perché mi sai prudente e fedele, così come io so che tu sei intransigente ed esigente e che non tolleri perdite nel tuo denaro, ma se disgrazia ti incoglie ti rifai su chi ti è prossimo, perché in verità mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso, non condonando uno spicciolo al tuo banchiere o al tuo fattore, per nessuna ragione. Tanto deve essere il denaro quanto tu dici. Ora io, temendo di sminuire questo tesoro, l’ho preso e l’ho nascosto. Non mi sono fidato di nessuno, neppure di me stesso. Ora l’ho dissotterrato e te lo rendo. Eccoti il tuo talento”.
“O servo iniquo ed infingardo! In verità tu non mi hai amato, poiché non mi hai conosciuto e non hai amato il mio benessere perché l’hai lasciato inerte. Hai tradito la stima che avevo posta in te, e da te stesso ti smentisci, ti accusi e condanni. Tu sapevi che io mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso. E perché allora non hai fatto che io potessi mietere e raccogliere Così rispondi alla mia fiducia? Così mi conosci? Perché non hai portato il denaro ai banchieri, che lo avrei al ritorno ritirato con gli interessi? A questo con particolare cura ti avevo istruito, e tu, stolto infingardo, non ne hai fatto conto. Ti sia dunque levato il talento e ogni altro bene e sia dato a quello che ha i dieci talenti”.
“Ma colui ne ha già dieci, mentre questo ne resta privo…” gli obbiettarono.
“Bene sta. A chi ha, e su quanto ha lavora, sarà dato più ancora e fino alla sovrabbondanza. Ma a chi non ha, perché non volle avere, sarà tolto anche quello che gli fu dato. Riguardo al servo disutile, che ha tradito la fiducia mia e lasciato inerti i doni datigli, gettatelo fuori dalla mia proprietà, e vada piangendo e rodendosi in cuor suo”.
Questa è la parabola. Come tu vedi, o rabbi, a chi più aveva meno restò, perché non seppe meritare di conservare il dono di Dio. E non è detto che uno di quelli che tu chiami discepoli solo di nome, aventi ben poco da negoziare perciò, e anche fra chi, ascoltandomi solo per accidente, come tu dici, e avendo per unica moneta l’anima, non giungano ad avere il talento d’oro, e i frutti dello stesso anche, che verrà levato ad uno dei più beneficati. Infinite sono le sorprese del Signore, perché infinite sono le reazioni dell’uomo. Vedrete gentili giungere alla Vita eterna e samaritani possedere il Cielo, e vedrete israeliti puri e seguaci miei perdere il Cielo e l’eterna Vita».
10Gesù tace e, come volesse troncare ogni discussione, si volge verso la cinta del Tempio.
Ma un dottore della Legge, che si era seduto in serio ascolto sotto il porticato, si alza e gli si para davanti chiedendogli: «Maestro, che debbo fare per ottenere la Vita eterna? Hai risposto ad altri, rispondi a me pure».
«Perché mi vuoi tentare? Perché vuoi mentire? Speri che Io dica cosa disforme alla Legge perché aggiungo concetti più luminosi e perfetti ad essa? Cosa c’è scritto nella Legge? Rispondi! Quale è il comandamento principale di essa?»
«”Amerai il Signore Iddio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze, con tutta la tua intelligenza. Amerai il tuo prossimo come te stesso”».
«Ecco. Bene hai risposto. Fa’ questo e avrai la Vita eterna».
«E chi è il mio prossimo ? Il mondo è pieno di gente buona e malvagia, nota ed ignota, amica e nemica di Israele. Quale è il mio prossimo?».
«Un uomo scendendo da Gerusalemme a Gerico per le gole delle montagne, incappò nei ladroni, i quali, dopo averlo ferito crudelmente, lo spogliarono di ogni suo avere e fin delle vesti, lasciandolo più morto che vivo sul bordo della strada.
Per la stessa via passò un sacerdote che aveva cessato il suo turno al Tempio. Oh! era ancor profumato degli incensi del Santo! E avrebbe dovuto avere l’anima profumata di bontà soprannaturale e di amore, essendo stato nella Casa di Dio, quasi a contatto coll’Altissimo. Il sacerdote aveva fretta di tornare alla sua casa. Guardò dunque il ferito ma non si arrestò. Passò oltre sollecito, lasciando il disgraziato sulla proda.
Passò un levita. Contaminarsi lui che deve servire nel Tempio? Ohibò! Raccolse la veste perché non si sporcasse di sangue, gettò uno sguardo sfuggente su colui che gemeva nel suo sangue e affrettò il passo verso Gerusalemme, verso il Tempio.
Terzo, venendo dalla Samaria, diretto al guado, venne un samaritano. Vide il sangue, si fermò, scoperse il ferito nel crepuscolo che si infittiva, scese dal giumento, si accostò al ferito, lo ristorò con un sorso di vino gagliardo, strappò il suo mantello farne fasce e, lavate e unte le ferite prima con aceto e poi con olio, gliele fasciò con amore, e caricato il ferito sul suo giumento, guidò con accortezza la bestia, sorreggendo nel contempo il ferito, confortandolo con buone parole, non preoccupandosi della fatica, né sdegnandosi per essere questo ferito di nazionalità giudea. Giunto in città, lo condusse all’albergo, lo vegliò per tutta la notte e all’alba, vedendolo migliorato, lo affidò all’oste, pagandolo in anticipo con dei denari e dicendo: “Abbine cura come fossi io stesso. Al mio ritorno, quanto avrai speso in più io te lo renderò e con buona misura, se bene avrai fatto”. E se ne andò.
Dottore della Legge, rispondimi. Quale fra questi tre fu “prossimo” per colui che incappò nei ladroni? Forse il sacerdote? Forse il levita? O non piuttosto il samaritano che non si chiese chi era il ferito, perché era ferito, se faceva male a soccorrerlo perdendo tempo, denaro e rischiando d’essere accusato d’essere il feritore?».
Il dottore della Legge risponde: «Fu “prossimo” costui, perché ebbe misericordia».
«Fa’ tu pure il simigliante e amerai il prossimo e Dio nel prossimo, meritando vita eterna».
11Nessuno osa più parlare e Gesù ne approfitta per raggiungere le donne, che erano in attesa presso la cinta, e con esse andare di nuovo in città. Ora ai discepoli si è aggiunta una coppia di sacerdoti, o meglio, un sacerdote e un levita, giovanissimo quest’ultimo, patriarcale l’altro.
Ma Gesù ora parla con la Madre avendo in mezzo, fra Sé e Lei, Marziam. E le chiede: «Mi hai udito, Madre?».
«Sì, Figlio mio, e alla tristezza di Maria di Cleofe si è aggiunta la mia. Ella ha pianto poco prima di entrare nel Tempio…».
«Lo so, Madre. E ne so il motivo. Ma non deve piangere. Solo pregare».
«Oh! prega tanto! In queste sere, sotto la sua capanna, fra i figli dormenti, ella pregava e piangeva. Io la sentivo piangere attraverso la parete sottile delle frasche vicine. Vedere a pochi passi Giuseppe e Simone, vicini ma divisi così!… E non è la sola a piangere. Con me ha pianto Giovanna che ti pare tanto serena…».
«Perché, Madre?».
«Perché Cusa… Ha una condotta… inesplicabile. Un poco la seconda in tutto. Un poco la respinge in tutto. Se sono soli, dove nessuno li vede, è il marito esemplare di sempre. Ma se con lui sono altre persone, della Corte, è naturale, ecco allora che egli diviene autoritario e sprezzante per la mite sua sposa. Ella non capisce perché…».
«Io te lo dico. Cusa è servo di Erode. Comprendimi, Madre. “Servo”. Io non lo dico a Giovanna per non darle dolore. Ma così è. Quando non teme biasimo e derisione sovrana, è il buon Cusa. Quando li può temere, non è più tale».
«È perché Erode è molto irritato per Mannaen e…».
«È perché Erode è folle del rimorso tardivo di aver ceduto ad Erodiade. Ma Giovanna ha già tanto bene nella vita. Deve, sotto il diadema, portare il suo cilizio».
«Anche Annalia piange…».
«Perché?».
«Perché lo sposo devia contro di Te».
«Non pianga. Diglielo. Ciò è una risoluzione. Una bontà di Dio. Il suo sacrificio porterà di nuovo Samuele al Bene. Per ora questo la lascerà libera da pressioni per il matrimonio. Le ho promesso di prenderla con Me. Mi precederà nella morte…».
«Figlio!…». Maria stringe la mano di Gesù, col viso che si fa esangue.
«Mamma cara! È per gli uomini. Lo sai. È per amore degli uomini. Beviamo il nostro calice con buona volontà. Non è vero?».
«Maria inghiotte le lacrime e risponde: «Sì» Un «sì» straziato e straziante tanto.
Marziam alza il visetto e dice a Gesù: «Perché dici queste brutte cose che fanno dolore alla Mamma? Io non ti lascerò morire. Come ho difeso gli agnelli così difenderò Te.»
Gesù lo carezza e, per sollevare il morale dei due afflitti, chiede al bambino: «Che faranno, ora, le tue pecorelle? Non le rimpiangi?».
«Oh! sono con Te! Però ci penso sempre e mi chiedo: “Porfirea le avrà portate al pascolo? e avrà fatto attenzione che Spuma non vada nel lago?”. È tanto vivace Spuma, sai? Sua madre lo chiama, lo chiama… Macché! Fa ciò che vuole. E Neve, così ghiotta che mangia fino a stare male? Sai, Maestro? Io capisco cosa è essere sacerdote in tuo Nome. Meglio degli altri lo capisco. Loro (e accenna con la mano gli apostoli che vengono dietro) dicono tanti paroloni, fanno tanti progetti... per dopo. Io dico: “Farò il pastore. Come per le pecorine, per gli uomini. E sarà sufficiente”. La Mamma mia e tua mi ha detto ieri un così bel punto dei profeti… e mi ha detto: “Proprio così è il nostro Gesù”. E io nel cuore ho detto: “E io pure sarò proprio così”. Poi ho detto alla Mamma nostra: “Per ora sono agnello, poi sarò pastore. Invece ora Gesù è Pastore e poi è anche Agnello. Ma tu sei sempre l’Agnella, solo l’Agnella nostra, bianca, bella, cara, dalle parole più dolci del latte. È per questo che Gesù è tanto Agnello: perché è nato da te, Agnellina del Signore”».
Gesù si china e lo bacia, con slancio. Poi chiede: «Tu dunque vuoi proprio essere sacerdote?».
«Certo, mio Signore! Per questo cerco di farmi buono e di sapere tanto. Vado sempre da Giovanni di Endor. Mi tratta sempre da uomo e con tanta bontà. Voglio essere un pastore delle pecore sviate e non sviate, e medico-pastore delle ferite e fratturate, come dice il Profeta, Oh! che bello!» e il bambino fa un salto, battendo le mani.
«Cosa ha questo capinero da essere tanto felice?» chiede Pietro venendo avanti.
«Vede la sua via. Nettamente. Sino alla fine. Ed Io consacro questa sua visione col mio “sì”».
13Si fermano davanti ad un’alta casa che, se non erro, è verso il sobborgo di Ofel, ma in luogo più signorile.
«Qui ci fermiamo?».
«Questa è la casa che Lazzaro mi ha offerta per il banchetto di letizia. Qui già vi è Maria».
«Perché non è venuta con noi? Per paura degli scherni?».
«Oh! no! Io solo gliel’ho ordinato».
«Perché, Signore?».
«Perché il Tempio è più suscettibile di una sposa gravida. Finché posso, e non per viltà, non voglio urtarlo».
«Non ti servirà a niente, Maestro. Io, se fossi Tu, non solo lo urterei. Ma lo butterei giù dal Moria con tutti quelli che ci sono dentro».
«Sei un peccatore, Simone. Occorre pregare per i propri simili, non ucciderli».
«Io sono peccatore. Ma Tu no... e… dovresti farlo».
«Ci sarà chi lo fa. E dopo che la misura del peccato sarà raggiunta».
«Quale misura?».
«Una misura che empierà tutto il Tempio, traboccando per Gerusalemme. Non puoi capire… Oh! Marta! Apri dunque al Pellegrino la tua casa!».
Marta si fa riconoscere e aprire. Entrano tutti in un lungo atrio che finisce in un cortile selciato, avente quattro alberi ai quattro angoli. Una vasta scala si apre sopra al terreno, e dalle finestre aperte si vede tutta la città nei suoi sali-scendi. Arguisco perciò che la casa sia sulle pendici meridionali, o sud orientali, della città. La sala è apparecchiata per molti, molti ospiti. Tavole e tavole sono messe le une parallele alle altre. Un centinaio di persone può comodamente prendervi ristoro.
Accorre Maria Maddalena, che era altrove, intenta alle dispense, e si prostra davanti a Gesù. E viene Lazzaro con un sorriso beato sul volto malaticcio. Entrano man mano gli ospiti, un poco impacciati taluni, più sicuri gli altri. Ma la gentilezza delle donne li fa tutti presto a loro agio.
14Il sacerdote Giovanni conduce a Gesù i due presi nel Tempio. «Maestro, il mio buon amico Gionata e il mio giovane amico Zaccaria. Sono veri israeliti senza malizia e senz’astio».
«La pace a voi. Sono lieto di avervi. Il rito deve essere osservato anche in queste dolci consuetudini. È bello che la Fede antica dia la mano di amica alla nuova Fede venuta dal suo stesso ceppo. Sedete al mio fianco mentre viene l’ora del pasto».
Parla il patriarcale Gionata, mentre il giovine levita guarda qua e là curioso, stupito, e forse anche intimidito. Penso che si voglia dare un contegno spigliato, ma in realtà sia come un pesce fuor d’acqua. Per fortuna Stefano viene in suo soccorso e gli porta, uno dopo l’altro, gli apostoli e i discepoli principali.
Il vecchio sacerdote, lisciandosi la barba di neve, dice: «Quando Giovanni venne a me, proprio a me, suo maestro, a mostrarmi la sua guarigione, io ebbi voglia di conoscerti. Ma, Maestro, io quasi più non esco dal mio recinto. Vecchio sono… Speravo vederti però prima di morire. E Jeovè mi ha esaudito. Lode sia a Lui! Oggi ti ho sentito al Tempio. Tu superi Hillele, il vecchio, il saggio. Io non voglio, anzi io non posso dubitare che Tu sia ciò che il mio cuore attende. Ma sai cosa è avere bevuto per quasi ottanta anni la fede d’Israele quale è divenuta in secoli di… lavorazione umana? Si è fatta sangue nostro. E io sono così vecchio! Sentire Te è come sentire l’acqua che esce da una fresca sorgente. Oh! sì! Un’acqua vergine! Ma io... ma io sono saturo dell’acqua stanca che viene da tanto lontano!… che si è appesantita di tante cose. Come farò per levarmi questa saturazione è gustare di Te?».
«Credermi e amarmi. Non necessita altro per il giusto Gionata».
«Ma presto io morirò! Farò in tempo a credere tutto quello che dici? Non riuscirò più neppure a seguire tutte le tue parole, o a conoscerle dalla bocca altrui. E allora?».
«Le imparerai in Cielo. Non muore alla Sapienza che il dannato. Mentre chi muore in grazia di Dio attinge la Vita e vive nella Sapienza. Cosa credi tu che Io sia?».
«Non puoi essere che l’Atteso che ha precorso il figlio del mio amico Zaccaria. Lo hai conosciuto?».
«Mi era parente».
«Allora Tu sei parente del Battista?».
«Sì, sacerdote».
«Egli è morto… e non posso dire: “Infelice!”. Perché è morto fedele alla giustizia, dopo aver compiuto la sua missione, e perché… Oh! tempi atroci che viviamo! Non è meglio tornare ad Abramo?».
«Sì. Ma più atroci verranno, sacerdote».
«Tu dici? Roma, eh?».
«Non Roma sola. Israele colpevole ne sarà la causa prima».
«È vero. Dio ci colpisce. Lo meritiamo. Ma però anche Roma…
15Hai sentito parlare dei galilei uccisi da Pilato mentre consumavano un sacrificio? Il loro sangue si fuse con quello della vittima. Fin presso l’altare! Fin presso l’altare!».
«Ho sentito».
Tutti i galieli tumultuano per questo sopruso. Gridano: «È vero che egli era un falso Messia. Ma perché uccidere i suoi seguaci dopo aver già percosso lui? E perché in quell’ora? Erano più peccatori forse?».
Gesù impone pace e poi dice: «Vi chiedete se erano più peccatori quelli di tanti altri galilei e se è per questo che furono uccisi? No, che no lo erano. In verità vi dico che essi hanno pagato e che molti altri pagheranno se non vi convertite al Signore. Se non farete tutti penitenza, perirete tutti in ugual misura, in Galilea e altrove. Dio è sdegnato del suo popolo. Io ve lo dico. Non bisogna credere che i colpiti siano sempre i peggiori. Ognuno esamini se stesso, sé giudichi e non altro. Anche quei diciotto su cui cadde la torre di Siloe e li uccise non erano i più colpevoli in Gerusalemme. Io ve lo dico. Fate, fate penitenza se non volete essere stritolati come essi, e anche nello spirito.
16Vieni, sacerdote d’Israele. La mensa è pronta. Tocca a te, perché il sacerdote è sempre colui che va onorato per l’Idea che rappresenta e richiama, tocca a te, patriarca fra noi, tutti più giovani, offrire e benedire».
«No, Maestro! No! Non posso davanti a Te! Tu sei il Figlio di Dio!».
«Offri pure l’incenso davanti all’altare! E non credi forse che là è Dio?».
«Sì che lo credo! Con tutte le mie forze!».
«E allora? Se non tremi di offrire davanti alla Gloria Ss. dell’Altissimo, perché vuoi tremare davanti alla Misericordia che si è vestita di carne per portare anche a te la benedizione di Dio prima che venga a te la notte? Oh! che non sapete voi di Israele che, proprio perché l’uomo possa avvicinare Dio e non morirne, ho messo sulla mia Divinità insostenibile il velo della carne. Vieni e credi e sii felice. In te Io venero tutti i sacerdoti santi, da Aronne all’ultimo che sarà sacerdote d’Israele con giustizia, a te forse, perché in verità la santità sacerdotale langue fra noi come pianta senza soccorso».
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 17 marzo 2019, II Domenica di Quaresima

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 9,28-36.
Circa otto giorni dopo questi discorsi, prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare.
E, mentre pregava, il suo volto cambiò d'aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante.
Ed ecco due uomini parlavano con lui: erano Mosè ed Elia,
apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme.
Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; tuttavia restarono svegli e videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.
Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi stare qui. Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia». Egli non sapeva quel che diceva.
Mentre parlava così, venne una nube e li avvolse; all'entrare in quella nube, ebbero paura.
E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo».
Appena la voce cessò, Gesù restò solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 5 Capitolo 349 pagina 354 - CD 5, traccia 54
1Chi mai fra gli uomini non ha visto, almeno per una volta, un’alba serena di marzo? Se quest’uno c’è, è un grande infelice, perché ignora una delle grazie più belle della natura risveglia­ta da primavera, tornata vergine, fanciulla, quale doveva esserlo nel primo giorno.
In questa grazia, che è pura in ogni suo aspetto e cosa - dalle erbe novelle e rugiadose ai fioretti che si dischiudono, co­me bimbi che nascono, al primo ridere della luce del giorno; agli uccelli che si destano con un frullo d’ali e dicono il primo cip? interrogativo, preludio a tutti i loro canori discorsi della giornata; all’odore stesso dell’aria che ha perduto nella notte, per il lavacro delle rugiade e l’assenza dell’uomo, ogni corruzio­ne di polvere, fumo e sentore di corpi umani -vanno Gesù, gli apostoli e i discepoli. È con essi anche Simone d’Alfeo.
Vanno in direzione sud est, valicando i colli che fanno coro­na a Nazaret, superando un torrente, traversando una pianura stretta fra i colli nazareni e un gruppo di monti verso est. 2Questi monti sono preceduti dal cono semitronco del Tabor che mi ricorda stranamente, nella sua vetta, la lucerna dei nostri ca­rabinieri vista di profilo.
Lo raggiungono. Gesù si ferma e dice: «Pietro, Giovanni e Giacomo di Zebedeo vengano con Me sul monte. Voi spargetevi alla sua base, dividendovi verso le strade che la costeggiano, e predicate il Signore. Verso sera voglio essere di nuovo a Naza­ret. Non allontanatevi dunque molto. La pace sia con voi». E volgendosi ai tre chiamati dice: «Andiamo».
E prende la salita senza più volgersi indietro e con un passo così sollecito che fa faticare Pietro a stargli dietro.
In un momento di sosta Pietro, rosso e sudato, gli chiede col fiato grosso: «Ma dove andiamo? Non ci sono case sul monte. Sul­la cima quella vecchia fortezza. Vuoi andare a predicare là?».
«Avrei preso l’altro versante. Ma tu vedi che gli volgo le spalle. Non andremo alla fortezza, e chi è in essa non ci vedrà neppure. Vado ad unirmi col Padre mio, e vi ho voluti con Me perché vi amo. Su, lesti!».
«Oh! mio Signore! Non potremmo andare un poco più ada­gio, invece, e parlare di quanto abbiamo sentito e visto ieri, che ci ha tenuti desti tutta la notte per parlarne?».
«Agli appuntamenti di Dio si va sempre veloci. Forza, Simon Pietro! Lassù vi farò riposare». E riprende a salire...
3(Dice Gesù: «Qui innestate la Trasfigurazione avuta il 5 agosto 1944, ma senza il dettato unito alla stessa. Finito di co­piare la Trasfigurazione dello scorso anno, P. M. copierà ciò che ti mostro ora»).
5 agosto 1944.
4Sono col mio Gesù su un alto monte. Con Gesù sono Pietro, Giacomo e Giovanni. Salgono ancor più in alto e l’occhio spazia per aperti orizzonti che un bel giorno sereno rende netti nei particolari fino nelle lontananze.
Il monte non fa parte di un sistema montano come è quello della Giudea; sorge isolato avendo, rispetto al luogo dove ci tro­viamo, l’oriente in faccia, il nord alla sinistra, il sud a destra e dietro, a ovest, la vetta che si alza di ancora qualche centinaio di passi. È molto elevato e l’occhio è libero di vedere per un lar­go raggio.
Il lago di Genezaret pare un lembo di cielo sceso a incasto­narsi fra il verde della terra, una turchese ovale chiusa da sme­raldi di diverse gradazioni, uno specchio che tremula e si incre­spa a un vento lieve e sul quale scivolano, con agilità di gabbia­ni, le barche dalle vele spiegate, leggermente curvate verso l’onda azzurrina, proprio con la grazia del volo candido di un alcione, scorrente l’onda in cerca di preda. Poi ecco che dalla vasta turchese esce una vena, di un azzurro più pallido là dove il greto è più ampio, e più scuro là dove le rive si stringono e l’acqua è più profonda e cupa per l’ombra che vi gettano gli al­beri che crescono vigorosi presso il fiume, nutriti dal suo umo­re. Il Giordano pare una pennellata quasi rettilinea nel verde della pianura.
Dei paeselli sono sparsi per la pianura al di qua e al di là del fiume. Alcuni sono proprio un pugno di case, altri sono più vasti, già arieggianti a cittadine. Le vie maestre sono rughe giallognole fra il verde. Ma qua, dalla parte del monte, la pia­nura è molto più coltivata e fertile, molto bella. Si vedono le di­verse colture coi loro diversi colori ridere al bel sole che scende dal cielo sereno.
Deve essere primavera, forse marzo, se calcolo la latitudine della Palestina, perché vedo i grani già alti, ma ancora verdi, ondulare come un mare glauco, e vedo i pennacchi dei più pre­coci fra gli alberi da frutto mettere come delle nuvolette bianche e rosee su questo piccolo mare vegetale, poi prati tutti in fiore per gli alti fieni sui quali pecorelle pascolanti paiono mucchietti di neve ammucchiata qua e là sul verde.
Proprio vicino al monte, sulle colline che ne sono la base, basse e brevi colline, sono due cittadine, una verso sud, una verso nord. La pianura fertilissima si estende specialmente e più ampiamente verso il sud.
5Gesù, dopo una breve sosta al fresco di un ciuffo di alberi, certo concessa per pietà di Pietro che nelle salite fatica palese­mente, riprende a salire. Va fin quasi sulla vetta, là dove è un pianoro erboso che ha un semicerchio di alberi verso la costa.
«Riposate, amici. Io vado là a pregare». E accenna con la mano ad un ampio sasso, una roccia che affiora dal monte e che si trova perciò non verso la costa ma verso l’interno, la vetta.
Gesù si inginocchia sulla terra erbosa e appoggia le mani e il capo al masso, nella posa che prenderà anche nella preghiera del Getsemani. Il sole non lo colpisce perché la vetta lo ripara. Ma il resto dello spiazzo erboso è tutto lieto di sole, sino al limi­te d’ombra dello scrimolo alberato sotto il quale si sono seduti gli apostoli.
Pietro si leva i sandali e ne scuote via polvere e sassolini e sta così, scalzo, coi piedi stanchi fra l’erba fresca, quasi steso, col ca­po su un ciuffo smeraldino che sporge più degli altri sulla sua zolla come un guanciale. Giacomo lo imita, ma per stare comodo cerca un tronco d’albero al quale appoggia il suo mantello e su questo le spalle. Giovanni resta seduto e osserva il Maestro. Ma la calma del luogo, il venticello fresco, il silenzio e la stanchezza vincono anche lui, e la testa gli si abbassa sul petto e così le pal­pebre sugli occhi. Non dormono profondamente nessuno dei tre, ma sono in quella sonnolenza estiva che intontisce.
6Li scuote una luminosità così viva che annulla quella del sole e dilaga e penetra fin sotto il verde dei cespugli e alberi sotto cui si sono messi.
Aprono gli occhi stupiti e vedono Gesù trasfigurato. Egli è ora tale e quale come lo vedo nelle visioni del Paradiso. Natu­ralmente senza le Piaghe e senza il vessillo della Croce. Ma la maestà del Volto e del Corpo è uguale, uguale ne è la lumino­sità, e uguale la veste che da un rosso cupo si è mutata nel diamantifero e perlifero tessuto immateriale che lo veste in Cielo. Il suo Viso è un sole dalla luce siderale ma intensissima, nel quale raggiano gli occhi di zaffiro. Sembra più alto ancora, co­me la sua glorificazione ne avesse aumentato la statura. Non saprei dire se la luminosità, che rende persino fosforescente il pianoro, provenga tutta da Lui o se alla sua propria si mesca quella che ha concentrata sul suo Signore tutta la luce che è nell’universo e nei cieli. So che è qualche cosa di indescrivibile.
Gesù è ora in piedi, direi anzi che è alzato da terra, perché fra Lui e il verde del prato vi è come un vaporare di luce, uno spazio dato unicamente da una luce sul quale pare Egli si eri­ga. Ma è tanto viva che potrei anche ingannarmi, e il non vede­re più il verde dell’erba sotto le piante di Gesù potrebbe esser provocato da questa luce intensa che vibra e fa onde come si ve­de talora nei grandi fuochi. Onde, qui, di un colore bianco, in­candescente. Gesù sta col Volto alzato verso il cielo e sorride ad una sua visione che lo sublima.
Gli apostoli ne hanno quasi paura e lo chiamano, perché non pare più a loro che sia il loro Maestro tanto è trasfigurato. «Mae­stro, Maestro», chiamano piano ma con ansia. Egli non sente.
«È in estasi» dice Pietro tremante. «Che vedrà mai?».
I tre si sono alzati in piedi. Vorrebbero accostarsi a Gesù, ma non osano.
7La Luce aumenta ancora per due fiamme che scendono dal cielo e si collocano ai lati di Gesù. Quando sono stabilite sul pianoro, il loro velo si apre e ne appaiono due maestosi e lumi­nosi personaggi. L’uno più anziano, dallo sguardo acuto e seve­ro e da una lunga barba bipartita. Dalla sua fronte partono cor­ni di luce che me lo indicano per Mosè. L’altro è più giovane, scarno, barbuto e peloso, su per giù come il Battista, al quale direi assomiglia per statura, magrezza, conformazione e seve­rità. Mentre la luce di Mosè è candida come è quella di Gesù, specie nei raggi della fronte, quella che emana Elia è solare, di fiamma viva.
I due Profeti prendono una posa di riverenza davanti al loro Dio Incarnato e, sebbene Questi parli loro con famigliarità, essi non abbandonano la loro posa riverente. Non comprendo nep­pure una delle parole dette.
I tre apostoli cadono a ginocchio tremanti, col volto fra le mani. Vorrebbero vedere, ma hanno paura.
Finalmente Pietro parla: «Maestro, Maestro. Odimi». Gesù gira lo sguardo con un sorriso verso il suo Pietro, che si rinfran­ca e dice: «È bello lo stare qui con Te, Mosè e Elia. Se vuoi fac­ciamo tre tende per Te, per Mosè e per Elia, e noi stiamo qui a servirvi...».
Gesù lo guarda ancora e sorride più vivamente. Guarda an­che Giovanni e Giacomo. Uno sguardo che li abbraccia con amore. Anche Mosè e Elia guardano i tre fissamente. I loro oc­chi balenano. Devono essere come raggi che penetrano i cuori.
Gli apostoli non osano dire altro. Intimoriti, tacciono. Sem­brano un poco ebbri come chi è sbalordito. Ma quando un velo che non è nebbia, che non è nuvola, che non è raggio, avvolge e separa i Tre gloriosi dietro uno schermo ancor più lucido di quello che già li circondava e li nasconde alla vista dei tre, e una Voce potente e armonica vibra ed empie di sé lo spazio, i tre cadono col volto contro l’erba.
«Questo è il mio Figliuolo diletto, nel quale mi sono compia­ciuto. Ascoltatelo».
Pietro nel gettarsi bocconi esclama: «Misericordia di me, peccatore! È la Gloria di Dio che scende!». Giacomo non fiata. Giovanni mormora con un sospiro, come fosse prossimo a sve­nire: «Il Signore parla!».
8Nessuno osa alzare la testa anche quando il silenzio si è rifatto assoluto. Non vedono perciò neppure il tornare della luce alla sua naturalezza di luce solare e mostrare Gesù rimasto so­lo e tornato il Gesù solito nella sua veste rossa.
Egli cammina verso loro sorridendo e li scuote e tocca e chiama per nome.
«Alzatevi. Sono Io. Non temete» dice, perché i tre non osano alzare il volto e invocano misericordia sui loro peccati, temendo che sia l’Angelo di Dio che vuol mostrarli all’Altissimo.
«Levatevi, dunque. Ve lo comando» ripete Gesù con imperio. Essi alzano il volto e vedono Gesù che sorride.
«Oh! Maestro, Dio mio!» esclama Pietro. «Come faremo a viverti accanto ora che abbiamo visto la tua gloria? Come fare­mo a vivere fra gli uomini, e noi, uomini peccatori, ora che ab­biamo udito la voce di Dio?».
«Dovrete vivermi accanto e vedere la mia gloria sino alla fi­ne. Siatene degni perché il tempo è vicino. Ubbidite al Padre mio e vostro. Torniamo ora fra gli uomini, perché sono venuto per stare fra essi e per portare essi a Dio. Andiamo. Siate santi per ricordo di quest’ora, forti, fedeli. Avrete parte alla mia più completa gloria. Ma non parlate ora di questo che avete visto ad alcuno. Neppure ai compagni. Quando il Figlio dell’uomo sarà risuscitato dai morti e tornato nella gloria del Padre, allo­ra parlerete. Perché allora occorrerà credere per aver parte nel mio Regno».
«Ma non deve venire Elia per preparare al tuo Regno? I rabbi dicono così».
«Elia è già venuto ed ha preparato le vie al Signore. Tutto avviene come è stato rivelato. Ma coloro che insegnano la Rive­lazione non la conoscono e non la comprendono, e non vedono e riconoscono i segni dei tempi e i messi di Dio. Elia è tornato una volta. La seconda verrà quando il tempo ultimo sarà vicino per preparare gli ultimi a Dio. Ma ora è venuto per preparare i primi al Cristo, e gli uomini non lo hanno voluto riconoscere e lo hanno tormentato e messo a morte. Lo stesso faranno col Fi­glio dell’uomo, perché gli uomini non vogliono riconoscere ciò che è loro bene».
I tre chinano la testa pensosi e tristi, e scendono per la via dalla quale sono saliti insieme a Gesù.
[3 dicembre 1945].
9...Ed è ancora Pietro che dice, in una sosta a mezza via: «Ah! Signore! Dico anche io come tua Madre ieri: “Perché ci hai fatto questo?”; e anche dico: “Perché ci hai detto questo?”. Le tue ultime parole hanno cancellato la gioia della gloriosa vista dai nostri cuori! Gran giorno di paure questo! Prima ci ha fatto paura la grande luce che ci ha destati, più forte che se il monte ardesse o che se la luna fosse scesa a raggiare sul ripiano, sotto i nostri occhi; poi il tuo aspetto e il tuo staccarti dal suolo come fossi per volare via. Ho avuto paura che Tu, disgustato dalle nequizie di Israele, te ne tornassi ai Cieli, magari per ordine dell’Altissimo. Poi ho avuto paura di vedere apparire Mosè, che i suoi del suo tempo non potevano più vedere senza velo tanto splendeva sul suo volto il riflesso di Dio, e ancora era uomo, mentre ora è spirito beato e acceso di Dio, e Elia... Misericordia divina! Ho creduto essere giunto al mio ultimo momento, e tut­ti i peccati della mia vita, da quando rubavo le frutta nella di­spensa da piccino, all’ultimo di averti mal consigliato giorni so­no, mi sono venuti alla mente. Con che tremore me ne sono pentito! Poi mi parve che mi amassero quei due giusti... e ho osato parlare. Ma anche il loro amore mi faceva paura, perché io non merito l’amore di simili spiriti. E dopo... e dopo!... La paura delle paure! La voce di Dio!... Geové che ha parlato! A noi! Ci ha detto: “Ascoltatelo!». Tu. E ti ha proclamato “suo Fi­glio diletto nel quale Egli si compiace”. Che paura! Geové!... a noi!... Certo solo la tua forza ci ha tenuti in vita!... Quando Tu ci hai toccato, e le tue dita ardevano come punte di fuoco, io ho avuto l’ultimo spavento. Ho creduto che fosse l’ora di essere giudicato e che l’Angelo mi toccasse per prendermi l’anima e portarla all’Altissimo... Ma come ha fatto tua Madre a vedere... a sentire... a vivere, insomma, quell’ora che Tu hai detto ieri, senza morire, Lei che era sola, giovanetta, senza di Te?».
«Maria, la Senza Macchia, non poteva avere paura di Dio. Eva non ne aveva paura finché fu innocente. Ed Io c’ero. Io, il Padre e lo Spirito, Noi, che siamo in Cielo e in Terra e in ogni luogo, e che avevamo il nostro Tabernacolo nel cuore di Maria» dice dolcemente Gesù.
«Che cosa! Che cosa!... Ma dopo Tu hai parlato di morte... E ogni gioia è finita... Ma perché proprio a noi tre tutto questo? Non era bene darla a tutti questa visione della tua gloria?».
«Appunto perché tramortite udendo parlare di morte, e morte per supplizio, del Figlio dell’uomo, l’Uomo-Dio vi ha vo­luto fortificare per quell’ora e per sempre con la precognizione di ciò che Io sarò dopo la Morte. Ricordatevi tutto questo, per dirlo a suo tempo... Avete capito?».
«Oh! sì, Signore. Non è possibile dimenticare. E sarebbe inutile raccontare. Ci direbbero “ebbri”».
10Tornano ad andare verso la valle. Ma, giunti ad un punto, Gesù piega per un viottolo ripido in direzione di Endor, ossia dal lato opposto di quello nel quale ha lasciato i discepoli.
«Non li troveremo» dice Giacomo. «Il sole inizia la discesa. Si staranno radunando in tua attesa nel luogo dove li lasciasti».
«Vieni e non crearti stolti pensieri».
Infatti, come la boscaglia si apre in una prateria che scende mollemente a toccare la via maestra, vedono tutta la massa dei discepoli, accresciuta da viandanti curiosi, da scribi venuti da non so dove, agitarsi alla base del monte.
«Ohimè! Scribi!... E disputano già!» dice Pietro accennando­li. E scende gli ultimi metri a malincuore.
Ma anche quelli giù in basso li hanno visti e se li accennano e poi si danno a correre verso Gesù, gridando: «Come mai, Maestro, da questa parte? Stavamo per venire al posto detto. Ma ci hanno trattenuti in dispute gli scribi e in suppliche un padre affannato».
«Di che disputavate fra voi?».
«Per un indemoniato. Gli scribi ci hanno scherniti perché non abbiamo potuto liberarlo. Ci si è messo Giuda di Keriot da capo, di puntiglio. Ma fu inutile. Allora abbiamo detto: “Mettetevici voi”. Hanno risposto: “Non siamo esorcisti”. Per caso sono passati alcuni venienti da Caslot-Tabor, fra i quali erano due esorcisti. Ma anche loro niente. Ecco il padre che viene a pre­garti. Ascoltalo».
11Un uomo, infatti, viene avanti supplichevole e si inginocchia davanti a Gesù rimasto sul prato in pendenza, di modo che è più alto della via di almeno tre metri e ben visibile a tutti, perciò.
«Maestro» gli dice l’uomo, «io venivo a Cafarnao con il figlio mio per cercare Te. Te lo portavo, l’infelice figlio mio, perché Tu lo liberassi, Tu che cacci i demoni e guarisci ogni malattia. Egli è preso spesso da uno spirito muto. Quando lo prende, egli non può più che fare gridi rochi, come una bestia che si strozza. Lo spirito lo butta a terra ed egli là si rotola digrignando i denti, spumando come un cavallo che morda il morso, e si ferisce o ri­schia di morire affogato o bruciato, oppure sfracellato, perché lo spirito più di una volta lo ha buttato nell’acqua, nel fuoco, o giù dalle scale. I tuoi discepoli ci si sono provati, ma non hanno potuto. Oh! Signore buono! Pietà di me e del mio fanciullo!».
Gesù fiammeggia di potenza mentre grida: «O generazione perversa, o turba satanica, legione ribelle, popolo dell’inferno incredulo e crudele, fino a quando dovrò stare a contatto con te? Fino a quando ti dovrò sopportare?». È imponente, tanto che si fa un silenzio assoluto e cessano i sogghigni degli scribi.
12Gesù dice al padre: «Alzati e portami qui tuo figlio».
L’uomo va e torna con altri uomini, al centro dei quali è un ragazzo sui dodici-quattordici anni. Un bel fanciullo, ma dallo sguardo un poco ebete, come fosse sbalordito. Sulla fronte ros­seggia una lunga ferita e più sotto biancheggia una cicatrice antica. Non appena vede Gesù che lo fissa coi suoi occhi ma­gnetici, ha un grido roco e un contorcimento convulsivo di tutto il corpo, mentre cade a terra spumando e rotando gli occhi, di modo che appare solo il bulbo bianco, mentre si rotola per terra nella caratteristica convulsione epilettica.
Gesù viene avanti qualche passo per giungergli vicino e di­ce: «Da quando gli avviene ciò? Parla forte, che tutti sentano».
E l’uomo, urlando, mentre il cerchio della folla si stringe e gli scribi si mettono più in alto di Gesù per dominare la scena, dice: «Fin da bambino. Te l’ho detto: spesso cade nel fuoco, nell’acqua o giù dalle scale e dagli alberi, perché lo spirito lo as­sale all’improvviso e lo scaraventa così per finirlo. È tutto pieno di cicatrici e di bruciature. Molto è se non è rimasto acciecato dalle fiamme del focolare. Nessun medico, nessun esorcista, neppure i tuoi discepoli lo hanno potuto guarire. Ma Tu, se, co­me credo fermamente, puoi qualche cosa, abbi pietà di noi e soccorrici».
«Se puoi credere così, tutto mi è possibile, perché tutto è concesso a chi crede».
«Oh! Signore, se io credo! Ma se ancora non credo a suffi­cienza, aumenta Tu la mia fede, perché sia completa e ottenga il miracolo» dice l’uomo piangendo, inginocchiato presso il fi­glio più che mai in convulsione.
13Gesù si raddrizza, si tira indietro due passi e, mentre la folla più che mai stringe il suo cerchio, grida forte: «Spirito ma­ledetto, che fai sordo e muto il fanciullo e lo tormenti, Io te lo comando: esci da lui e non rientrarvi mai più!».
Il fanciullo, pur stando coricato al suolo, fa dei balzi paurosi, puntando testa e piedi ad arco, e ha gridi disumani; poi, dopo un ultimo balzo, nel quale si rivolta bocconi battendo la fronte e la bocca su un masso emergente dall’erba, che si fa rossa di sangue, resta immoto.
«È morto!» gridano in molti. «Povero fanciullo!», «Povero padre!» compiangono i migliori. E gli scribi, ghignando: «Ti ha servito bene il Nazareno!», oppure: «Maestro, come è? Questa volta Belzebù ti ha fatto fare brutta figura...», e ridono veleno­samente.
Gesù non risponde a nessuno. Neppure al padre, che ha ri­voltato il figlio e gli asciuga il sangue della fronte e delle labbra ferite, gemendo, invocando Gesù. Ma si china, il Maestro, e prende per mano il fanciullo. E questo apre gli occhi con un sospirone, come si destasse da un sonno, si siede e sorride. Gesù lo attira a Sé, lo fa alzare in piedi e lo consegna al padre, men­tre la folla grida di entusiasmo e gli scribi fuggono, inseguiti dalle beffe della folla...
«E ora andiamo» dice Gesù ai suoi discepoli. E, congedata la folla, gira il fianco del monte portandosi sulla via già fatta al mattino.

14Dice Gesù:
«E ora qui P. M. può mettere il commento alla visione del 5 agosto 1944 (quaderno A 930) cominciando dalle parole: “Non ti eleggo soltanto a conoscere le tristezze del tuo Maestro e i suoi dolori. Chi sa stare meco nel dolore deve avere parte meco nel­la gloria”. E tu riposa, fedele, piccolo Giovanni, ché il tuo riposo è ben meritato. La mia pace sia gioia in te».
[5 agosto 1944].
15Dice Gesù:
«Ti ho preparata a meditare la mia Gloria. Domani la Chiesa la celebra. Ma Io voglio che il mio piccolo Giovanni la veda nella sua verità per comprenderla meglio. Non ti eleggo soltan­to a conoscere le tristezze del tuo Maestro e i suoi dolori. Chi sa stare meco nel dolore deve aver parte meco nella gioia.
Voglio che tu, davanti al tuo Gesù che ti si mostra, abbia gli stessi sentimenti di umiltà e pentimento dei miei apostoli.
Mai superbia. Saresti punita perdendomi.
Continuo ricordo di Chi sono Io e di chi sei tu.
Continuo pensiero alle tue manchevolezze e alla mia perfe­zione per avere un cuore lavato dalla contrizione. Ma insieme anche tanta fiducia in Me.
Io ho detto: “Non temete. Alzatevi. Andiamo. Andiamo fra gli uomini perché sono venuto per stare con essi. Siate santi, forti e fedeli per ricordo di quest’ora”. Lo dico anche a te e a tutti i miei prediletti fra gli uomini, a quelli che mi hanno in maniera speciale.
Non temete di Me. Mi mostro per elevarvi, non per incene­rirvi.
Alzatevi: la gioia del dono vi dia vigoria e non vi ottunda nel sopore del quietismo, credendovi già salvi perché vi ho mostra­to il Cielo.
Andiamo insieme fra gli uomini. Vi ho invitati a sovrumane opere con sovrumane visioni e lezioni perché possiate essermi di maggiore aiuto. Vi associo alla mia opera. Ma Io non ho cono­sciuto e non conosco riposo. Perché il Male non riposa mai e il Bene deve essere sempre attivo per annullare il più che si può l’opera del Nemico. Riposeremo quando il Tempo sarà compiu­to. Ora occorre andare instancabilmente, operare continuamen­te, consumarsi indefessamente per la messe di Dio. Il mio con­tatto continuo vi santifichi, la mia lezione continua vi fortifichi, il mio amore di predilezione vi faccia fedeli contro ogni insidia.
Non siate come gli antichi rabbini che insegnavano la Rive­lazione e poi non le credevano al punto da non riconoscere i se­gni dei tempi e i messi di Dio. Riconoscete i precursori del Cri­sto nel suo secondo avvento, poiché le forze dell’Anticristo sono in marcia e, facendo eccezione alla misura che mi sono imposta, perché conosco che bevete a certe verità non per spirito sopran­naturale ma per sete di curiosità umana, vi dico in verità che quello che molti crederanno vittoria sull’Anticristo, la pace or­mai prossima, non sarà che sosta per dare tempo al Nemico del Cristo di ritemprarsi, medicarsi delle ferite, riunire il suo esercito per una più crudele lotta.
Riconoscete, voi che siete le “voci” di questo vostro Gesù, del Re dei re, del Fedele e Verace che giudica e combatte con giusti­zia e sarà il Vincitore della Bestia e dei suoi servi e profeti, ri­conoscete il vostro Bene e seguitelo sempre. Nessun bugiardo aspetto vi seduca e nessuna persecuzione vi atterri. La vostra “voce” dica le mie parole. La vostra vita sia per quest’opera. E se avrete sorte, sulla terra, comune al Cristo, al suo Precursore e ad Elia, sorte cruenta o sorte tormentata da sevizie morali, sorridete alla vostra sorte futura e sicura che avrete comune con Cristo, con il suo Precursore, col suo Profeta.
Pari nel lavoro, nel dolore e nella gloria. Qui Io Maestro ed Esempio. Là Io Premio e Re. Avermi sarà la vostra beatitudine. Sarà dimenticare il dolore. Sarà quanto ogni rivelazione è an­cora insufficiente a farvi capire, perché troppo superiore è la gioia della vita futura alla possibilità di immaginare della crea­tura ancora unita alla carne».


Lezione ai discepoli sul potere di vincere i demoni.
1Sono ora nella casa di Nazaret, nuovamente. Anzi, per essere più precisi, sono sparsi sul balzo degli ulivi in attesa di se­pararsi per il riposo. E hanno acceso un piccolo falò per rischia­rare la notte, perché è già sera e la luna si alza tardi. Ma la se­ra è tiepida «fin troppo», sentenziano i pescatori prevedendo prossime piogge, ed è bello stare lì, tutti uniti, le donne nell’or­to fiorito intorno a Maria, gli uomini quassù; e sullo scrimolo del balzo, di modo da essere ugualmente di questi e di quelle, Gesù, che risponde a questo o a quello, mentre le discepole ascoltano attente. Deve essere stato raccontato del lunatico guarito ai piedi del monte e ancora ne durano i commenti.
«Ci sei voluto proprio Tu!» esclama il cugino Simone.
«Oh! ma neppure vedendo che anche i loro esorcisti non po­tevano nulla, pure confessando di avere usato le formule più forti, li ha persuasi quei gheppi!» dice crollando il capo il tra­ghettatore Salomon.
«E neppure dicendo agli scribi le loro conclusioni, li persua­deranno».
«Già! Mi pareva che parlassero bene, non è vero?» domanda uno che non conosco.
«Molto bene. Hanno escluso ogni sortilegio demoniaco nel potere di Gesù, dicendo che essi si sono sentiti invasi da pace profonda quando il Maestro fece il miracolo, mentre, dicevano, quando esce, da uno, potere malvagio essi lo sentono come un a sofferenza» risponde Erma.
2«Però, eh? che spirito forte! Non se ne voleva andare! Ma come mai, poi, non lo teneva sempre? Era uno spirito scacciato, sperduto, oppure è tanto santo il fanciullo che di suo lo caccia­va?» chiede un altro discepolo del quale non so il nome.
Gesù risponde di spontanea volontà: «Ho più volte spiegato che ogni malattia, essendo un tormento e un disordine, può ce­lare Satana, e Satana può celarsi in una malattia, usarla, crearla per tormentare e fare bestemmiare Dio. Il fanciullo era un malato, non un posseduto. Un’anima pura. Per questo tanto con gioia l’ho liberata dall’astutissimo demonio che voleva do­minarla tanto da renderla impura».
3E perché, allora, se era una semplice malattia, noi non ci siamo riusciti?» chiede Giuda di Keriot.
«Già! Gli esorcisti si capisce che non potessero nulla se non era un indemoniato! Ma noi...» osserva Tommaso.
E Giuda di Keriot, al quale non va giù lo scacco di aver pro­vato molte volte sul fanciullo, ottenendo soltanto di farlo cade­re in smanie se non in convulsioni, dice: «Ma noi, anzi, sembra­va gli si facesse peggio. Ti ricordi, Filippo? Tu che mi aiutavi hai sentito e visto i lazzi che egli mi faceva. Mi ha persino det­to: “Va’ via! Fra me e te il più demonio sei tu”. Il che ha fatto ri­dere alle mie spalle gli scribi».
«E te ne sei dispiaciuto?» chiede Gesù come con noncuranza.
«Certo! Non è bello essere beffati. E non è utile quando si è tuoi apostoli. Ci si perde di autorità».
«Quando si ha Dio con sé, si è autorevoli anche se tutto il mondo beffa, Giuda di Simone».
«Va bene. Ma però Tu aumenta, almeno in noi apostoli, il potere. Perché certe disfatte non ci succedano più».
«Che Io aumenti il potere non è giusto e non servirebbe. Voi lo dovete fare di vostro, per riuscire. È per vostra insufficienza che non siete riusciti, e anche per avere sminuito quanto vi avevo dato con elementi non santi, che avete voluto aggiungere sperando maggiori trionfi».
«Lo dici per me, Signore?» chiede l’Iscariota.
«Tu saprai se lo meriti. Io parlo a tutti».
Bartolomeo chiede: «Ma allora cosa è necessario avere per vincere questi demoni?».
«La preghiera e il digiuno. Non necessita altra cosa. Orate e digiunate. E non solo nella carne. Perciò bene è che il vostro or­goglio sia rimasto digiuno di soddisfazione. L’orgoglio sazio rende apatica la mente e l’anima, e diviene tiepida, inerte l’ora­zione, così come il corpo troppo sazio è sonnolento e pesante. 4E ora andiamo pure noi al giusto riposo. Domani all’alba tutti, meno Mannaen e i discepoli pastori, siano sulla via di Cana. Andate. La pace sia con voi».
Ma poi trattiene Isacco e Mannaen e da particolari istruzio­ni per il domani, giorno di partenza per le discepole e Maria, che insieme a Simone d’Alfeo e Alfeo di Sara iniziano il pelle­grinaggio pasquale.
«Passerete da Esdrelon perché Marziam veda il vecchio. Da­rete ai contadini la borsa che vi ho fatto dare da Giuda di Keriot. E per il viaggio soccorrerete con l’altra, che Io vi ho dato poco fa, quanti poveri incontrate. Giunti a Gerusalemme, anda­te a Betania e dite di attendermi per la neomenia di nisam. Po­trò tardare ben poco da quel giorno. Vi affido la persona a Me più cara e le discepole. Ma sto tranquillo che esse saranno sicu­re. Andate. Ci rivedremo a Betania e staremo a lungo insieme».
Li benedice e, mentre essi si allontanano nella notte, Egli balza giù, nell’orto, ed entra in casa dove già sono le discepole e la Madre, che con Marziam stanno stringendo i cordoni delle sacche da viaggio e disponendo ogni cosa per l’assenza la cui durata non è nota.
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Domenica 10 marzo 2019, I Domenica di Quaresima

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 4,1-13.
Gesù, pieno di Spirito Santo, si allontanò dal Giordano e fu condotto dallo Spirito nel deserto
dove, per quaranta giorni, fu tentato dal diavolo. Non mangiò nulla in quei giorni; ma quando furono terminati ebbe fame.
Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, dì a questa pietra che diventi pane».
Gesù gli rispose: «Sta scritto: Non di solo pane vivrà l'uomo».
Il diavolo lo condusse in alto e, mostrandogli in un istante tutti i regni della terra, gli disse:
«Ti darò tutta questa potenza e la gloria di questi regni, perché è stata messa nelle mie mani e io la do a chi voglio.
Se ti prostri dinanzi a me tutto sarà tuo».
Gesù gli rispose: «Sta scritto: Solo al Signore Dio tuo ti prostrerai, lui solo adorerai».
Lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul pinnacolo del tempio e gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, buttati giù;
sta scritto infatti: Ai suoi angeli darà ordine per te, perché essi ti custodiscano;
e anche: essi ti sosterranno con le mani, perché il tuo piede non inciampi in una pietra».
Gesù gli rispose: «E' stato detto: Non tenterai il Signore Dio tuo».
Dopo aver esaurito ogni specie di tentazione, il diavolo si allontanò da lui per ritornare al tempo fissato.
Traduzione liturgica della Bibbia
Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 1 Capitolo 46 pagina 287 - CD 1, traccia 46
Vedo la solitudine petrosa già vista alla mia sinistra nella visione del battesimo di Gesù al Giorda­no. Però devo essere molto addentrata in essa, perché non vedo affatto il bel fiume lento e azzurro, né la vena di verde che lo costeggia alle sue due rive, come alimentata da quell’arteria d’acqua. Qui solo solitudine, pietroni, terra talmente arsa da esser ridotta a polvere giallastra, che ogni tan­to il vento solleva con piccoli vortici, che paion fiato di bocca febbrile tanto sono asciutti e caldi. E tormentosi per la polvere che penetra con essi nelle narici e nelle fauci. Molto rari, qualche piccolo cespuglio spinoso, non si sa come resistente in quella desolazione. Sembrano ciuffetti di superstiti capelli sulla testa di un calvo. Sopra, un cielo spietatamente azzurro; sotto, il suolo arido; intorno, massi e silenzio. Ecco quanto vedo come natura.
Addossato ad un enorme pietrone, che per la sua forma, fatta su per giù così come mi sforzo a di­segnarla, fa un embrione di grotta, e seduto su un sasso trascinato nell’incavo, al punto +, sta Gesù. Si ripara così dal sole cocente. E l’interno ammonitore mi avverte che quel sasso, su cui ora siede, è anche il suo inginocchiatoio e il suo guanciale quando prende le brevi ore di riposo avvolto nel suo mantello, al lume delle stelle e all’aria fredda della notte. Infatti là presso è la sacca che gli ho visto prendere prima di partire da Nazareth. Tutto il suo avere. E, dal come si piega floscia, comprendo che è vuota del poco cibo che vi aveva messo Maria.
Gesù è molto magro e pallido. Sta seduto con i gomiti appoggiati ai ginocchi e gli avambracci sporti in avanti, con le mani unite ed intrecciate nelle dita. Medita. Ogni tanto solleva lo sguardo e lo gira attorno e guarda il sole alto, quasi a perpendicolo, nel cielo azzurro. Ogni tanto, e specie dopo aver girato lo sguardo attorno e averlo alzato verso la luce solare, chiude gli occhi e si appoggia al masso, che gli fa da riparo, come preso da vertigine.
Vedo apparire il brutto ceffo di Satana. Non che si presenti nella forma che noi ce lo raffiguriamo, con corna, coda, ecc. ecc. Pare un beduino avvolto nel suo vestito e nel suo mantellone, che pare un domino da maschera. Sul capo il turbante, le cui falde bianche scendono a far riparo sulle spalle e lungo i lati del viso. Di modo che di questo appare un breve triangolo molto bruno, dalle labbra sot­tili e sinuose, dagli occhi nerissimi e incavati, pieni di bagliori magnetici. Due pupille che ti leggono in fondo al cuore, ma nelle quali non leggi nulla, o una sola parola: mistero. L’opposto dell’occhio di Gesù, tanto magnetico e fascinatore anche esso, che ti legge in cuore, ma nel quale leggi anche che nel suo cuore è amore e bontà per te. L’occhio di Gesù è una carezza sull’anima. Questo è come un doppio pugnale che ti perfora e brucia.
Si avvicina a Gesù: «Sei solo?».
Gesù lo guarda e non risponde.
«Come sei capitato qui? Ti sei sperduto?».
Gesù lo guarda da capo e tace.
«Se avessi dell’acqua nella borraccia, te la darei. Ma ne sono senza anche io. M’è morto il cavallo e mi dirigo a piedi al guado. Là berrò e troverò chi mi dà un pane. So la via. Vieni con me. Ti guide­rò».
Gesù non alza più neppure gli occhi.
«Non rispondi? Sai che, se resti qui, muori? Già si leva il vento. Sarà bufera. Vieni».
Gesù stringe le mani in muta preghiera.
«Ah! sei proprio Tu, dunque? È tanto che ti cerco! Ed ora è tanto che ti osservo. Dal momento che sei stato battezzato. Chiami l’Eterno? È lontano. Ora sei sulla Terra ed in mezzo agli uomini. E negli uomini regno io. Pure mi fai pietà e ti voglio soccorrere, perché sei buono e sei venuto a sacrificarti per nulla. Gli uomini ti odieranno per la tua bontà. Non capiscono che oro e cibo e senso. Sacrificio, dolore, ubbidienza, sono parole morte per loro più di questa terra che ci è d’intorno. Essi sono aridi più ancora di questa polvere. Solo il serpe può nascondersi qui, attendendo di mordere, e lo sciacallo di sbranare. Vieni via. Non merita soffrire per loro. Li conosco più di Te».
Satana si è seduto di fronte a Gesù e lo fruga col suo sguardo tremendo e sorride con la sua boc­ca di serpe. Gesù tace sempre e prega mentalmente.
«Tu diffidi di me. Fai male. Io sono la sapienza della Terra. Ti posso esser maestro per insegnarti a trionfare. Vedi: l’importante è trionfare. Poi, quando ci si è imposti e si è affascinato il mondo, al­lora lo si conduce anche dove si vuole noi. Ma prima bisogna essere come piace a loro. Come loro. Sedurli facendo loro credere che li ammiriamo e li seguiamo nel loro pensiero.
Sei giovane e bello. Comincia dalla donna. È sempre da essa che si deve incominciare. Io ho sba­gliato inducendo la donna alla disubbidienza. Dovevo consigliarla per altro modo. Ne avrei fatto uno strumento migliore e avrei vinto Dio. Ho avuto fretta. Ma Tu! Io t’insegno, perché c’è stato un giorno che ho guardato a Te con giubilo angelico, e un resto di quell’amore è rimasto, ma Tu ascoltami ed usa della mia esperienza. Fàtti una compagna. Dove non riuscirai Tu, essa riuscirà. Sei il nuovo Ada­mo: devi avere la tua Eva.
E poi, come puoi comprendere e guarire le malattie del senso se non sai che cosa sono? Non sai che è lì il nocciolo da cui nasce la pianta della cupidità e della prepotenza? Perché l’uomo vuo­le regnare? Perché vuole essere ricco, potente? Per possedere la donna. Questa è come l’allodola. Ha bisogno del luccichio per essere attirata. L’oro e la potenza sono le due facce dello specchio che attirano le donne e le cause del male nel mondo. Guarda: dietro a mille delitti dai volti diversi ce ne sono novecento almeno che hanno radice nella fame del possesso della donna o nella volontà di una donna, arsa da un desiderio che l’uomo non soddisfa ancora o non soddisfa più. Vai dalla donna se vuoi sapere cosa è la vita. E solo dopo saprai curare e guarire i morbi della umanità.
È bella, sai, la donna! Non c’è nulla di più bello nel mondo. L’uomo ha il pensiero e la forza. Ma la donna! Il suo pensiero è un profumo, il suo contatto è carezza di fiori, la sua grazia è come vino che scende, la sua debolezza è come matassa di seta o ricciolo di bambino nelle mani dell’uomo, la sua carezza è forza che si rovescia sulla nostra e la accende. Si annulla il dolore, la fatica, il cruccio quando si posa presso una donna, ed essa è fra le nostre braccia come un fascio di fiori.
Ma che stolto che sono! Tu hai fame e ti parlo della donna. La tua vigoria è esausta. Per questo, questa fragranza della terra, questo fiore del creato, questo frutto che dà e suscita amore, ti pare senza valore. Ma guarda queste pietre. Come sono tonde e levigate, dorate sotto al sole che scende. Non sembrano pani? Tu, Figlio di Dio, non hai che dire: “Voglio”, perché esse divengano pane fra­grante come quello che ora le massaie levano dal forno per la cena dei loro familiari. E queste acacie così aride, se Tu vuoi, non possono empirsi di dolci pomi, di datteri di miele? Satollati, o Figlio di Dio! Tu sei il Padrone della Terra. Essa si inchina per mettere ai tuoi piedi se stessa e sfamare la tua fa­me.
Lo vedi che impallidisci e vacilli solo a sentir nominare il pane? Povero Gesù! Sei tanto debole da non potere più neppure comandare al miracolo? Vuoi che lo faccia io per Te? Non ti sono a pari. Ma qualcosa posso. Starò privo per un anno della mia forza, la radunerò tutta, ma ti voglio servire, per­ché Tu sei buono ed io sempre mi ricordo che sei il mio Dio, anche se ora ho demeritato di chiamarti tale. Aiutami con la tua preghiera perché io possa…».
«Taci. “Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che viene da Dio”».
Il demonio ha un sussulto di rabbia. Digrigna i denti e stringe i pugni. Ma si contiene e volge il di­grigno in sorriso.
«Comprendo. Tu sei sopra le necessità della Terra e hai ri­brezzo a servirti di me. L’ho meritato. Ma vieni, allora, e vedi cosa è nella Casa di Dio. Vedi come anche i sacerdoti non ricusano di venire a transazioni fra lo spirito e la carne. Perché infine sono uo­mini e non angeli. Compi un miracolo spirituale. Io ti porto sul pinnacolo del Tempio e Tu trasfigurati in bellezza lassù, e poi chiama le coorti di angeli e di’ che facciano delle loro ali intrecciate pedana al tuo piede e ti calino così nel cortile principale. Che ti vedano e si ricordino che Dio è. Ogni tanto è ne­cessario manifestarsi, perché l’uomo ha una memoria tanto labile, specie in ciò che è spirituale. Sai come gli angeli saranno beati di far riparo al tuo piede e scala a Te che scendi!».
«“Non tentare il Signore Iddio tuo”, è detto».
«Comprendi che anche la tua apparizione non muterebbe le cose, e il Tempio continuerebbe ad esser mercato e corruzione. La tua divina sapienza lo sa che i cuori dei ministri del Tempio sono un nido di vipere, che si sbranano e sbranano pur di predominare. Non sono domati che dalla potenza umana.
E allora, vieni. Adorami. Io ti darò la Terra. Alessandro, Ciro, Cesare, tutti i più grandi dominatori passati o viventi saranno simili a capi di meschine carovane rispetto a Te, che avrai tutti i regni della Terra sotto il tuo scettro. E, coi regni, tutte le ricchezze, tutte le bellezze della Terra, e donne, e cavalli, e armati e templi. Potrai alzare dovunque il tuo Segno, quando sarai Re dei re e Signore del mondo. Allora sarai ubbidito e venerato dal popolo e dal sacerdozio. Tutte le caste ti onoreranno e ti serviran­no, perché sarai il Potente, l’Unico, il Signore.
Adorami un attimo solo! Levami questa sete che ho d’esser adorato! È quella che mi ha perduto. Ma è rimasta in me e mi brucia. Le vampe dell’inferno sono fresca aria del mattino rispetto a questo ardore che mi brucia l’interno. È il mio inferno, questa sete. Un attimo, un attimo solo, o Cristo, Tu che sei buono! Un attimo di gioia all’eterno Tormentato! Fàmmi sentire cosa voglia dire essere dio e mi avrai devoto, ubbidiente come servo per tutta la vita, per tutte le tue imprese. Un attimo! Un solo attimo, e non ti tormenterò più!».
E Satana si butta in ginocchio, supplicando.
Gesù si è alzato, invece. Divenuto più magro in questi giorni di digiuno, sembra ancora più alto. Il suo volto è terribile di severità e potenza. I suoi occhi sono due zaffiri che bruciano. La sua voce è un tuono, che si ripercuote contro l’incavo del masso e si sparge sulla sassaia e la piana desolata, quando dice: «Va’ via, Satana. È scritto: “Adorerai il Signore Iddio tuo e servirai Lui solo”!».
Satana, con un urlo di strazio dannato e di odio indescrivibile, scatta in piedi, tremendo a vedersi nella sua furente, fumante persona. E poi scompare con un nuovo urlo di maledizione.
Gesù si siede stanco, appoggiando indietro il capo contro il masso. Pare esausto. Suda. Ma esseri angelici vengono ad alitare con le loro ali nell’afa dello speco, purificandola e rinfrescandola. Gesù apre gli occhi e sorride. Io non lo vedo mangiare. Direi che Egli si nutre dell’aroma del Paradiso e ne esce rinvigorito.
Il sole scompare a ponente. Egli prende la vuota bisaccia e, accompagnato dagli angeli, che fanno una mite luce sospesi sul suo capo mentre la notte cala rapidissima, si avvia verso est, meglio verso nord-est. Ha ripreso la sua espressione abituale, il passo sicuro. Solo resta, a ricordo del lungo di­giuno, un aspetto più ascetico nel volto magro e pallido e negli occhi, rapiti in una gioia non di que­sta Terra.

Dice Gesù:
«Ieri eri senza la tua forza, che è la mia volontà, ed eri perciò un essere semivivo. Ho fatto ri­posare le tue membra e ti ho fatto fare l’unico digiuno che ti pesi: quello della mia parola. Povera Maria! Hai fatto il mercoledì delle Ceneri. In tutto sentivi il sapor della cenere, poiché eri senza il tuo Maestro. Non mi facevo sentire. Ma c’ero.
Questa mattina, poiché l’ansia è reciproca, ti ho mormorato nel tuo dormiveglia: “Agnus Dei qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem”, e te l’ho fatto ripetere molte volte, e tante te le ho ripetu­te. Hai creduto che parlassi su questo. No. Prima c’era il punto che ti ho mostrato e che ti commen­terò. Poi questa sera ti illustrerò quest’altro.
Satana, lo hai visto, si presenta sempre con veste benevola. Con aspetto comune. Se le anime sono attente, e soprattutto in spirituali contatti con Dio, avvertono quell’avviso che le rende guardin­ghe e pronte a combattere le insidie demoniache. Ma se le anime sono disattente al divino, separate da una carnalità che soverchia e assorda, non aiutate dalla preghiera che congiunge a Dio e riversa la sua forza come da un canale nel cuore dell’uomo, allora difficilmente esse si avvedono del tranello nascosto sotto l’apparenza innocua e vi cadono. Liberarsene è, poi, molto difficile.
Le due vie più comuni prese da Satana per giungere alle anime sono il senso e la gola. Comincia sempre dalla materia. Smantellata e asservita questa, dà l’attacco alla parte superiore. Prima il mo­rale: il pensiero con le sue superbie e cupidigie; poi lo spirito, levandogli non solo l’amore — quello non esiste già più quando l’uomo ha sostituito l’amore divino con altri amori umani — ma anche il timore di Dio. È allora che l’uomo si abbandona in anima e corpo a Satana, pur di arrivare a godere ciò che vuole, godere sempre più.
Come Io mi sia comportato, lo hai visto. Silenzio e orazione. Silenzio. Perché, se Satana fa la sua opera di seduttore e ci viene intorno, lo si deve subire senza stolte impazienze e vili paure. Ma reagi­re con la sostenutezza alla sua presenza, e con la preghiera alla sua seduzione.
È inutile discutere con Satana. Vincerebbe lui, perché è forte nella sua dialettica. Non c’è che Dio che lo vinca. E allora ricorrere a Dio, che parli per noi, attraverso a noi. Mostrare a Satana quel No­me e quel Segno, non tanto scritti su una carta o incisi su un legno, quanto scritti e incisi nel cuore. Il mio Nome, il mio Segno. Ribattere a Satana, unicamente quando insinua che egli è come Dio, usando la parola di Dio. Egli non la sopporta.
Poi, dopo la lotta, viene la vittoria, e gli angeli servono e difendono il vincitore dall’odio di Satana. Lo ristorano con le rugiade celesti, con la grazia che riversano a piene mani nel cuore del figlio fede­le, con la benedizione che accarezza lo spirito.
Occorre avere volontà di vincere Satana e fede in Dio e nel suo aiuto. Fede nella potenza della preghiera e nella bontà del Signore. Allora Satana non può fare del male.
Va’ in pace. Questa sera ti letificherò col resto».
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/